VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

9 mag 2021

Un buon criterio per prendere posizione

Dalla parte giusta

Non di rado ci troviamo davanti alla domanda dove sia la ragione e dove il torto. Nelle questioni private come nei problemi che ci coinvolgono in quanto appartenenti ad una comunità. Sia essa civile, politica, sociale o anche religiosa.

Un buon punto di partenza, a mio parere, dovrebbe essere questo: porsi dalla parte giusta è porsi dalla parte delle vittime. Vittima è chi subisce. Un torto, un’aggressione, una violenza, un’offesa, un danno. È la parte del più debole.

Questi giorni diverse vicende sono riemerse, accanto a fatti che continuano, e continueranno, a ripetersi.

 

La più gridata. Quattro ragazzotti che si sono divertiti (sic!) alle spalle di una ragazzina. In Sardegna, luglio di due anni fa. Stupro? Saranno i giudici a valutare, ma di certo non possiamo non stare dalla parte di lei. La più debole. E anche se ci fosse stato un (iniziale) consenso – tutto da dimostrare –, nel momento in cui in quattro (maschi) si divertono approfittando di una ragazza ubriaca, non credo ci voglia grande intelligenza per cogliere l’imparità di una relazione.

E imparità su imparità, la capacità mediatica del padre di uno di loro, uomo di potere com’è il capo di un movimento politico, nelle potenzialità di esposizione delle proprie valutazioni rispetto a quelle di cui dispone un semplice e privato cittadino. Ma non solo. C’è un altro aspetto che solitamente rischiamo di sottovalutare. In ogni processo per violenza sessuale è (quasi) sempre la vittima (la donna) a dover subire domande, insinuazioni, sorrisini e battutine. Perfino in sede giudiziaria. Come se di fronte alla giusta presunzione d’innocenza per l’accusato, andiamo a mettere un’ingiusta presunzione di colpevolezza in chi sporge querela.

 

La più sorprendente. La Francia, finalmente (!), ha deciso di riconoscere il diritto dell’Italia a vedersi rimandati a casa i terroristi degli anni di piombo condannati dalla nostra giustizia con sentenza definitiva e rifugiatisi là. C’è chi ha visto in questi signori le vittime della situazione. Quasi si tratti oggi di una vendetta dello stato o dei familiari, figli o coniugi, dei condannati a morte dal terrorismo di allora. No. Guardiamo bene. Le vittime non sono loro: vittime sono le persone uccise da loro e i familiari di queste. I quali possono anche elevarsi a sentimenti di perdono, con tutta la nostra ammirazione, ma non può uno Stato, una società civile, far finta che tanto non sia successo. È una questione di giustizia.

Le situazioni più comuni. Un uomo che picchia la sua compagna non è vittima delle provocazioni verbali di lei, come spesso si tende a sostenere. È responsabile per non essere in grado di controllare il proprio istinto e la propria forza fisica. Per non parlare, naturalmente, di quando la sua presunta inferiorità, perché vittima della decisione di interrompere la relazione da parte di lei, la traduce in omicidio. In femminicidio.

Vittime sono i profughi, costretti a lasciare il loro paese per la guerra o le distruzioni ambientali di cui siamo responsabili. Vittime sono loro. Non noi che li respingiamo. Al grido di prima noi!

 

Ma la vicenda sempre più frequente, dov’è ancora più necessario non confondere i piani, è quella che vede genitori e figli nelle separazioni. Qui due sono gli aspetti da considerare.

Il primo. Ogni separazione è fonte di sofferenza per i figli. Tanto più quanto più questi sono piccoli. L’incapacità degli adulti di riconoscere le difficoltà della vita di coppia, di guardarle, di affrontarle, nel rispetto reciproco e, soprattutto, nel rispetto del progetto che li aveva portati a mettere in piedi una famiglia e a far entrare in essa dei figli, ricade come un macigno sulle spalle di un bambino. I genitori che vivono in due case diverse sono ai suoi occhi una frattura. La rottura di un legame affettivo sul quale lui possa contare e al quale affidarsi. Con tutta l’energia e la totalità di abbandono di cui un bambino è capace.

Ma c’è un altro aspetto, ancora più doloroso. Quando due adulti, dimentichi dell’essere genitori, continuano ad azzuffarsi come coniugi. Quando, incapaci di separarsi realmente, continuano a litigare, a farsi del male, ridotti a comunicare solo attraverso gli avvocati. Quando l’uno offende l’altro di fronte ai figli. Quando per dire qualcosa al babbo la mamma la dice al bambino perché sia lui a portare il messaggio. O il babbo, perché arrivi a lei, l’affida al figlio, magari condito pure con qualche parolaccia. Un figlio ridotto a messaggero di dichiarazioni di guerra.

Dalla parte di chi dobbiamo stare? Ogni volta che due adulti si rivelano incapaci di parlarsi senza mettere di mezzo i figli, quest’ultimi sono la vittima. Ed è stare dalla loro parte che significa stare dalla parte giusta.

 

Ricordiamo: unicuique suum, a ciascuno il suo. Senza troppi distinguo, confondere la vittima con l’aggressore è l’errore più grave che possiamo fare nelle relazioni umane. Personali e sociali.