VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

30 giu 2019

Superare l’antropocentrismo per ritrovare l’armonia con la natura

Gli alberi e noi

«È vero,
per l’albero c’è speranza:
se viene tagliato, ancora si rinnova,
e i suoi germogli non cessano di crescere;
se sotto terra invecchia la sua radice
e al suolo muore il suo tronco,
al sentire l’acqua rifiorisce
e mette rami come giovane pianta.
Invece l’uomo, se muore, giace inerte:
quando il mortale spira, dov’è mai?».[1]

Così Giobbe riflette mentre discute con il suo Dio che egli vede responsabile della tanta sofferenza che sta vivendo.

 

200mila anni è la nostra età. Giovanissimi, di fronte ai 4milioni degli alberi. Giovanissimi e prepotenti. Da quando siamo arrivati ci riteniamo i padroni del mondo. Aggressivi verso gli altri viventi, animali e piante. Eppure sappiamo bene che senza di loro non potremmo vivere. Ossigeno e cibo, respiro e alimenti sono i loro doni. Che noi ricambiamo con incendi, abbattimenti e distruzione del suolo.

Piuttosto stupidi, non vi pare? Come la storiella dell’uomo che sega il ramo su cui è seduto. Solo che qui non si tratta di storie. Ma di realtà. La realtà che ha nome sfruttamento. È da tempo che lo sappiamo, ma nonostante l’evoluzione tecnologica, segno della grande intelligenza di cui siamo dotati, continuiamo in questa stupida relazione di sopraffazione. Inconsapevoli, sembra, che pure in quest’ambiente innaturale che continuiamo a coltivare, gli alberi ci sopravvivranno. Anche quando la nostra specie, come tante che ci hanno preceduti, scomparirà dal pianeta. Noi non c’eravamo e loro c’erano. Noi non ci saremo e loro continueranno ad abitare il pianeta in una relazione armonica che avranno comunque, nonostante noi, saputo coltivare.

Per l’albero c’è speranza: se viene tagliato, ancora si rinnova, riflette Giobbe. L’uomo saggio. L’uomo che sa apprendere anche dal dolore.

 

Nel mito biblico delle origini la specie-uomo nasce alla vita il sesto giorno. Gli alberi erano già. Da ben tre giorni la terra aveva «germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. E Dio vide che era cosa buona».[2] Era cosa buona, così sembra dire lo scrittore sacro, anche senza l’uomo.

Orgoglio e pregiudizio, superati e sconfitti nel romanzo di Jane Austen, sembrano invece ancora guidare la nostra relazione con la natura. Orgoglio, per la raggiunta consapevolezza di noi stessi che ci renderebbe superiori agli altri viventi. Pregiudizio, che abbiamo perfino sancito con il mito: noi siamo i padroni. Due verbi infatti troviamo nell’originale ebraico. Il primo: cabash, che significa calpestare ma anche soggiogare. L’altro: radah, che significa governare, ma anche dominare. E sia per l’uno che per l’altro è sempre con il secondo significato che continuiamo a tradurre. Quasi a cercare un fondamento ‘sacro’ alla nostra presunta superiorità e al nostro presunto diritto di possesso e di sfruttamento.

 

Se guardiamo attentamente, la terra non è d’accordo. Madre amorevole, continua a inviarci segnali di allarme e richiami al cambiamento. Ma sordi e ciechi sembriamo, nonostante l’intelligenza e la consapevolezza dei nostri comportamenti. Stagioni che cambiano, fenomeni atmosferici alterati, malattie sempre più resistenti e distruttive che ci assalgono... lo sappiamo bene e lo vediamo, giorno dopo giorno e anno dopo anno. Ma non sembra cambiare il nostro atteggiamento. Inquinamento, spreco di risorse, sfruttamento dell’ambiente oltre ogni limite appaiono le linee guida del comportamento umano. Nel piccolo quotidiano di ciascuno e nel grande delle politiche ambientali sulle quali i governi nel mondo continuano a non investire.

Ma una sola è la strada da percorrere, se non vogliamo che la terra faccia scattare il progetto di estinzione della nostra specie: superare l’antropocentrismo. L’uomo al centro dell’universo. Padrone assoluto e detentore di ogni potere sugli altri viventi. Addirittura sul pianeta stesso. Abbiamo bisogno di ritrovare l’armonia con la natura. Gli alberi, che un’antica tribù indiana chiamava i nostri fratelli alti che stanno fermi, sono nostri alleati. Così, guidati da un’intelligenza vera e profonda, si presentano. E in questa relazione ci chiedono d’entrare.

 

Non siamo noi i padroni. Siamo ospiti. Ci hanno accolto quando siamo arrivati. Ci avevano preparato una casa sana e pulita nei tre giorni in cui ci aspettavano. Una casa pronta ad accoglierci, con aria pulita per respirare e cibo sano (biologico!) per alimentarci.

Non dimentichiamo una cosa. Se perdiamo la loro alleanza, la nostra specie non potrà sopravvivere. Loro sì. Perché il mondo vegetale può fare a meno della tanta anidride carbonica che mettiamo in circolo, bel buco nell’ozono, dei pesticidi e diserbanti che ogni giorno riversiamo in natura. Possono farne a meno. Anzi, anch’essi starebbero molto meglio senza. Proprio come noi!

 

[1] Giobbe 14,7-10

[2] Genesi 1,12