VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

29 set 2013

Ancora sul tema dell'utero in affitto

Fondato sulla sabbia? (3)

Mi riferisco al suo articolo del 30 giugno Un rene e un bambino a proposito dell’utero in affitto. Il suo ragionamento è logico, non fa una piega. Ma il fondamento è fragile perché lei parte dal presupposto che l’embrione sia un soggetto di diritti, che si possa già considerare persona. Chi ci dice questo? Chi ce ne dà la certezza? Lei sa che il dibattito è molto aperto su quest’argomento. Se non fosse così, se la scienza ci dimostrasse che questa ipotesi è sbagliata, tutto il suo ragionamento crollerebbe. Non sembra anche a lei?

Corrado

 

Caro Corrado, a me non sembra che il fondamento delle mie riflessioni sia così fragile. Né, credo, verrebbe a cadere se pure la scienza, come lei dice, dovesse dimostrarci che l’ipotesi che l’embrione possa essere considerato vita umana è un’idea sbagliata. O infondata.

Non intendo qui rientrare sulla questione ‘embrione vita umana’ o ‘embrione insieme di cellule vitali’. Ci abbiamo dedicato già tre incontri (ottobre e novembre di due anni fa). Qui richiamo soltanto un pensiero: spesso usiamo la parola scienza in modo inappropriato. La ricerca, con gli strumenti sempre più nuovi che la tecnologia ci mette a disposizione, ci porta verso conoscenze sempre più ampie. Ma perché la ricerca diventi scienza è necessario che essa sappia dialogare con il pensiero umano (= la filosofia). Una macchina, cioè, anche la più sofisticata, non sarà mai in grado di rispondere alle domande sulla vita e sul significato di essa. Sarà sempre la nostra mente che dovrà leggere (= interpretare) le conoscenze. Vecchie e nuove.

 

Riprendiamo, ora, la sua obiezione sul fondamento delle mie riflessioni. Lei ne coglie la fragilità, perché lo vede posto soltanto sull’idea dell’embrione. Può darsi che il mio scritto non sia stato sufficientemente chiaro su questo punto. Quindi lo riprendiamo.

Il fondamento del mio ragionamento non sta tanto (o soltanto) sull’idea dell’embrione come vita umana, ma sul fatto che ad essere coinvolto in una scelta, come quella che chiamiamo utero in affitto, è un bambino. Perché al termine di una gravidanza è un bambino che nasce, non un embrione con miliardi di cellule. Le mie considerazioni sono fondate su questo dato di fatto: noi adulti abbiamo deciso per lui una strada sulla quale il suo parere non ha per noi alcun valore. E questo, nonostante si tratti prima di tutto della sua vita. Dopo, solo dopo, anche della nostra.

 

Perché dobbiamo mettere un bambino in una condizione che non rispetti, fin dal principio, il suo bisogno di vivere una relazione di normalità? L’altra volta accennammo brevemente al profondo dialogo che si attiva in gravidanza tra madre e bambino. Di dialogo biologico, abbiamo parlato, e di dialogo psicologico. Cioè affettivo. (E non diciamo niente, per oggi, dei sentimenti di una donna, che per nove mesi condivide la vita con un bambino, dentro di lei. Poi lo partorisce. Poi? Poi, pagata, deve scomparire. Una donna ridotta a un utero).

 

Ma torniamo al bambino. Lei mi dirà che ci sono tante situazioni in cui un bambino non può crescere con i suoi genitori biologici. Pensiamo, ad esempio, a tutti quei bambini in stato di abbandono che sono accolti e cresciuti in una nuova famiglia. Bambini adottati e famiglie adottive ne conosciamo tutti, credo. Bambini che perdono un genitore, o anche tutti e due, per gravi malattie, incidenti stradali o sul lavoro. Bambini abbandonati da adulti incapaci di prendersene cura, perché presi da problemi più grandi di loro e a cui non riescono a far fronte.

In tutte queste situazioni è certo una benedizione della vita se un bambino trova accoglienza in una famiglia piuttosto che vedersi costretto a vivere la sua fanciullezza o la sua adolescenza in una comunità. O, peggio ancora, per strada.

Io mi chiedo, però, perché dobbiamo mettere un bambino in una situazione innaturale fin dal momento in cui ne progettiamo l’esistenza. Il mio dubbio è che certe scelte le facciamo guardando soltanto a noi stessi. Ascoltando, cioè, soltanto il nostro bisogno di avere un figlio. Costi quel che costi. E non soltanto a noi. Ma anche a lui. Andiamo avanti, senza chiederci quanto sia giusto per lui essere collocato in un percorso anomalo. Innaturale.

 

Il mio timore è che tante volte, di fronte ai bambini, dimentichiamo una parola. Una parola difficile. Perché per alcuni essa sa di moralismo; per altri è roba d’altri tempi; per altri ancora fa parte di quelle robe che dicono i preti. Ma siamo proprio sicuri che RESPONSABILITÀ non sia, invece, la parola che ci definisce come persone? Come esseri umani, adulti, che sono responsabili di fronte ai più piccoli. Di fronte a coloro che decidiamo di mettere al mondo. A coloro cui chiediamo di condividere con noi il mondo – che a nostra volta abbiamo ricevuto da chi era prima di noi – e ai quali lo lasceremo perché siano essi, un giorno, a prendersene cura. Con il loro senso di responsabilità.

 

(2. Un rene e un bambino

(3. Fondato sulla sabbia?)

(4. Un figlio tutto nostro)