VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

1 mar 2020

Dalla biochimica all’amore: un salto da vertigini

Tra mente e cervello

Sempre più in profondità riusciamo ad entrare nel nostro cervello. A comprenderne il funzionamento. Ne abbiamo perfino trovato tracce nell’intestino: secondo cervello l’abbiamo chiamato.[1] Ne cogliamo il funzionamento elettrochimico, lo misuriamo, lo vediamo addirittura tramite gli strumenti che la medicina nucleare ci mette a disposizione. Riusciamo a vedere quali aree sono maggiormente coinvolte quando attiviamo certi pensieri o sperimentiamo determinate sensazioni. Sappiamo connettere perfino i nostri stati d’animo con l’eccesso o la scarsità di quelle sostanze (mediatori chimici) che permettono il dialogo tra i neuroni (le cellule cerebrali). Ne riequilibriamo la presenza e l’interazione con l’aiuto di farmaci (psicofarmaci). Sappiamo evidenziare connessioni locali, dirci dove certe memorie vanno a depositarsi e cosa succede quando la memoria stessa sembra indebolirsi. La neurochirurgia è in grado di asportare quelle masse tumorali dalla cui aggressione neppure il cervello è immune. Possiamo correggere e recuperare gravi eventi traumatici, esogeni o endogeni.

E sapremo sempre tanto, tanto di più.

 

Poi, però, quando ci collochiamo di fronte al pensiero e alla coscienza, a quella capacità che ci permette di essere consapevoli di noi stessi, le nostre macchine, anche le più sofisticate, si fermano. E non sanno dirci parole di chiarimento o di spiegazione.

Una corrente scientifica, il panpsichismo (dal greco pan tutto e psyché mente), sostiene che la coscienza pervade tutto l’universo e ne è una caratteristica fondamentale. Ogni essere cioè, sia esso animale o pianta o oggetto, perfino i costituenti del microcosmo come i quark o gli elettroni... tutto ha una sua forma, sia pur minima, di esperienza. Sia essa dolore o piacere o comunque sensazione. E il nostro pensiero, la nostra esperienza, la consapevolezza che ci distingue come esseri superiori nella scala evolutiva – così almeno noi ci riteniamo – deriverebbe soltanto dalla combinazione delle capacità di ciascuna delle componenti del nostro organismo.

 

È veramente così? Di certo abbiamo bisogno di ulteriori approfondimenti. Una tecnologia sempre più sofisticata ci dirà, fra breve o fra tanto tempo, se e quanto un elettrone esperisce di sé e del mondo esterno. Ma rimane ancora la domanda: che cos’è l’esperienza? Cos’è la coscienza? Può il pensiero essere ricondotto a pure e semplici combinazioni di fenomeni elettrici o biochimici? Può essere il puro risultato di una sommatoria di esperienze che dagli elementi del mondo subatomico, agli atomi, alle cellule, agli organi, arriva al cervello umano ed emerge come creatività e consapevolezza? Come sentimento che, tra piacere e dolore, tra istinto e pulsioni, tra bisogno e desiderio, raggiunge quella vetta della nostra esperienza che chiamiamo amore?

 

Ecco. Ci siamo spostati: da un piano quantitativo ad un altro che ci parla, invece, di qualità. Possiamo misurare la tempesta chimica che si attiva quando siamo innamorati, ad esempio: la quantità di adrenalina presente nel nostro corpo, la dopamina o la serotonina che circola tra i neuroni. Ma non possiamo misurare l’amore. La sua qualità. Ne sentiamo l’intensità, ne percepiamo la forza. Ma non potremo mai misurarlo. Sì, di fronte all’io ti amo che ci viene detto, siamo pronti a rispondere io di più!  Ma il di più o il di meno sono categorie puramente soggettive. E non c’è macchina in grado di misurare né l’uno né l’altro.

Chi pose tanta forza nel tuo cuore? chiede disorientata Turandot, la principessa infelice perché non sa amare, a Liù, la giovane schiava di Calaf, innamorata di lui al punto da affrontare la morte pur di non rivelarne il nome. Principessa, l’amore! è la sua risposta.[2] Semplice. Divina.

Sì, divina. È l’impronta di Dio, mi dice un giorno Gabriella. Collega e amica. La spiritualità che sa coltivare, più che la religione, le permette di cogliere la Sua firma nel cuore dell’uomo. Quella firma che sedici secoli fa Agostino aveva chiamato inquietudine quando, rivolgendosi al suo Dio, scrive Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te.[3]

Più d’uno sostiene che non serve chiamare in causa un Dio. La biologia o la psicologia non vi ricorrerebbero. Gli strumenti della scienza, di tutte le scienze, per quanto sofisticati, non sono in grado né di coglierne la presenza né di negarla.

 

Il pensiero, nella sua duplice dimensione, cognitiva e affettiva, trascende il cervello. Credo che dobbiamo accettare che al passaggio dal piano della quantità, sempre misurabile, al piano della qualità, che sfugge ad ogni tentativo di codifica, la scienza non sa dare un nome. Lo possiamo chiamare Energia vitale. Lo possiamo chiamare Dio? Perché no? mi dico. A me non dispiace.

 

[1] La Mente e l’anima, vol. 5, pag. 222

[2] Puccini, Turandot

[3] S. Agostino, Confessioni