VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

14 feb 2016

Riflessioni. Intorno al dibattito in parlamento

Unioni civili

Non è facile parlarne. Perché i nostri animi sono già riscaldati. Surriscaldati. Quando abbiamo bisogno di riempire le piazze, soprattutto quando queste si presentano l’una contro l’altra armata, il rischio è che ci lasciamo catturare più dagli slogan gridati che dalla capacità di dire, e di ascoltare, i pensieri di ciascuno. Preoccupati più di evidenziare i numeri che siamo riusciti a fare (= quanti hanno partecipato a questa o a quella manifestazione) piuttosto che di attivare un confronto sulle motivazioni e sulle ragioni che fondano le diverse posizioni.

Il mio tentativo, oggi, vuol essere un invito a fermare le ostilità e a provare, prima di tutto, a ridare il significato giusto alle parole. Per poi confrontarci sulle ragioni che ci fanno prendere una posizione piuttosto che un’altra. (Oggi guardiamo alle unioni civili. La prossima volta parleremo delle adozioni).

 

La proposta di legge in discussione al Parlamento ha per titolo «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Due temi dunque. Il primo si propone di regolamentare le unioni civili tra persone omoaffettive (omosessuali). Il secondo intende dare un riconoscimento alle coppie di conviventi di sesso diverso.

A mio parere le nostre riflessioni devono diversificare i due argomenti.

 

Il primo.

«Due persone dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni» (art. 1). Questa parte della proposta di legge intende riconoscere una nuova formazione sociale, secondo quanto previsto dall’art. 2 della Costituzione. Non si tratta quindi di matrimonio, ma di unione civile.

 

Più volte noi abbiamo parlato dell’omoaffettività.[1] Riteniamo più corretto usare questa parola piuttosto che omosessualità perché è un dato acquisito dalle scienze psicologiche che la sessualità umana matura è espressione e componente di una capacità e potenzialità assai più ampia e più ricca: l’affettività. Per l’essere umano una relazione sessuale è nella sua pienezza quando è vissuta all’interno di una relazione affettiva.

L’altra cosa, che pure ci siamo detti in altre occasioni, è che oggi le scienze psicologiche e mediche ritengono che l’orientamento omoaffettivo rientri all’interno di un quadro di normalità e non di patologia. Non sappiamo ancora spiegarne l’origine: nessuna delle ipotesi prese in considerazione (da quelle biologiche a quelle psico-educative) fornisce risposte soddisfacenti alla domanda sulle cause che portano una persona a dover seguire quest’orientamento nella scelta del proprio partner.

Se dunque la natura ci pone davanti a questa realtà, non si vede perché una società civile non debba darsi delle norme che sanciscano per le persone adulte omoaffettive il diritto a vedersi riconosciute come coppia. In una relazione sana. Vissuta nell’amore e nel rispetto reciproci. Stabile. Con relativi diritti e doveri. Definiti e regolamentati da norme di legge.

 

L’altro tema.

All’art. 8 troviamo: «Ai fini delle disposizioni seguenti si intendono conviventi di fatto le persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi e di reciproca assistenza morale e materiale (...)».

In questa seconda parte si dà riconoscimento legale alle convivenze tra persone eteroaffettive che non intendono sposarsi.[2]

Dico ‘non intendono’, perché per tutte le coppie uomo-donna esiste già la possibilità di vedersi riconosciute dalla società civile. Basta andare da un suo rappresentante (= il sindaco) e dichiarare il proprio progetto di essere una coppia. Immediatamente entrambi usufruiscono di tutti i diritti e s’impegnano nel rispetto dei doveri che lo stato di coniugi comporta.

 

A questo punto mi permetto una considerazione. Mentre per le coppie omoaffettive non esiste in Italia nessuna formazione sociale riconosciuta, quindi si rende necessario istituirne una (= unioni civili), non vedo il bisogno di un riconoscimento speciale per i conviventi che, se desiderano essere riconosciuti come coppia, hanno già la formazione sociale idonea: il matrimonio.

Se un uomo e una donna vogliono condividere la vita convivendo, senza sposarsi, sono assolutamente liberi di farlo. Con pieno rispetto per la loro scelta. Perché, però, il bisogno di vedersi riconosciuti in una sorta di quasi-matrimonio quando nessuno impedisce loro di formare una famiglia e di vedersi riconosciuti come famiglia con tutti i diritti e i doveri?

Non sarà che, spaventati di fronte all’impegno che il matrimonio propone, stiamo costruendo una specie di matrimonio di serie B? Meno impegnativo e... a tempo determinato?

Voi che ne pensate?

 

[1] La Mente e l’Anima, vol. 2°, pagg. 149, 152, 222; vol. 3°, pag. 105. Voce della Vallesina: 2015, n. 9.

[2] La Mente e l’Anima, vol. 1°, pagg. 123, 147.