VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

29 ott 2023

Come uscire dalle sabbie mobili della Palestina

Dalla Shoah alla Nakba?

Due parole, la prima ebraica l’altra araba, un solo significato. Catastrofe.

Cos’è stato la Shoah è nella memoria di tutti. Proprio questi giorni abbiamo ricordato il 16 ottobre di ottant’anni fa, il nostro giorno della vergogna. Per non essere da meno, in disumanità, di fronte ai nazisti di Hitler, abbiamo lasciato che da Roma venissero presi e portati ad Aushwitz più di mille ebrei (dei 1023 deportati ne sopravvivranno solo 16). Sei milioni ne sono stati uccisi nei campi di sterminio: due su tre di quelli che vivevano in Europa prima della guerra. Questo la Shoah. Inaccettabile da ogni punto di vista: ci sono crimini per i quali non ci sono processi di contestualizzazione o analisi storiche che li possano giustificare. Crimini contro l’umanità li chiamiamo, infatti.

Dopo la guerra viene riconosciuto agli ebrei il diritto ad una patria. E il 14 maggio 1948 nasce lo Stato di Israele. Dall’ONU gli viene assegnato il 56% del territorio, ai palestinesi il restante. Gerusalemme corpus separatum (città neutrale).[1] Ma subito il conflitto si accende e nella guerra tra una coalizione di stati arabi e Israele, quest’ultima ha la meglio e conquista territori che non le appartengono. E più di settecentomila palestinesi devono lasciare le proprie case. È la Nakba, la catastrofe del popolo palestinese. Che continua tutt’oggi.

Alla fine del ’48 l’ONU sancisce il diritto al ritorno per i palestinesi, ma Israele non accetta. E il conflitto diventa la norma che regola i rapporti tra i due popoli.

 

Due popoli, due stati. Un mantra. Uno slogan che rischia di rivelarsi sempre più vuoto. Nonostante sia chiaro a tutti che non c’è altra strada. Salvo quella che ha scritto la storia fino ad oggi. Una guerra continua con periodi di quiete (apparente) alternati a momenti di fuoco sempre più distruttivi: guerra di Suez 1956, guerra dei sei giorni 1967, guerra del Kippur 1973. Ultimo tra tutti, quanto è iniziato sabato 7 con l’attacco criminale da parte di Hamas. Con tutto quanto ne è seguito. Ne sta seguendo. E ne seguirà.

Non c’è pace per questi territori. Israele non intende lasciare quanto ha conquistato nel ’67, nonostante il diritto internazionale neghi che territori occupati con la guerra possano diventare parte della nazione occupante. Così Cisgiordania, Golan e Gaza, territori che dovrebbero costituire lo Stato di Palestina, sono ancora, con alcune differenze, anche aree occupate da Israele. L’attuale primo ministro, pur molto contestato nel paese, continua a sostenere che con lui non nascerà mai uno stato palestinese.

 

Come muoverci? Quali strade percorrere per uscire da una situazione di guerra permanente, sotto la cenere, pronta sempre a esplodere alla prima scintilla. Ultima delle quali il 7 ottobre, con i massacri attuati da Hamas contro il popolo d’Israele. Anche questo, a mio parere, rientra tra quei crimini per i quali non c’è giustificazione né di storia né di contestualizzazione geopolitica.

Ma ormai dovremmo averlo imparato bene, noi umani del XXI secolo: crimine chiama crimine, violenza chiama violenza, guerra chiama guerra.

Sia chiaro. Israele ha diritto ad esistere. E pari diritto ha il popolo di Palestina. Non c’è Shoah che giustifichi un presunto diritto di Israele ad estendere i propri confini a territori occupati e sottratti ai palestinesi. Due popoli, due Stati dovrà essere l’impegno vero e concreto di tutta la politica internazionale.

 

Due domande ora. La prima: come può una mente umana giustificare azioni tanto violente e distruttive come la Shoah o la Nakba o gli attacchi di questi giorni, di Hamas prima e dell’esercito israeliano poi. L’altra: dove cercare una via d’uscita da tanta violenza.

 

Quando lasciamo che l’odio definisca le relazioni, tra persone o tra popoli, c’è sempre un pensiero che lo sostiene e lo alimenta: noi siamo migliori degli altri, noi abbiamo ragione, noi siamo dalla parte giusta. Quanto stiamo facendo è per il bene. Perfino il male peggiore può essere fatto e giustificato se c’è sotto la convinzione che stiamo agendo per il bene. Così funziona la mente umana.

Una possibile via d’uscita? L’etica della reciprocità. Un maestro ebreo di duemila anni fa, Gesù di Nazareth, così la sintetizzava: “Quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.[2] C’è una strada diversa? O Migliore? Mi è difficile vederla.

Ma mettere in discussione la presunzione di superiorità morale nei confronti dell’altro, avversario o nemico, richiede un livello di maturità e di consapevolezza che è solo frutto di cura di noi stessi. Di un lavoro di riflessione e grande capacità autocritica. E fare agli altri come vorremmo che loro facciano a noi è impossibile farlo nostro, se non al prezzo di curare un atteggiamento di attenzione all’altro, a chi sta dall’altra parte, come diamo attenzione a noi stessi e a chi è dei nostri.

 

Con due parole abbiamo iniziato. Due parole ora per salutarci. Shalom, Salām. L’una ebraica, l’altra araba. Con uno stesso significato. Pace.

 

[1] Risol. 181/1947

[2] Mt 7,12; Lc 6,31

 

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