VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

5 nov 2023

Novembre, un buon mese per... ascoltarci

Tre aršin di terra

Verità, non prestarmi troppa attenzione, è troppo ampio il tuo sguardo per i miei occhi: chi sa dire la parola giusta di fronte alle domande che nascono ogni volta che incontriamo la morte? Così, anch’io chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte.[1]

Prendo in prestito queste parole dalla poetessa polacca per fermare il pensiero sui giorni che il calendario ci propone. E sulle tradizioni dentro le quali veniamo a ritrovarci. Se c’è una domanda per la quale non troviamo una risposta soddisfacente, non è perché la morte? Giovani e vecchi, credenti e non credenti, di qualunque ceto sociale o livello culturale, questi giorni la tradizione ci chiama un po’ tutti. E anche l’intellettuale più scaltro o il razionalista più sofisticato, come la persona il cui pensiero cammina dentro confini di più ampia e libera semplicità, ci ritroviamo tutti con novembre che c’interroga. Sulla morte. E sulla vita.

Da quando homo sapiens ha raggiunto l’autoconsapevolezza, una delle prime domande con cui s’è trovato a dialogare dev’essere stata proprio questa. I primati anche più evoluti, l’intelligenza che pure hanno conquistato li tiene dentro confini che non vanno al di là dell’impegno e della ricerca di luoghi e mezzi per la sopravvivenza. Ma da quando l’intelligenza, nel suo processo evolutivo, ha oltrepassato, con noi sapiens, questi confini, non si ferma più sulla ricerca di escamotage per sopravvivere. Essa amplia così tanto il suo campo visivo fino a chiedersi il perché delle cose. La ragione. Il significato.

 

Ma questa capacità, se da una parte è il più alto livello che un essere vivente abbia conquistato, parallelamente si rivela anche il più impegnativo. Al punto che il richiamo a sfuggire dal tenere aperte queste domande si fa sempre molto forte. E quella che, giustamente, chiamiamo intelligenza, che è capacità di leggere dentro (lat. intus legere), preferiamo giocarcela fuori. Fuori da noi stessi. Siamo arrivati perfino a svendere questa parola che c’eravamo conquistata in un percorso evolutivo di milioni di anni. E l’abbiamo appiccicata a qualcosa di meccanico, capace sì di una velocità straordinaria, ma privo di vita: intelligenza artificiale, infatti, continuiamo a chiamarla. Ma essa non ha nulla dell’intus legere. Non sa leggere dentro. Né mai saprà farlo. È il fuori il suo campo d’azione. E va bene. Va bene se sappiamo coglierne il limite. Diventa invece pericolo costante se, sostenuti e affascinati da questa nostra creatura, arriviamo a mettere da parte, con il rischio di perderla, la domanda che eravamo riusciti a conquistare: qual è il senso, il significato, la ragione, il perché delle cose. Prima di tutto, della vita e della morte.

Con il rischio di perdere di vista che queste due parole, vita-e-morte, per essere ascoltate, hanno bisogno del silenzio. Da esso nascono e ad esso conducono. Immersi nel rumore, di corsa e in affanno conduciamo i giorni. Di corsa e nell’affanno viviamo anche le nostre relazioni. C’ho da fare diventa il mantra che recitiamo non appena qualcuno ci chiama, per un momento di attenzione. Di ascolto. Ma correre... per andare dove? Verso quale meta?

 

Nel suo piccolo campo spazzato dai venti, Pachòm si sente stretto: “Se solo avessi più terra, sospira guardando al di là del recinto, potrei essere davvero felice”.[2] Gli dicono che nel territorio dei Baškiri gli daranno tanta terra quanta ne riuscirà a circoscrivere correndo dal mattino al tramonto. Va. E a sera, al termine della corsa, fatta con il massimo dell’impegno e dello sforzo, cade a terra sfinito. E muore. La fossa in cui viene sepolto ha bisogno di soli tre aršin di terra. Poco più di due metri.

Perdonatemi, guerre lontane, se porto i fiori a casa canta ancora Szymborska. Troppo rumore di armi sta invadendo le nostre menti. Ucraina, Palestina, Sudan e tutti i cinquanta paesi della terra dove sembra che solo con gli eserciti ci si possa incontrare e misurare. Pur sapendo che questi tutt’altro sono che validi strumenti d’incontro. E di dialogo. Il rumore delle armi azzera il silenzio. Che è respiro per l’anima. E gridiamo. Armati, noi di bandiere, come gli eserciti lo sono delle armi più sofisticate. Come se queste potessero cancellare la domanda che ci abita: quale il senso della morte e della vita. Riducendoci anche noi a lamentarci, come Pachòm... se solo avessimo più terra potremmo essere davvero felici.

Ma dimentichiamo due pensieri fondamentali. Il primo, che la terra non appartiene né a me né a te. Né a un popolo o ad un altro, ma a tutta l’umanità. L’altro, che anche i Putin o gli Xi o i Kim o i Khamenei o gli Ismail Haniyeh, o i Netanyahu... anche loro, come me e come te, avranno bisogno di soli tre aršin di terra nel giorno della verità.

 

[1] W. Szymborska, Sotto una piccola stella

[2] L. Tolstoj, Quanta terra serve a un uomo

 

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