VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

8 lug 2018

Di fronte a certe scelte del ‘governo del cambiamento’

Tortura... di stato?

Martedì scorso, 26 giugno, era la giornata internazionale in favore delle vittime di tortura. Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 1987. Tema difficile. Da sempre controverso. L’Italia ha riconosciuto questo reato soltanto nel luglio scorso.[1]

Di fronte al bene di molti – un popolo, una nazione, un partito, un’ideologia, perfino una religione – infliggere dolore, fisico o morale, a un singolo individuo o anche a più d’uno, minoranza rispetto ai molti che si pretende di tutelare, non è così scontato che sia un atto di violenza indegno di una società civile.

Il nazista, o il fascista, che catturava un partigiano si sentiva autorizzato a infliggergli qualunque tortura pur di ottenere quelle informazioni che gli servivano. Abu Ghraib, luogo di vergogna per i soldati americani inviati a liberare l’Iraq; i filorussi con i prigionieri ucraini; l'esercito di Baghdad (addestrato da americani e italiani) con i civili sospettati di avere avuto rapporti con i jihadisti... sono cose appena di ieri.

Se giriamo il calendario e arriviamo a l’altro-ieri possiamo solo arrossire di vergogna e nasconderci sotto tre metri di terra, noi cattolici, per le orribili torture inflitte ai tempi dell’inquisizione alle cosiddette streghe perché confessassero i loro traffici con il demonio, o ai cosiddetti eretici, solo perché mettevano il Vangelo prima dei diktat delle autorità ecclesiastiche. Il tutto, naturalmente, per... salvare le loro anime!

Tempi passati, direte. Sì. Anche tempi presenti, però. Anzi, in pieno oggi. Tortura sottile. E tanto più grave perché fatta in modo che tale non appaia. Noi, popolo civile e maestro di civiltà per i popoli barbari, sappiamo essere sottili e nasconderci dietro ragioni, presunte forti e solide.

 

C’è poi un aspetto che oltrepassa la viltà, insita già nell’atto stesso della tortura. È la vigliaccheria. Quando il prigioniero non cede, nonostante i dolori e le sofferenze che gli sono inflitti, il carnefice passa per un’altra strada: ne cattura il figlio o la madre o la compagna. E a questi, davanti agli occhi del prigioniero, infliggerà quelle torture che non hanno piegato lui. Lo fanno anche gli uomini del dis-onore: se un capo mafia non riesce ad eliminare il capo avversario, non se la prende con i suoi familiari? Il figlio del nemico sciolto nell’acido è cosa-nostra.

 

Ed eccoci ad oggi. Il nemico? I paesi europei. Il familiare catturato? Aquarius, Lifeline, seicento, duecento, quattrocento migranti. Sotto tortura – sempre sottile, perché nessuno va a strappare loro le unghie né a violentarli con gli elettrodi: semplicemente li lasciamo in mezzo al mare, ne prolunghiamo l’agonia – pardon, la crociera –, mandiamo loro anche un po’ di pane e acqua. Così, pensiamo, l’Europa, cioè il nemico, cederà. Forse che in mezzo al mare, tra i disagi appena lontanamente immaginabili con centinaia di persone accatastate sul ponte, ci sono i nostri interlocutori europei, i capi dei governi o i ministri del governo del cambiamento? Certo che no. Ma che importa? Vedrete, l’Europa cederà: avranno pure un po’ di pietà per quei disgraziati in balìa del mare. Mettiamo sotto tortura i figli e la moglie: il nemico prima o poi cederà.

 

Il problema, però, è che i profughi in mezzo al mare non sono figli dell’Europa. Sono figli dell’Africa. E questa è una madre che noi occidentali abbiamo sempre sfruttata: ne abbiamo rubato le ricchezze con la scusa di portarle la civiltà. Le abbiamo rubato i figli riesumando perfino l’antica schiavitù. Magari anche con la benedizione delle chiese. E oggi? Non più schiavi, il nostro senso civico non ce lo permetterebbe. Ostaggi. Perché ostaggi, dice il vocabolario, è molto diverso da schiavi.

 

Ora, se al nazista che tortura il figlio del suo prigioniero noi diciamo che è un vigliacco, cosa dovremmo dire a chi, per farsi ascoltare dagli altri, lascia in mezzo al mare persone che hanno la sola colpa di essere nate in territori di guerra o di miseria? Se una voce non ha l’autorevolezza per farsi ascoltare, perché prendersela con chi non c’entra niente? È vero, è prassi consolidata: chi si sente inferiore urla e strepita. E se questo non basta, se la prende con il debole e l’indifeso. Lo studente che non riesce a scuola o lo sportivo che sul campo da gioco fa acqua, piuttosto che mettersi sotto a lavorare, fa il bullo. Pensando così di ottenere quell’autorevolezza e quel rispetto che altrimenti non riesce a trovare.

 

So che a qualcuno la parola tortura suona pesante. Eccessiva, forse. Ma è il nostro Codice che parla di tortura quando il fatto commesso «comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Ora, lasciare persone costrette a fuggire dalla miseria o dalla guerra, prive di ogni cosa, in balìa del mare, per giorni e giorni, così gli altri... ci ascoltano, è forse un atto di civiltà? O non piuttosto un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona?

No. Io non ci sto a sostenere la tortura di stato.

 

[1] Legge 14.07.2017 n. 110, Art. 613 bis C.P.