VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

27 nov 2016

25 novembre: giornata mondiale contro la violenza sulle donne

L’inganno dell’iceberg

Un’immagine forte si disegnò nella mia mente di bambino quel giorno in cui il maestro in classe ci parlò del Titanic. Della sua grandiosità e della sua tragedia. Fu in quell’occasione che appresi cosa fosse un iceberg. Lì per lì non capivo come potesse succedere che una nave ci andasse a cozzare contro, dal momento che si vede bene da lontano, tanto è grande. Ma quando il maestro ne disegnò uno sulla lavagna capimmo che la parte che si vedeva era veramente minima rispetto all’enormità della sua mole. Imparai così cosa fosse la punta dell’iceberg e pian piano queste parole si scrissero nella mia mente. Arricchendosi sempre più di significato.

 

Quest’immagine mi è tornata alla mente oggi per parlare con voi di questo 25 novembre. Che, con vergogna, dobbiamo ancora celebrare. Vergogna di essere umano. Vergogna di uomo nei confronti delle donne.

Questi giorni i mass-media ci offrono numeri. Numeri di donne uccise dagli uomini. Soprattutto da uomini che un giorno hanno detto di amarle e di volerle amare per tutta la vita. Femminicidi li chiamiamo. Una parola brutta. Un ancor più brutto significato: un giorno su due vede una donna uccisa dal suo uomo.

Non è certo cosa da poco. Ma non possiamo non dirci che questi orribili omicidi sono solo la punta dell’iceberg della violenza che ancora il mondo degli uomini riversa sull’altra metà del cielo. È questo, infatti, l’inganno dell’iceberg: ridurre la violenza contro le donne al solo femminicidio. Quando, invece, questo non è che la punta estrema di un atteggiamento e di comportamenti che accompagnano il nostro quotidiano.

Violenza domestica, molestie sessuali, tratta e sfruttamento nella prostituzione, mutilazioni genitali, stupro di guerra, matrimoni forzati, poligamia, disparità di trattamento nel mondo del lavoro, sovraccarico degli impegni nella gestione della casa, responsabilità (quasi) esclusiva nella cura dei bambini e dei vecchi, esclusione della donna da posti di potere e di responsabilità... non sono che alcune delle voci con cui parla la violenza sulle donne.

Condizionamenti culturali che, colorando di sé le società in cui siamo nati e in cui viviamo, rischiano di non essere più neanche percepiti. Tanto ci abbiamo fatto l’abitudine. Del resto, sembra che una società a guida maschile abbia una storia tanto lunga quanto la storia dell’umanità.

 

Condizionamenti che hanno costituito l’humus in cui sono nate e cresciute perfino le religioni. Anch’esse, infatti, come fenomeni umani, nascono e crescono all’interno di una cultura. Ebraismo, Buddismo, Cristianesimo, Islam... non sono che modalità diverse in cui la religiosità prende forma. Hanno origini diverse, ma sembrano condividere un imperativo comune: la donna è meno dell’uomo.

Qualche giorno fa eravamo con un giovane quarantenne, originario del Marocco. È in Italia da oltre vent’anni. Musulmano. Anche se, ci dice, non frequenta sempre la moschea. Ma rispetta il ramadan. A un certo punto la mia collega gli chiede: tua moglie porta il velo? Sì, risponde lui. E ci spiega che una donna può farsi vedere solo da suo marito, gli altri non devono vedere le sue forme neanche dai vestiti. I capelli poi... Non c’era in lui neppure il minimo dubbio sulla disparità di valore che la sua cultura-e-religione attribuisce alla donna rispetto all’uomo. Che ne è educatore e capo. In altre parole proprietario.

Nella religione ebraica la prima donna rabbino (rabbino significa maestro) è un’ebrea tedesca, Regina Jonas, morta a 42 anni ad Auschwitz nel ’44.

 

Anche il cristianesimo, movimento religioso nato tra i discepoli di Gesù di Nazareth, quando pian piano si è venuto trasformando in istituzione religiosa, con tanto di dogmi e gerarchie, ha subìto i condizionamenti culturali del tempo. E il maschilismo, che allora imperava nella cultura ebraica e nel mondo greco-romano, vi è entrato a piene mani e ne ha condizionato pesantemente l’evoluzione. Ignorando perfino la prassi e l’insegnamento del Maestro. E dopo duemila anni di storia, se sul piano dei princìpi proviamo ad uscirne, riconoscendo la dignità della donna accanto e alla pari con quella dell’uomo, sul piano della prassi vediamo quanta rigidità ancora e quanta fatica facciamo anche solo a riconoscere la disparità di trattamento tra i due generi. Viviamo in regime di esclusione totale della donna dai posti di guida e di responsabilità. Esclusa ancora dal sacerdozio ministeriale, non c’è posto per lei nelle gerarchie e nei luoghi del ‘potere’.

Non è anche questa una forma di violenza che gli uomini (maschi) esercitano sulle donne?