VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

18 lug 2021

Il tanto rumore intorno al DDL Zan impedisce l’ascolto reciproco

Attiviamo un dialogo vero (1)

Non vi nascondo che il mio primo pensiero è stato: azzeriamo tutti i partiti, così forse riusciremo a parlarci. Impossibile. Allora ho chiesto aiuto alla storia. Un bel salto di 750 anni. 1271, Viterbo. Da tre anni i cardinali sono riuniti per eleggere il papa, ma litigano soltanto senza arrivare a niente. I cittadini di Viterbo intervengono: li chiudono ‘a chiave’ (cum clave); man mano riducono il vitto; infine scoperchiano il tetto del palazzo dove sono rinchiusi. E finalmente esce Gregorio X.

Ecco, così. Mettiamo i segretari dei nostri partiti dentro una stanza, togliamo loro i cellulari e i social (altro che vitto!), usciranno quando avranno raggiunto un accordo-compromesso sui temi che affronta il DDL Zan. Lo spettacolo che stanno dando è davvero umiliante: fanno finta di parlarsi, quando in realtà ciascuno, destra sinistra centro, parla e sparla rivolgendosi non agli interlocutori con cui deve costruire un confronto nell’interesse del paese, ma agli elettori, nella convinzione che le sue prese di posizione, urlate, accresceranno il consenso al suo partito.

Non è accettabile che in una società civile si debba andare alla conta dei voti senza prima aver tentato tutte le strade per arrivare a un accordo-compromesso su temi così rilevanti dal punto di vista culturale e sociale. E di conseguenza comportamentale.

 

Alcuni rilievi, ora, sul testo in discussione. Su altri torneremo.

All’art. 1 si dà una definizione a concetti (sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere) che non appartengono alla sfera giuridica, propria di una legge, ma all’ambito delle scienze umane, come antropologia, psicologia, medicina. Una legge non ha questa competenza.

In merito, poi, a quanto scrive circa l’identità di genere, la dizione «identificazione percepita e manifesta di sé in relazione al genere [...] indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione» dà adito a seri livelli di confusione. Guardiamo.

Percorso di transizione significa non solo percezione soggettiva del proprio genere (un ragazzo si percepisce ragazza, o viceversa), ma anche l’avvio di terapie mediche (terapie ormonali) e chirurgiche (su parti del corpo proprie del sesso maschile o femminile). Se la legge scrive «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione», quando, come cittadini, siamo tenuti a riconoscere l’identità di genere percepita come l’identità autentica di una persona? Quando comincia a parlarne; alla maggiore età; quando il cambiamento di genere è certificato all’anagrafe? Non è specificato.

Mi spiego con due esempi che prendo dalla clinica di questo periodo. Gianni ha diciotto anni. All’età di dodici inizia a dire ai suoi che non si riconosce come maschio, ma si sente femmina. Lui e la sua famiglia hanno avviato un percorso psicoterapeutico. La sofferenza di Gianni è sempre più evidente. Altrettanto lo è quella dei suoi. Dopo oltre tre anni di lavoro siamo giunti ora a un passo ulteriore: collegati a un Centro specializzato nell’accompagnare l’eventuale percorso di transizione, stiamo collaborando, noi e loro, nel seguire questa nuova fase terapeutica.

Lucio ha quattordici anni. Nel suo giro d’amicizie incontra Nicola, appena un anno più grande, che sostiene di essere Nicole. Una ragazza. Lucio è affascinato da Nicole, così comincia a dire ai suoi che anche lui – meglio, lei – è una trans: non è Lucio, ma Lucia. È chiaro che Lucio deve fare ancora tanta strada. Anche con lui e la sua famiglia continua il lavoro.

Quando, secondo questo DDL, Gianni e Lucio hanno diritto ad essere riconosciuti/e come ragazze?

 

Un’altra osservazione. Senz’altro secondaria, ma giusto per invitare a pensare prima di scrivere. All’art. 7 è scritto: «... giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia...». La parola omo-fobia comprende già la lesbo-fobia. Il prefisso omo non nasce dall’italiano uomo (maschio), ma dal greco òmoios che significa simile, uguale. Come la parola omo-sessualità (che noi preferiamo dire omo-affettività) riguarda sia gli uomini sia le donne. Uomini della politica, almeno... il significato delle parole!

 

Ma ancora l’obiezione, più seria, già fatta in merito alle definizioni dell’art. 1. Di nuovo andiamo a usare qui parole così specifiche il cui elenco è già superato in alcune comunità. Altri concetti di carattere antropologico sono già in campo. La sigla LGBTQIA+ è già più ampia dell’elenco previsto. Che facciamo allora? Ci perdiamo qualcuno per strada? Non sarebbe il caso di uscire da tutte queste specificazioni e sottodistinzioni, e parlare più ampiamente di discriminazioni fondate sulla sessualità e sulle sue manifestazioni?

 

E ritorno all’inizio. Usciamo dalle guerre di religione. Non giochiamo a chi arriva prima. Prendiamoci il tempo che serve e parliamoci. Vis à vis. Attiviamo un vero dialogo e un vero confronto tra le diverse posizioni. Solo così affronteremo realmente il problema – serio – delle discriminazioni e delle emarginazioni.

 

(1. continua)

 

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