VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

30 giu 2013

Un rene e un bambino… (2)

C’eravamo lasciati, la settimana scorsa, con l’invito a respirare. Ricordate? Respirare ci aiuta a fermare, un momento, i pensieri che si accavallano. Per poi ripartire. Per la verità un po’ di cose che ci dobbiamo dire oggi ce le siamo già dette in altre occasioni. Le richiamiamo.

Due anni fa parlammo di embrioni e ci chiedevamo se dobbiamo pensarli soltanto come un insieme di cellule, vitali sì, ma alle quali non possiamo riconoscere la dignità di essere umano, o se invece dobbiamo già considerarli l’inizio di una vita. Le nostre riflessioni ci portavano a propendere di più verso questa conclusione. Con la conseguenza, una volta abbracciata quest’ipotesi, che allora di fronte ad un ovulo fecondato (in laboratorio o per via naturale) non possiamo agire come se fosse un oggetto (cioè una cosa), ma dobbiamo riconoscerlo come soggetto di diritti (cioè una persona – sia pure ancora in formazione).

A febbraio di quest’anno ci fermammo a riflettere sulla fecondazione assistita. Ci chiedevamo allora se la ricerca di un figlio non abbia origine, molte volte, più da un bisogno che da un desiderio. Chiarendo che parliamo di desiderio quando nella decisione di mettere al mondo un figlio prevale il progetto di accogliere nella nostra casa una vita che arriva; mentre parliamo di bisogno quando nella ricerca di un figlio è più forte, quindi prevalente o addirittura esclusiva, la necessità di riempire un vuoto: un vuoto nella nostra casa, nella nostra relazione di coppia.

 

Oggi proviamo a dirci qualcosa in merito a quel fenomeno – che comincia ad essere piuttosto frequente – cui diamo il nome di utero in affitto. Oggi la tecnologia ci permette, senza troppi problemi, di impiantare un embrione nell’utero di una donna, anche se l’ovulo fecondato non nasce dal suo corpo. E se l’operazione va a buon fine, dopo i nove mesi di gravidanza nasce un bambino. Così come, sempre la moderna tecnologia ci permette di prendere un rene da una persona sana e trapiantarlo nel corpo di una persona malata. E anche qui, se l’operazione va a buon fine, colui che riceve il rene recupera quella salute che una grave malattia stava seriamente compromettendo. E il donatore del rene continua la sua vita normale.

 

Ora ci facciamo una domanda. Tra questi due ‘impianti’ – l’embrione nell’utero di una donna e il rene nel corpo di un’altra persona – c’è una differenza solo nelle metodiche d’intervento? Ciò che rende diversi i due impianti, cioè, è soltanto la tecnica che usa lo specialista per realizzarli? O c’è dell’altro?

Credo sia evidente a tutti che una differenza c’è, e non di poco conto. Un trapianto di rene mette in campo il trasferimento di un organo, un rene, da una persona a un’altra. Quel rene che prima stava nel mio corpo, ora è inserito nel corpo dell’altro e continua la sua funzione di purificatore del sangue. Ha semplicemente ‘cambiato casa’ potremmo dire.

È così anche per un embrione che, inserito nel corpo di una donna, diventa bambino?

 

Qui credo che dovremmo recuperare un pensiero. Se nella relazione tra il donatore di un rene e il ricevente, di mezzo c’è un organo (= il rene), nella relazione tra una persona (o una coppia) che fa impiantare un ‘suo’ embrione e la donna che lo riceve nel proprio utero, non c’è di mezzo soltanto, né semplicemente, un insieme di cellule viventi. Qui c’è di mezzo un altro essere umano. Un bambino. Allora dobbiamo chiederci: ma questo bambino, l’ha sentito qualcuno? Qualcuno gli ha chiesto il suo parere? Gli ha chiesto se era d’accordo con il progetto di crescere dentro il corpo di una donna, per poi abbandonarla – e vedersi da lei abbandonato – al momento della nascita perché una disposizione di legge ha deciso che lui è figlio di qualcun altro?

 

Oggi le scienze biologiche e psicologiche ci dicono che i nove mesi di gravidanza sono un tempo di dialogo tra madre e bambino. Un dialogo che ha una duplice dimensione. Quella biologica: il corpo della mamma e quello del bambino sono in un processo di comunicazione continua. La madre si prende cura della crescita del figlio, così come lui si prende cura di lei inviando alla ‘centralina’ (= ipofisi) del corpo materno, quei segnali necessari perché lei si procuri ciò di cui entrambi hanno bisogno per restare in salute. Ma c’è anche un dialogo psicologico. Le emozioni della mamma e le emozioni del bambino si ascoltano e s’interrogano. E giorno dopo giorno la loro ‘conversazione’ si affina e diventa sempre più profonda.

 

Che fine farà tutta questa intimità che, nei primi nove mesi di vita di questo bambino, madre e figlio insieme hanno costruito? Dove andrà tutto questo nel momento in cui, dopo il parto, i due saranno forzatamente separati? È giusto che una disposizione di legge riconosca valido un ‘contratto’ tra adulti (la coppia che ha chiesto in affitto l’utero e la donna che ne ha accettato la richiesta) fatto alle spalle di un bambino? Cioè di un altro essere umano – che, oltretutto, non era in condizioni di poter dire la sua?

 

(2. L'utero in affitto

(3. Fondato sulla sabbia?)

(4. Un figlio tutto nostro)