VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

21 mag 2017

La vecchiaia dei genitori è un tempo prezioso per tutti

I conti aperti

Ora che tu non mi vuoi più / e dopo aver tanto da solo camminato, / mi siedo a riposare sotto un albero / in una terra che non è la mia, / lontano da casa. / Ora sì / che dentro mi nasce / un canto triste, / di solitudine. / Piango su di me, / sulla mia sorte.

Così cantano i Cheyenne. Una popolazione che all’arrivo dell’uomo bianco si vede costretta ad abbandonare la sua terra e migrare verso il lontano ovest. Queste parole mi sono tornate pensando ai nostri vecchi. E a quando, vecchio, incontrerò me stesso. E ascolterò il mio canto.

Mi chiedo se non abbiamo bisogno di fermarci. Almeno un po’. E prendere il coraggio di guardarci. Di volgere lo sguardo a noi stessi. Oggi. Qualunque sia il territorio della vita che stiamo abitando. La faticosa salita della giovinezza. La ripida discesa della vecchiaia. O la terra di mezzo, sempre in sussulto. Tra impegni e compiti che ci vengono dati. Che ci diamo. In affanno. Insoddisfatti di noi stessi, incapaci di rispondere adeguatamente al ritmo che diamo alla vita.

 

Ora che tu non mi vuoi più... piango su di me, sulla mia sorte. Queste parole mi sembra di vedere nella mente e nel cuore dei tanti che devono affidare la loro vecchiaia ad estranei.

“Affidate a noi la cosa che per noi è la più cara, gli ultimi anni dei vecchi”, diceva una signora africana che vive in Italia facendo la badante. Ed è vero. Ma per lei è chiaro questo pensiero: nella sua terra un vecchio che muore è come una biblioteca che brucia. E nella nostra? Nella nostra terra non sarà che un vecchio che non muore diventa un peso da affidare ad altri?

Quando mi guardo intorno, sento tristezza. Vecchi soli, in una casa abitata un tempo dal sorriso e dagli schiamazzi dei bambini che, ora adulti, sembrano aver dimenticato la cura che fra quelle mura hanno ricevuto. Sì, ora sono loro ad essere catturati dai nuovi bambini e impegnati nei loro lavori.

Ma come abbiamo fatto a far diventare normale l’affidamento dei nostri genitori, vecchi, a degli estranei? La vecchiaia è un’età fragile. La ricchezza e la forza dell’esperienza e dei ricordi camminano mano nella mano con la debolezza del corpo, il peso degli anni e gli acciacchi che li accompagnano.

Il vecchio è come un bambino, diciamo. E come un bambino sa comprendere che i suoi genitori durante il giorno sono impegnati nel lavoro, ma non potrebbe accettare di non ritrovarsi la sera in una casa, con l’affetto di una famiglia, così è per un vecchio. La solitudine del giorno ha bisogno di trovare un incontro, la sera. Una parola, una telefonata. Ma anche una visita, un po’ del nostro tempo. In una sorta di restituzione. Di scambio. Di gratitudine. Ma c’è la badante! Sì, ma non è il figlio, o la figlia. È un’estranea. Disponibile, certo. Gentile anche. Ma pur sempre un’estranea.

 

Poi c’è un’altra cosa. Anche noi ne abbiamo bisogno.

Anche noi, trenta, quaranta, cinquantenni abbiamo bisogno di re-incontrare i nostri genitori. O, almeno, quello dei due che ci è rimasto ancora. Tutti abbiamo dei conti aperti con loro. Chi più con l’uno chi più con l’altra. Ma tutti conserviamo un libro con molti segni rossi. Incomprensioni, rimproveri, disattenzioni, ingiustizie... sono solo alcune tra le mille voci segnate in rosso. Perché aspettare che i genitori non ci siano più, poi piangerci addosso e restare in compagnia dei nostri sensi di colpa e di inadeguatezza? Chi ha tempo non aspetti tempo, diciamo. Ora il tempo l’abbiamo. E siamo adulti. In grado cioè di reggerci sulle nostre gambe. Ora, molti di noi diventati genitori a nostra volta, siamo in grado di comprendere meglio limiti, errori, mancanze di cui li ritenevamo – un po’ li riteniamo ancora – responsabili.

Perché allora non parlare con loro? Non certo per recriminare tempi passati che non potremmo mai cambiare – chi può cambiare il passato, anche solo il giorno di ieri? Quanto piuttosto per ritrovarci, oggi, in pace. Nella pace che allora, da bambini o da ragazzi non sapevamo conservare, ma che oggi da adulti siamo in grado di costruire. Di ri-costruire. Insieme. Noi, figli ormai grandi, e loro, genitori ormai vecchi e appesantiti dagli anni.

Ritrovare la pace con i nostri genitori, condividere con loro la nostra comprensione per quelle mancanze di cui li rimproveravamo, significa poterci regalare giorni di serenità. Giorni di pace. Di nuova pace. Nel cuore. Non perché abbiamo fatto chi sa quali liti, ma perché abbiamo bisogno, noi, di scoprire che essi ci hanno amato. E che l’hanno fatto come potevano. Con tutti i limiti di allora. Ma anche con tutte le forze di cui, allora, disponevano.

Ritrovare la pace con i genitori significa preparaci, insieme, al saluto che un giorno la vita ci chiederà di fare.