VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

29 gen 2017

27 gennaio, il giorno della memoria

Se questo è un uomo

Voi che siete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate, tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no. 

 

Così Primo Levi inizia la sua testimonianza. Lui, che proprio trent’anni fa, l’11 aprile, a 68 anni, ci ha lasciati, impossibilitato a reggere ancora una vita irrimediabilmente inquinata dal fumo di Auschwitz.

Non è facile per noi ricordare. Per noi che non l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Per noi abituati, oggi, a fidarci della memoria dei Google o Yahoo, sempre pronti a rispondere alle nostre domande. Ricchissimi di informazioni. Ma poveri, assolutamente poveri di pensieri e di riflessioni. E sì che la nostra mente ne ha bisogno. Ma in pericolo costante di vedersene privata.

Sì, la nostra mente. Anche di più direi. La nostra anima. Quella parte di noi eternamente insoddisfatta finché non trova il senso di ciò che la vita ci offre.

 

Noi tutti – quasi tutti, salvo i più vecchi la cui memoria permette ancora di ricordare gli anni della fanciullezza – ne abbiamo sentito solo parlare. Forse ne abbiamo visto qualche immagine al cinema. Il 27 gennaio di 72 anni fa è lontano nel tempo. La radio e i giornali di allora, con le vicende di una guerra che ci vedeva coimputati, erano presi da altre notizie. Le persone, alla ricerca di residui di speranza per ritrovare una pace dimenticata da tempo. I sogni farneticanti di un regime assurdo, che i nostri nonni vedevano sfaldarsi giorno dopo giorno, avevano otturato gli orecchi con slogan e canzonette. E Auschwitz, Dachau o Mauthausen erano nomi sconosciuti. E privi di significato.

Comprensibile, allora.

 

E oggi?

Oggi no. Perché oggi sappiamo. Ma sappiamo, in quale misura? A quale livello di profondità questi nomi sono depositati nella nostra coscienza? O sono diventati anch’essi nomi da affidare alla futile memoria dei moderni motori di ricerca, campioni imbattibili per i vari lascia o raddoppia, o altri giochi a quiz con cui la tv ci riempie le giornate. Ma assolutamente privi di ogni capacità di pensiero.

 

«Auschwitz è fuori di noi – scrive ancora Primo Levi – ma è intorno a noi. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia». Sono parole queste che diventano in me domande. Vive. E attuali.

Negli anni passati ci fermammo a riflettere su momenti diversi, del nostro oggi, che pure presentano sintomi dell’infezione-Auschwitz. Lo scarso impegno con cui trattiamo i problemi dei disabili o dei malati di mente; la sufficienza con cui gran parte di noi continua a guardare le persone con un orientamento affettivo-sessuale diverso; certi pregiudizi che coltiviamo verso gruppi etnici minoritari. Perfino atteggiamenti e comportamenti che tanti uomini (maschi) continuano a mettere in campo con le donne. E non solo in certe comunità a tradizione islamica, ma anche nel nostro ‘civile’ mondo occidentale a tradizione cristiana.

 

E quest’anno? Devo dire che, senza troppa fatica, le immagini che giorno dopo giorno ci arrivano da alcune regioni della nostra civile Europa, mi richiamano tanto campi di deportazione. Campi di prigionia. Guardiamo cosa sta succedendo nei Balcani con i profughi che, proprio questi giorni si vedono costretti tra il freddo e la fame. Con governi occupati a costruire muri e steccati. E con un’Europa impotente. Pronta a imporre regole peggiorative sulla libera circolazione di certi cibi, ma incapace di richiamare autorevolmente i paesi che chiudono occhi e cuore di fronte al problema di chi cerca una terra dove vivere, perché quella che gli ha dato la vita ora sa solo offrirgli guerra o fame.

 

Questi giorni in Italia ci vedono in una rincorsa, inutile, a certe vaccinazioni. Non sarà che abbiamo bisogno di trovare un vaccino che ci tuteli da quella che Primo Levi chiamerebbe l’infezione-Auschwitz? Allora mi chiedo: Noi che siamo sicuri nelle nostre tiepide case, noi che troviamo, tornando a sera, il cibo caldo e visi amici, consideriamo se questo è un uomo... E questa domanda, per noi oggi, dovrebbe avere due significati: se questo (= il profugo costretto a scappare dalla sua terra) è un uomo ai nostri occhi, oppure un ulteriore scocciatore che viene a disturbare i nostri sonni tranquilli; ma anche se questo (= noi cittadini europei) è un uomo, incapace di guardare nel profugo un altro essere umano, semplicemente meno fortunato di noi. Con lo stesso diritto, che riconosciamo a noi stessi, a poter mangiare e vivere della terra che è di tutti.