VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

15 mag 2016

Quando i mostri ci proteggono da noi stessi

Bambini

Di fronte alle notizie che questi giorni i nostri media hanno fatto risuonare a tutte le ore, non è difficile gridare al mostro. Una bambina di sei anni uccisa, sembra, per nascondere le violenze che aveva già dovuto subire da un adulto, e un fratellino che due anni prima aveva avuto la stessa sorte, non possono lasciarci indifferenti. Certo. Ma il pericolo di sbattere il mostro in prima pagina non possiamo sottovalutarlo.

Per i bambini. E per noi stessi.

Un tempo gli uomini si stracciavano le vesti, in un gesto plateale, per gridare allo scandalo. Oggi riempiamo con la notizia tutti i giornali e andiamo alla ricerca spasmodica di esperti e specialisti perché ci spieghino e ci dicano come sia possibile che un essere umano si comporti in modi così raccapriccianti. Soprattutto – questo è il punto principale – ci rassicurino, con il loro sapere, che noi non siamo come lui. Lui un mostro. Noi no.

 

E nel fare tutto questo neanche ci accorgiamo che stiamo riesumando quel vecchio e antico rito che un tempo, in alcune culture cosiddette primitive, periodicamente, i popoli mettevano in atto. Gli abitanti di un villaggio, guidati dallo sciamano o dal sacerdote, prendevano un animale sul quale deporre tutto il male che le persone avevano potuto compiere nel tempo trascorso. Poi lo cacciavano fuori dal villaggio, pensando così di allontanare quel male che essi avevano compiuto. Lontano dalle loro case e lontano da loro stessi. Il capro espiatorio, così era chiamato quel povero animale. Perché era lui a dover espiare le colpe. Come fosse lui il colpevole. E gli umani, i veri colpevoli, in questo modo, si sentivano puliti. Purificati.

 

Nessuno contesta che Fortuna e Antonio, questi due poveri bambini con i quali abbiamo riempito le cronache di questi giorni, siano vittime di una violenza che dovremmo ritenere impensabile dalla mente umana. Ma non è così. E non lo è perché la nostra mente è capace di spaziare tra orizzonti così vasti che si muovono tra gesti di generosità estrema e azioni di una malvagità illimitata.

È questa vastità di orizzonti che, apparendoci superiore alle nostre stesse potenzialità, ci fa chiamare in campo forze ed energie cui ci vediamo costretti a dare nomi assoluti: dio e diavolo, come fonti e sorgenti del bene e del male. Tutte le religioni e tutte le culture li chiamano in campo. Ma mentre il bene, anche quando oltrepassa limiti che riteniamo umani, non ci spaventa, tuttalpiù ci attira e ci fa ritrovare pensieri e sentimenti di fiducia e di speranza nella nostra umanità, quando è il male a colpirci, quando da un essere umano emergono emozioni, gesti o comportamenti che ci spaventano, allora ci è facile chiamare in causa forze ed energie fuori di noi.

Ma è questo il pericolo. Se chiamiamo in causa un qualsiasi ‘diavolo’ – qualunque sia il nome che gli diamo – e a questo attribuiamo la responsabilità del male che come esseri umani decidiamo di compiere, ritorniamo al vecchio gioco del capro espiatorio.

 

I comportamenti estremi, nel bene e nel male, appartengono alla stessa specie di tutte le altre nostre azioni. Sono soltanto estremi, in una scala che comprende tutto ciò che l’essere umano sa e può pensare, sentire, fare. Chi arriva a sacrificare la propria vita per un altro si colloca verso il limite estremo della generosità e del bene. All’estremo opposto – verso una lontananza abissale dal bene – possiamo incontrare chi, per il proprio unico tornaconto, arriva perfino a sacrificare la vita di un altro.

 

Dove ci portano questi pensieri?

A guardare noi stessi con maggior coraggio. A riconoscere che il nostro agire di ogni giorno non è così lontano né dalla generosità di chi sa mettere se stesso a disposizione degli altri, né dalla ristrettezza di cuore di chi vede negli altri solo qualcuno da sfruttare, in qualsiasi modo, per il proprio tornaconto.

 

Dalla storia di due bambini siamo partiti oggi. Ed è ai bambini che voglio ora ritornare.

A guardare un momento a quale posto essi occupano nei nostri pensieri e, di conseguenza, nelle nostre azioni. Spesso diciamo di fare tutto per loro. Ma non è così. Li riempiamo di cose, è vero. Le loro camere sono stracolme di oggetti. Ma il loro tempo è vuoto della nostra presenza. Li costringiamo ad una ‘produttività’ la cui misura si rivela dannosa perfino per noi adulti (compiti, piscina, palestra, sport, musica, danza, ecc.), e non permettiamo loro di vivere la gioia di un tempo libero da costrizioni e rispettoso dei ritmi naturali che la loro età reclama.

Molte volte carichiamo sulle loro spalle perfino sofferenze, frustrazioni, conflitti che appartengono a noi adulti. A noi soltanto.

 

Guardiamoli questi nostri bambini. Essi ci guardano e ci chiedono solo un po’ del nostro tempo. Per stare con loro. Per giocare. Che per il loro cuore significa vivere.