VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

13 dic 2020

Aborto e maternità surrogata: violenza contro le donne

Due, tra le mille facce

Caro Federico, purtroppo non mi trovo a condividere alcune tue riflessioni nell’articolo Mille facce del 22 novembre. Violenza è lo stupro subìto, non l’aborto. Ammesso e non concesso che si voglia parlare dell’aborto come violenza, di sicuro non rientra nel tema della violenza di genere contro le donne. Sulla gestazione per altri, il fatto che una donna decida di prendere liberamente questa scelta non può essere a mio avviso criminalizzato...

Lucio

 

Grazie, Lucio, per la tua attenzione e le tue osservazioni. Provo a chiarirmi meglio. Il mio era un invito a riflettere su come la violenza di genere possa insinuarsi in forme che, di solito, non guardiamo. Di proposito non ho parlato di violenza fisica (percosse) né di violenza sessuale (stupro) né di femminicidio (al 25 novembre in Italia eravamo arrivati a 81). Perché subito, quando diciamo violenza sulle donne, il nostro pensiero va a questi terribili fatti. Ho voluto richiamare la nostra attenzione su forme diverse di violenza. Ma non per questo meno pesanti. Entro subito nei due punti che tu mi segnali.

 

Ho parlato di aborto come di violenza contro la donna. Perché è proprio quest’aspetto particolare che intendo evidenziare, lasciando da parte, per ora, altre considerazioni. Molteplici sono le ragioni che portano una donna a questa decisione. E tutti sappiamo che, qualunque ne sia la ragione, è sempre una scelta sofferta. Perché lo guardo come violenza di genere? Mi spiego. Una gravidanza è il risultato di un incontro tra una donna e un uomo. Incontro fugace o incontro all’interno di una relazione stabile. Sono sempre due le persone coinvolte. Entrambi, quindi, ne condividono la responsabilità. Anche quando la gravidanza si rivela indesiderata. O addirittura impossibile da accogliere.

Che succede nel momento in cui nasce la domanda se portarla avanti o interromperla? Nella peggiore delle ipotesi lui si defila. O addirittura scompare. E lei rimane sola. Il problema è suo. Tutto sulle sue spalle. È lei che, oppressa da quest’interrogativo, deve trovare una soluzione. Prendere una decisione. Lui non c’è più. Non è violenza di genere?

Ipotizziamo ora che lui ci sia. Entrambi vivono una relazione stabile. Ma lui non vuole (altri) figli. E tu sai che non è infrequente questa situazione. Inizia così, una goccia dopo l’altra, una specie di lento ma continuo assedio da parte di lui. Lontananze. Silenzi. Sguardi. Un a che punto sei? ogni tanto. E a lei non resta che il tormento delle domande, valutazioni, riflessioni, pensieri, angosce. E notti insonni. Può essere anche lei a non volerlo, certo. Ma lei comunque rimane in prima fila.

Un aborto non è una passeggiata, mi diceva una donna. Non lo è sul piano fisico: è lei che deve recarsi in ospedale e pagare l’intervento con il suo corpo. Non lo è neppure su quello mentale: in oltre quarant’anni di professione non ho mai incontrato una donna che vivesse il suo aborto con cuore leggero. Questo rimane scritto in lei. Come una ferita. Che ogni tanto si riapre. Lui può anche dimenticare. Lei no. Non è violenza di genere?

 

Due parole ora sulla gestazione per altri. Una donna è una persona, non un organo. Lei non è un utero. Lei ha un utero. Il suo utero è parte di lei, della sua mente, del suo cuore, di tutta la persona. Ma questa pienezza di umanità non è presa in considerazione dal committente. Singolo o coppia che sia. Omo o eteroaffettiva. Il committente paga. Molto, poco? Dipende dalle condizioni socioeconomiche di lei. Lei deve dare una prestazione. Per questo viene retribuita. Il legame, biologico e affettivo, che una mamma e un bambino costruiscono e vivono nei nove mesi di gravidanza non ha valore. È ignorato. Lei dovrà partorire poi andarsene. E andarsene il prima possibile. Non è questa violenza di genere? Violenza verso una donna ridotta a un organo.

Ancora. A questa donna è richiesto di mettere il suo bambino nella condizione di dover perdere, sùbito, alla nascita, sua madre. E non si dica che i gameti (ovulo e spermatozoo) non sono biologicamente suoi e del suo compagno, quindi non possiamo dire suo il bambino che nasce. Quell’ovulo fecondato che in lei ha trovato casa e nutrimento è diventato una persona nella pienezza di una relazione umana. Tra loro due: madre e figlio. Ma questa relazione viene tagliata. Annullata. Il committente ha pagato e lei deve rispettare i patti. Non è violenza di genere? Magari è anche violenza di classe (socioeconomica)... ma di questo parleremo in altre occasioni.

 

Vedi, Lucio, queste sono alcune tra le tante riflessioni che mi portano a collocare tra le forme di violenza contro la donna anche aborto e gestazione per altri. Più antica la prima. Più recente l’altra. Ma entrambe, a mio parere, anche se di solito quest’aspetto tende a sfuggirci, rientrano a pieno diritto in questo triste capitolo.

 

 

- Qui l'articolo Mille facce

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