VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

24 gen 2016

Vinci l’indifferenza e conquista la pace

La memoria... corta

Anche quest’anno arriva il 27 gennaio. Ma ogni anno sembra più lontano. Al punto che rischia di scomparire dal nostro sguardo. Proprio come quelle nuvole che, all’orizzonte di prima mattina, con il progredire della luce sfumano e si dissolvono. Ma il suo allontanarsi non dipende solo dal fatto che sono passati 71 anni da quel 27 gennaio del ’45, quando gli alleati entrarono nel campo di Auschwitz. Il suo scomparire dalla nostra memoria temo che dipenda più dalla crisi della memoria stessa. Come quando la vecchiaia rende i ricordi più flebili e certe aree della mente mostrano la loro fragilità e accusano la stanchezza degli anni.

 

Auschwitz, Birkenau, Buchenwald, Dachau, Mauthausen sono nomi ormai affidati alla storia. Così come Aktion T4, il programma di ‘liberazione’ dei disabili e dei malati di mente dalle sofferenze della vita (= la loro eliminazione nelle camere a gas). Nomi, parole, sinonimi di vergogna e di umiliazione. E di indifferenza.

 

Noi credevamo che ormai solo nei libri di storia avremmo ritrovato quelle ombre che hanno ricoperto il XX secolo. Ma non è così. Come una sorta di richiamo è arrivato proprio questi giorni il Daesh. O l’Isis, se preferite. Tra le tante aberrazioni di questi fanatici ci mancava una fatwa (in arabo: editto religioso). Un giudice del cosiddetto Stato Islamico ha autorizzato a uccidere i neonati con Sindrome di Down e altre malformazioni congenite oppure fisicamente disabili. Dalle informazioni del Daily Mail Online del 15 dicembre scorso risulta che 38 bambini, in età compresa tra una settimana e tre mesi, sarebbero già stati uccisi.

 

Poco c’è d’aggiungere a quanto già il segretario generale dell’Onu ha detto a proposito del Daesh, definendolo ‘Non-stato non-islamico’.

Abbiamo invece da fare qualche riflessione guardando certi nostri comportamenti. Guardando soprattutto alla disattenzione che spesso li caratterizza. Con il coraggio della verità è difficile non vedere come una sorta di indifferenza stia pian piano ricoprendo con la sua cappa grigia il nostro quotidiano.

 

L’anno scorso, riflettendo insieme sul giorno della memoria, ci dicevamo che oggi nessuno oserebbe più dire la parola sopprimere parlando di persone disabili. Anche se – aggiungevamo – prima che possano nascere non è raro che ci si muova in questa direzione: analisi su analisi, per evidenziare eventuali malformazioni in vista di interruzioni di gravidanza, non sono poi una prassi così rara. E proprio questi giorni ci arriva una notizia. In Italia ’sta volta.

Dieci anni fa nasce una bambina con sindrome di Down. I suoi genitori non la riconoscono e la bimba viene adottata da un’altra famiglia. Il mese scorso arriva la sentenza della Corte di Cassazione che condanna il medico che allora aveva seguito la gravidanza perché non aveva fatto fare alla paziente tutti gli esami necessari per una diagnosi prenatale che potesse evidenziare possibili malformazioni nel feto.

 

Noi, popolo civile e laico, non facciamo fatwe. Non ci copriamo più dietro a presunti precetti religiosi. Ma sentenze di condanna come questa devono farci riflettere. Se tutto ci passa sopra e scorre nell’indifferenza, questa prende campo. Come un virus essa si aggancia alle cellule della mente e si espande. Fino a invadere pensieri e relazioni.

Allora non ci scandalizziamo più di niente. Perché niente più ci tocca. Salvo quando qualcuno o qualcosa pesta i nostri calli. Tocca i nostri interessi personali. Indifferenti alla mancanza di servizi per i bambini. Indifferenti di fronte alle barriere e ai disservizi per i disabili. Indifferenti quando la scuola, imprigionata dalle quattro nozioni che deve passare, non offre alle nuove generazioni valori con i quali misurarsi. Pronti sì a litigare con gli insegnanti se per caso ci accorgiamo che il nostro figlio subisce una qualche ingiustizia, vera o presunta. Ma indifferenti quando un suo compagno di classe deve passare la mattinata in un’altra stanza o non ha quell’assistenza di cui, con le sue difficoltà, avrebbe bisogno.

 

Un bambino o un adulto in difficoltà è lasciato a totale carico della sua famiglia. Che viene lasciata sola. Sì e no uno sguardo di compassione se ci capita di avvicinarli. Qualche volontario che si fa vicino. Che si fa prossimo (= molto vicino). Non rischiano anche le nostre chiese (= comunità) di restare indifferenti di fronte a tante emarginazioni?

Quando guardo gli occhi di un bambino o incontro un adulto costretto nelle sue disabilità mi chiedo: perché lui così e io sano-e-libero? Che cosa ho fatto per meritare questo... privilegio? E so bene che non ho fatto niente.

Allora sento di dover ringraziare questa persona, almeno dentro di me, perché con il suo ‘limite’ mi aiuta a non cadere nell’indifferenza.