VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

20 lug 2025

Ancora sul celibato obbligatorio per i preti

È una lunga storia

Una notizia triste questi giorni, ancora più triste per me che sono credente: nel torinese un giovane prete si è tolto la vita. Chi sa con quale dolore stava vivendo... Io penso anche alla sua solitudine e mi sono chiesta perché la chiesa continua a impedire ai preti di farsi una famiglia...

Angela

 

Angela, di fronte alla morte ricercata, quando una persona le si affida anzitempo, il mistero di quel cuore è d’una profondità davvero grande. Il guazzabuglio del cuore umano, abitato da una miriade di sentimenti, gioia dolore amore odio paura coraggio angoscia speranza e infinite altre sfumature, qui diventa ancora più irraggiungibile. Questo dovrebbe farci porre, di fronte a chi si toglie la vita, con il silenzio. Di chi sa fermarsi. Interrogare sé stesso. E accettare di non avere parole. Lei, però, va oltre. Immaginando il dolore di questo giovane uomo si chiede se non abitasse il suo cuore anche quella sofferenza che chiamiamo solitudine affettiva. Magari sì, ma non possiamo chiuderci solo dentro questo pensiero: né lei né io, né i tanti che ne hanno scritto, abbiamo conosciuto Matteo. Una cosa, però, possiamo fare. Insieme. Gli inviamo un pensiero buono, che sia preghiera e vicinanza, che lo accompagni nel prosieguo del suo viaggio nella vita oltre la morte.

 

E ora alla sua domanda. È una storia complessa, pure un po’ complicata, questa. Un punto, comunque, va messo subito in chiaro: il celibato obbligatorio per i preti non è un’indicazione di Gesù. Esso nasce come regola che la chiesa cattolica costruisce nel tempo. E come se l’è data, la può sciogliere. Senza che per questo il sacerdozio ministeriale perda in dignità o funzioni (nonostante affermazioni contrarie che ogni tanto fanno certi uomini di chiesa)[1]. Nei primi dieci secoli di cristianesimo c’erano preti e vescovi sposati, accanto ad altri celibi. Lo stesso S. Paolo, I secolo, pur scegliendo per sé di non farsi una famiglia, in una delle sue lettere rivendica il diritto ad avere una compagna come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Pietro.[2] (Di Pietro, infatti, i vangeli raccontano anche di un incontro di Gesù con la suocera). E nella lettera ad uno dei suoi collaboratori scrive, a proposito dei presbìteri, cioè preti e vescovi, ognuno di loro sia irreprensibile, marito di una sola donna, con figli credenti...[3] È nel III-IV secolo che inizia ad aprirsi un confronto sull’opportunità di una vita celibataria o coniugale per i preti e i vescovi cui sono affidate le varie comunità. Fino ad arrivare, intorno all’XI secolo, che il celibato, nella chiesa cattolica, diventa obbligatorio.

 

Se vogliamo guardare alle ragioni che sono alla base di questa norma, a mio parere possiamo racchiuderle in tre ordini di pensiero: un primo, di natura spirituale; un secondo, di natura economica; un terzo, che potremmo definire psico-gestionale.

La prima ragione è quella che viene portata avanti con convinzione e forza di pensiero all’interno della chiesa, sia come istituzione sia come comunità di credenti. Il celibato è una scelta di vita. Invece che creare una famiglia con moglie e figli, per il prete diventa famiglia la comunità cui appartiene con il suo ministero. Lorenzo Milani, il prete maestro di Barbiana, parlando degli insegnanti diceva che dovevano essere come i preti, celibi, così sarebbero stati più disponibili per i loro alunni. È a questa ragione, che invita a cogliere il tempo di questa vita come parte di una Vita più ampia e più piena, che fanno riferimento tutti i documenti della Chiesa: discorsi, lettere, riflessioni, encicliche, concili.

 

Quando, all’inizio del secondo millennio, il celibato per preti e vescovi diventa obbligatorio c’è però anche una seconda ragione che spinge. Che confonde e inquina la dimensione spirituale. Non la si dice apertamente, ma il peso che gioca nel portare verso l’obbligatorietà del legame sacerdozio ministeriale e celibato è grande. La chiesa ormai possiede tanti beni, dispone di tante proprietà. Frutto anche di donazioni e lasciti. Il prete o il vescovo, responsabili d’una parrocchia o di una diocesi, sono gli amministratori di questi beni. Se avessero una famiglia si dovrebbero occupare anche di questa, del suo mantenimento. Com’è per ogni buon padre di famiglia. E alla loro morte i figli e, se ancora in vita, la moglie non possono essere lasciati in mezzo a una strada. Questo porterebbe ad un logorio, a lungo andare, dei beni di quella parrocchia o di quella diocesi. Cioè, della chiesa. Un prete o vescovo celibe non deve mantenere nessuno se non sé stesso. E alla sua morte tutto rimane lì. Semplice e chiaro. Di questa seconda ragione non si dice, né si scrive. Ma gli storici concordano nel riconoscerle un peso grande e significativo.

C’è poi un terzo ordine di ragioni. Di cui non si parla. Non solo. Il rischio vero è che non se ne abbia neppure piena consapevolezza. Porta vantaggi sul piano organizzativo, ma non poca fatica su quello psicologico. Ma su questo torneremo una prossima volta.

 

 

[1] Cfr. Preti... sposati? 2020

[2] 1 Cor 9,5

[3] Tito 1,6

 

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Per chi desidera approfondire:   Preti... sposati? (1 e 2) 2020,  Clericalismo  (1, 2, 3, 4) 2021  In fondo a ciascuna pagina c'è il link alla pagina successiva