VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

11 set 2022

Condannato a morte a tredici anni

E i genitori dei bulli?

Non c’era posto per lui nel piccolo grande mondo dei suoi coetanei. Gliel’avevano detto e continuavano a dirglielo. Disperato, venerdì ha chiesto aiuto al balcone. E questo, inconsapevole, senz’anima, gliel’ha dato. Quindici metri sono più che sufficienti per uscire dal mondo che non ti vuole. Ma il biglietto è di sola andata.

Ora ci muoviamo tutti. Noi per dire solidarietà alla famiglia. Magari con una lacrima al pensiero che un figlio di tredici anni se ne va. Pur sapendo che domani lo dimenticheremo. La magistratura alla ricerca delle cause. Aprirà il telefonino di Alessandro e quelli dei suoi non-amici. Leggerà i messaggi, le chat, guarderà le foto e tutto quanto questi attrezzi sanno contenere. Già qualcuno di questi non-amici è stato segnalato alla Procura. Adulti e minorenni. Poi?

I giornali parlano di istigazione al suicidio. I suoi non-amici ne risponderanno alla giustizia. Poi? Aspetteremo il prossimo che si toglierà la vita. E ricominceremo con le nostre lagnanze. Con i nostri giudizi, severi e inappellabili, verso i ragazzi di oggi. Incoscienti e superficiali. Capaci solo di giocare con la tecnologia più avanzata. Quella che certe volte, oltre che farci soggezione, ci fa rimanere incantati di fronte all’abilità con cui loro, i ragazzini, la sanno padroneggiare. Così, incantati e imbambolati, non ci rendiamo conto che sì, la sanno padroneggiare, ma – e qui è il punto – non la sanno usare. Usare i telefonini, i social per bullizzare un compagno significa non saperli usare. Significa non rendersi conto che se premi il grilletto di una pistola carica puntata su un compagno, lo uccidi. È pistola il telefonino. Pistola carica i social.

 

Un passo ora ci aspetta. Meglio, un salto. Dai ragazzi a noi adulti. Genitori ed educatori. Insegnanti, assistenti di gruppi. Religiosi e laici. Sento già qualcuno che chiede dov’erano i genitori di Alessandro. Possibile che non s’erano accorti di nulla? Della sua sofferenza. Del suo disagio. Certo, domanda legittima. Ma oggi dobbiamo andare dall’altra parte. Dov’erano i genitori dei ragazzi e ragazzini che lo stavano bullizzando? Se un quindicenne ha bisogno di fare il bullo aggredendo chi ritiene più debole di lui, significa che i suoi quindici anni li sta vivendo molto male. C’è un’insicurezza di fondo che lo definisce. Un senso di vuoto, di fallimento. Non ci sono progetti nella sua vita per cui vale la pena lavorare. Dove sono i suoi genitori? Presi dalle preoccupazioni del quotidiano, mi direte. Sì, ma c’è almeno la stessa attenzione che mettiamo verso un lavoro che permette di arrivare a fine mese, verso il progetto di vita di questo figlio? No, temo.

 

Riprendiamo i telefonini. Non immaginate quante volte mi ritrovo a lottare con i genitori circa l’uso che ne fanno i figli. Si lamentano che stanno sempre con il telefonino in mano. Perfino quando ci parlano gli occhi rimangono incollati lì. Ma non hanno la forza di dare delle regole. I ragazzi – dieci, dodici, quindici o diciotto anni – non sanno darsele. Non sanno dire adesso basta. Il luccichio dello schermo è ipnotico. Ti cattura. Non ti lascia andare. Arriva al cervello e lo illude di dargli soddisfazione. Ma quanto più questo lo segue, tanto più ne diventa prigioniero. È la legge della dipendenza. Sappiamo bene cos’è una dipendenza. Dall’alcool o dal gioco o da quelle sostanze che chiamiamo droga. Ma se non cogliamo che droga dobbiamo chiamare anche il cellulare dal quale il ragazzino non sa staccare gli occhi, siamo fregati. Meglio, lui è fregato. Ne resterà prigioniero.

Mi raccontavano i genitori di Anna, quattordici anni, che era tornata dal campeggio raggiante, felice: erano state, lei e le sue amiche, per una settimana senza telefonino. S’erano divertite un mondo.  Non illudiamoci. Non ce la fanno da soli a regolarsi. Hanno bisogno che noi lottiamo con loro. Consapevoli che così, in realtà, lottiamo per loro. Per la loro libertà. Perché non ne diventino prigionieri. Schiavi.

Ma c’è un altro aspetto. I contenuti che si scambiano tra loro. Dov’erano i genitori dei bulli che hanno ucciso Alessandro, ci chiedevamo. Sì, cari genitori. Questi l’hanno ucciso. Fa differenza se diciamo che l’hanno indotto a togliersi la vita? A tredici anni non fa differenza.

Dobbiamo conoscere i telefonini dei nostri figli. Cosa scrivono, con chi si scrivono, con chi chattano, cosa si dicono. Cosa arriva sul telefonino di un figlio, di una figlia. Loro hanno bisogno di sapere che babbo e mamma hanno la password d’accesso. Non la useranno tutti i giorni, no. Ma i ragazzi devono sapere che il loro cellulare è aperto per mamma e babbo.

 

La legge non metterà sotto processo i genitori di quei bulli. Ma la coscienza sì. La coscienza di adulti che non hanno seguito i propri figli. Incapaci di comprendere che padroneggiare la tecnologia non è la stessa cosa che saperla usare. Farne, cioè, un uso consapevole. E umano. Noi adulti questo possiamo, dobbiamo ricordarlo.