VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

11 mar 2018

8 marzo. Tradizioni e religioni, la donna da ritrovare

Non ce la faccio più...

Ricordate Magda, la moglie di Furio nel film Bianco, Rosso & Verdone? Era il 1981. (Un mese fa Irina Sanpiter, l’attrice, è morta, 60 anni, malata di leucemia. Un pensiero buono a lei, oggi. Che l’accompagni in quel tratto del viaggio della vita a tutti noi ancora sconosciuto).

Magda, sempre remissiva, finalmente va a chiudersi in bagno e, seduta sul water, con la testa poggiata alla parete, grida: Non ce la faccio più. Non ce la faccio!

Questo è il grido, urlato qualche volta, la maggior parte delle volte silenzioso, di tante donne. Delle tante Magde che ancora camminano, con noi, su questa nostra terra. Serve fedeli di figli e mariti.

E non mi riferisco solo alle donne di alcuni paesi arabi, prive dei diritti più elementari. Né a quelle che, pur venute in Italia, in nome di tradizioni, protette e amplificate dalla religione, non possono vestire come noi o frequentare nuove amicizie. O neppure camminare per strada fianco a fianco con il marito, ma sempre un passo indietro.

Meno ancora penso a quelle che devono subire l’umiliazione di restare mogli e nello stesso tempo dover accettare che lui, il maschio-padrone, si scelga un’altra donna, poi un’altra ancora, semplicemente perché a lui piace così e perché il suo stato di benessere gli permette di mantenerne anche quattro di mogli nello stesso tempo. Sempre benedetto dalla religione.

Assurdità queste, in pieno XXI secolo, certo.

 

Ma altrettanta assurdità mi pare di cogliere in tante nostre famiglie. Occidentali. Italiane. Dove alle donne è riservato il compito della cura: della casa, dei figli, del marito, dei genitori e suoceri vecchi e malati. Oltre, naturalmente, al compito di contribuire con un lavoro esterno alla famiglia al mantenimento di questa. Il doppio, il triplo o quadruplo lavoro è un privilegio che nessuno osa mettere in discussione. Neppure la religione. Cristiana cattolica, stavolta.

 

Penso a quelle ragazze cui viene delegata la responsabilità totale nei rapporti con i coetanei maschi. Ancora fatti crescere con il mito del cacciatore. Eterni bambini. Esonerati da ogni responsabilità nei rapporti con le loro coetanee.

Penso a quelle donne costrette, anche in famiglia, a una sessualità che le ignora. Nei loro desideri. Nei loro bisogni.

Penso a quelle donne che si violentano, nella mente e nel corpo, pur di avere una gravidanza. Perché a loro è stato detto che una donna vale solo perché madre. Madre biologica. O perché il loro compagno vuole un figlio suo, con il suo seme, costi quel che costi.

 

Penso a quelle giovani donne che rimangono sole di fronte al dramma di una gravidanza inattesa. O addirittura impossibile. Sole, perché il maschio di turno – marito, compagno, fidanzato o... cacciatore occasionale – si scansa o addirittura scappa. Lui non c’entra. O, se pure ha il coraggio di rimanere, non sa far altro che spingere perché quella gravidanza non programmata sia interrotta. E lei, di nuovo sola, inascoltata. Perfino incapace di cogliere, nella profondità della sua anima, il suo desiderio. Che è desiderio di vita. Ma che non trova posto intorno a lei. Non trova sintonia di pensieri o di desideri. E, sola, costretta ad andare contro la sua stessa natura, deve affrontare il dramma di una vita interrotta. Deve assumersene la responsabilità. Tutta la responsabilità.

Incompresa, anche qui, perfino da tanti uomini, religiosi. E sottolineo la parola uomini. Che, ancora una volta, è sinonimo di maschi.

Questi giorni ho sentito grida di scandalo perché nel nostro ospedale, a Jesi, si è riaperta la possibilità di trovare l’assistenza medica necessaria per un’interruzione di gravidanza. Scandalo perché Jesi non è più libera da questo fetido inquinamento. Come se importante fosse che di aborto non si parli a casa nostra. Fuori, è responsabilità di altri. Proprio come quegli uomini (maschi) che di fronte al dramma di una donna incinta... non ho visto, non c’ero, se c’ero dormivo.

 

Lo so. Parole dure oggi sono uscite dalla mia penna. Dal mio cuore. Ma è troppo il dolore di tante donne che incontro nel mio lavoro. E, certe volte, è troppa la chiusura, l’insensibilità, l’ipocrisia di tanti uomini che non vogliono vedere. Né sentire. Né, tantomeno, assumersi la propria responsabilità.

 

Non ce la faccio più! Non ce la faccio gridava Magda, chiusa in bagno. Dove, però, nessuno l’ascoltava. Mi piacerebbe che tutti (= tutti e tutte) trovassimo la forza di ascoltare queste parole che le nostre donne ancora continuano a gridare. Anche nel silenzio. Perché così saremo capaci di metterci sotto. E lavorare per costruire un mondo che riscopra quanto i nostri antenati, già qualche millennio fa, avevano intuito: immagine del Creatore non è l’uomo-maschio. L’immagine in cui Lui si rispecchia e in cui si compiace è l’uomo maschio-e-femmina. Con pari dignità. Nella differenza.

 

Buon 8 marzo a tutte. E a tutti.