VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

27 set 2020

Interrogati dal dramma di una famiglia di Caivano

Noi dove stiamo?

Questi giorni giornali e tv ci hanno messo davanti a una brutta storia. Di dolore. Dolore prima di tutto di una famiglia che, in un solo giorno, perde due figli: Maria Paola muore cadendo da una moto su cui era con Ciro, il suo ragazzo, e Michele, il fratello maggiore, rinchiuso in carcere per aver proprio lui provocato la morte della sorella. Possiamo solo tentare d’immaginare la sofferenza e la disperazione di questi genitori. Perdere un figlio credo sia il dolore più innaturale che la vita può farti incontrare. Perderne due, e in un contesto così drammatico, come reggere? Ma ora, con un abbraccio, lasciamo questa famiglia. E facciamo qualche riflessione.

Riflessioni, attenti bene, che prendono solo lo spunto da questa vicenda. Non avendone noi una conoscenza diretta, e dovendoci affidare alle sole notizie di stampa, sarebbe davvero superficiale volerci esprimere sulla situazione concreta.

 

Se proviamo a guardare il contesto socio culturale nel quale un episodio di questo genere può trovare le radici, due stereotipi vi possiamo cogliere. Uno fa riferimento al rapporto maschi femmine all’interno delle relazioni familiari. L’altro c’interroga su come ci poniamo di fronte di fronte a persone con un orientamento affettivo sessuale diverso dalla maggioranza.

 

Più volte la cronaca ci ha messo davanti famiglie nelle quali un padre (o un figlio maschio) si sente autorizzato a decidere sulla scelta del partner per la figlia (o sorella). Famiglie che vengono da altre culture, che si rifanno a modelli religiosi prevalentemente islamici o induisti, trovano del tutto naturale che l’uomo decida per la donna. Che sia il padre a decidere per la figlia non è solo un diritto. È un dovere. La donna è proprietà dell’uomo. Quindi è naturale che lui intervenga, con ogni mezzo, perché lei ne rispetti le decisioni. Frange di questa cultura sono presenti anche in casa nostra. Per cui non sorprende che Michele, fratello maggiore, si sentisse in dovere di richiamare con ogni mezzo la sorella, quindi d’intervenire per allontanare l’intruso. Qui, purtroppo, una coincidenza terribile ha portato addirittura la morte. Certamente non voluta.

La pari dignità tra uomo e donna ha ancora tanta strada da percorrere perché possa raggiungere anche solo tutto il nostro mondo occidentale. Figuriamoci quanta ne ha davanti per arrivare a tutta l’umanità.

 

L’altro stereotipo è ancora più diffuso e radicato. A macchia d’olio s’estende in ogni regione, in una città come in un piccolo paese. E qui noi, come chiesa, dobbiamo trovare il coraggio di chiederci come ci rapportiamo, nella pratica, con la parola accoglienza, tanto usata nei discorsi e nei documenti.[1] La persona con orientamento omoaffettivo è vista molto spesso come deviante. O addirittura malata. Figuriamoci poi davanti a chi soffre per incongruenza di genere (o disforia di genere – quello che noi chiamiamo trans). Ciro, il ragazzo di Maria Paola, si sente un uomo nato in un corpo di donna. In un corpo sbagliato. La sofferenza che accompagna questa percezione di sé raggiunge livelli altissimi. Quel rifiuto che senti da parte degli altri, tu lo porti dentro di te. Sei tu il tuo primo nemico. Sei il primo che non riesce ad accettarti per come sei. Per come il tuo corpo ti rappresenta.

Ho davanti a me diverse situazioni che i tanti anni di clinica mi hanno fatto incontrare. Una delle ultime vede un ragazzo, ora appena maggiorenne, in difficoltà con un corpo che, crescendo, ne evidenza sempre più la mascolinità. Con lui e con la sua famiglia è già qualche anno che lavoriamo, insieme, per favorire un processo di armonizzazione tra la percezione emozionale e la dimensione biologica. Genitori e fratelli, coraggiosi alleati in questa ricerca. Con molta probabilità inizieremo fra poco una terapia ormonale. Andiamo avanti, tutti, mano nella mano. E passo dopo passo. Con l’obiettivo di aiutarlo a ritrovarsi. A ritrovare anche lui/lei il diritto a una vita serena. E, come tutti, una vita sufficientemente felice.

 

A chi tra noi fa fatica a riconoscere che certi atteggiamenti sono preconcetti (oltre che errati dal punto di vista scientifico), vorrei fare un invito: provi ad ascoltare il dolore di una persona. Forte. Profondo. Radicato nell’anima. Costretto a vivere in un contesto di relazioni in cui il più delle volte sei additato. Quando non addirittura rifiutato. O, peggio ancora, sfruttato.

 

Una domanda. Per noi, cattolici praticanti. Se un ragazzo come Ciro frequentasse la chiesa e si proponesse per leggere nella messa, nessun problema o avremmo qualche obiezione? Un anno fa venne da me una giovane donna, 25 anni. Quando il parroco seppe che frequentava una ragazza, la sua ragazza, la invitò a non alzarsi più per leggere nella messa. Con molto dolore se ne andò.

Noi dove stiamo?

 

[1] Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359