VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

20 feb 2022

Ritrovare la ricchezza del passaggio tra generazioni

La saggezza della foglia

In un bel pezzo di cinquant’anni fa, Cat Stevens, ora Yusuf Islam, un autore di origine greco cipriota, ci canta una conversazione a due tra un padre e un figlio, Father and son. Ciascuno porta il suo pensiero. E il suo tempo. Prendila calma, dice il padre, c’è ancora tanto che devi conoscere; come posso spiegartelo, è la solita vecchia storia, risponde il figlio, impaziente. Conversazione, specchio della ricchezza e della difficoltà nell’incontro tra generazioni.

 

Quando una foglia alla fine della stagione scende dall’albero, non chiude semplicemente il tempo della sua vita. Prima di andarsene si cura di lasciare alla foglia che inizierà il cammino nella nuova stagione le istruzioni che le permetteranno di continuare con competenza e con cura il suo compito di vita. Apoptòsi (apò da, ptòsis caduta), così i biologi chiamano questo processo. È la morte programmata. Che, vista con uno sguardo più ampio, ci appare nella pienezza della vita che percorre il suo ciclo. Vita-morte-vita. È una sinfonia di saggezza: la foglia che, concluso il suo tempo, cade e si trasforma in alimento per la pianta che l’ha fatta vivere, e la foglia che al risveglio della stagione si apre alla vita. Con la ricchezza dell’eredità che chi l’ha preceduta le ha lasciato.

 

Non sempre è così tra gli umani. È di questi tempi il rincorrersi di rottamatori. Così si definiscono. Non è una bella parola: loro scopo è far fuori dal terreno di gioco chi li ha preceduti. Chi, cioè, ha preparato la strada dove essi ora camminano. La politica ce n’ha fornito qualche esempio, poco felice per la verità: in poco tempo, infatti, essi stessi si son ritrovati, o si ritrovano, vittime dello stesso processo.

È un vero peccato che noi umani, autocollocati sul gradino più alto dell’evoluzione, non sappiamo cogliere la ciclicità che guida la vita. Sul nostro pianeta. E non solo. Perfino il sistema solare di cui siamo parte è il risultato di tutto un processo evolutivo in cui ogni momento era, e continua ad essere, nient’altro che la prosecuzione, armonica, del precedente. In un ciclo vitale in continua progressione. È vero, i tempi evolutivi di un sistema solare, di una galassia o dell’intero universo trascendono di gran lunga la nostra capacità percettiva: mutamenti e trasformazioni che misurano il tempo in milioni o miliardi di anni sono impossibili da cogliere da chi il tempo lo misura in appena qualche decina!

 

Ma ritorniamo sulla terra. Tra noi umani. Il rapporto tra generazioni si muta spesso in conflitto. Nella politica, dicevo. Ma anche in altri aspetti della vita sociale. Nel mondo della produzione, dove non è infrequente che a cinquant’anni sei già fuori mercato, al punto che se una qualche contingenza ti getta sulla strada, diventa un’impresa da ciclopi trovare un nuovo lavoro. Perfino nel mondo delle religioni. Dove pure, per definizione potremmo dire, lo sguardo dovrebbe godere di un campo visivo più ampio, invitato com’è a cogliere il presente in una ciclicità di passato e futuro che si integrano. Perfino qui troviamo che tra gli ultimi arrivati c’è chi si presenta con un pacchetto di verità che facilmente si con-fonde con spunti di presunzione. Non a caso, per restare in casa nostra, chi ha il compito di guidare la comunità è chiamato presbìtero (dal greco presbỳteros, anziano). Da cui il più sintetico prete.

 

Mi ha sempre colpito quel proverbio africano che vede nel vecchio che muore una biblioteca che brucia. Il vecchio è il culmine di una vita. Ne è la pienezza. Non è pura questione di ricordi, accavallati l’uno sull’altro, relativi ai tempi passati. Google o Yahoo, oggi, surclassano ampiamente l’accumulo di ricordi di un essere umano. No. Il vecchio è la ricchezza di esperienza, di affetti, di ricerca.

Non a caso, credo, in quella piccola grande biblioteca di saggezza che costituisce la Bibbia, troviamo parole piene di significato che tante volte, nelle nostre sbrigative traduzioni, rischiamo di perdere. Onora tuo padre e tua madre, traduciamo.[1] Più correttamente Erri De Luca, non teologo né biblista, ma poeta attento, traduce Dài peso a tuo padre e a tua madre. Dài peso (l’ebraico cobèd è peso, intensità, consistenza). Cioè riconosci la forza e la consistenza delle tue radici. Tu sei perché loro sono, prima di te. Tu prosegui chi ti ha preceduto. E chi verrà dopo di te continuerà la tua esistenza.

 

Se la foglia di primavera dicesse “non m’interessa l’eredità di mia madre, so io come si vive”, sarebbe persa. Inconsistente il suo progetto. Inutile lei, addirittura dannosa, all’equilibrio stesso della natura cui appartiene. Altrettanto per la foglia d’autunno che pretendesse di restare sull’albero o non volesse passare la sua esperienza.

Saggia è la foglia che lascia il suo sapere. Altrettanto saggia quella che l’accoglie e lo fa vivere.

 

[1] Esodo 20,12