VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

17 mag 2015

Riflessioni intorno alla scuola

C’era una volta... la maestra

Luciano ha sedici anni e frequenta il terzo anno delle superiori. Con altri tre amici ha fatto una bravata e il consiglio di classe l’ha sospeso per dieci giorni: una punizione esemplare hanno detto gli insegnanti. Esemplare. Il significato della parola non è difficile da cogliere: una punizione che sia d’esempio. Per tutti. Cioè per tutti gli altri.

 

Mentre penso a Luciano sento che nascono in me due domande.

 

La prima. Ho sempre pensato che una punizione dovrebbe essere giusta. Cioè rapportata all’infrazione commessa. Allora non capisco cosa significhi esemplare. Ho il sospetto che voglia dire: se diamo a Luciano una punizione grande (= più grande di quanto in realtà meriti), questa diventerà di esempio, cioè di monito, per tutti gli altri studenti. Che così si sentiranno intimoriti. Quindi essa sarà un freno nel momento in cui qualcuno dovesse progettare o stesse per compiere qualche bravata, come ha fatto lui.

Ma una punizione più grande come può essere giusta? È giusto punire qualcuno più di quanto meriti perché così gli altri ne saranno intimoriti? Chi di noi vorrebbe ricevere una pena (una punizione) più grande così che altri possano imparare la lezione a spese nostre?

Ora, sentire che una madre o un padre chiedono una pena esemplare per chi, mentre era alla guida sotto l’effetto dell’alcool, ne ha ucciso il figlio, è comprensibile. Non è giusto. Ma è comprensibile: la morte di un figlio è una delle cose più terribili da reggere nella vita, e non possiamo criticare un genitore che in un momento come questo si lasci guidare soltanto dall’emozione. Ma che degli insegnanti ragionino in questo modo nei confronti di un loro alunno, questo non lo comprendo. Né credo che si possa accettare.

 

Mi spiego meglio. E passo, così, alla seconda domanda.

La scuola è il luogo dell’educazione e della formazione dei giovani. Così diciamo tutti. Così ci dicono anche gli addetti ai lavori. Insegnanti e dirigenti. Allora provo ad andare oltre e mi chiedo come possono dieci giorni di assenza forzata dalla scuola diventare occasione di educazione e di formazione per un ragazzo.

Se la scuola è il luogo della formazione, piuttosto che dieci giorni di sospensione dalla scuola (che diventano dieci giorni di vacanza!), dovremmo dargli dieci giorni di frequenza in più: invece che far diventare giorni di vacanza i giorni della scuola, facciamo diventare giorni di scuola (= giorni di formazione) dieci giorni di vacanza. Questo, se consideriamo che un ragazzo come Luciano, con il suo comportamento inadeguato, sta dicendo che ha proprio bisogno della scuola più ancora dei suoi compagni. Più degli altri, dovremmo dire.

Ragionamento strano il mio? Assurdo? Mica tanto, sapete? Così ragionavano anche a Barbiana. Lì gli insegnanti, primo dei quali era Lorenzo Milani, sapevano di essere educatori. Erano maestri.

 

Sì, maestri.

Perché una volta a scuola c’erano i maestri e le maestre. Oggi ci sono i docenti. I professori e le professoresse. Gli insegnanti. E gli insegnanti insegnano. Insegnano l’italiano, la matematica, la geografia, le scienze, l’informatica... Ah, l’informatica! Questo sì che è un insegnamento moderno, attuale. L’insegnamento del futuro. E oggi stiamo proprio cadendo in una bella trappola: confondiamo il contenitore con il contenuto. Così un insegnante che usa il computer in classe diventa un insegnante moderno, all’altezza dei tempi. Un vero insegnante!

 

No. La scuola ha bisogno prima di tutto di maestri. Perché un maestro (una maestra) è prima di tutto una persona. E sa che il suo compito è prima di tutto prendersi cura delle persone. I suoi alunni, i suoi bambini, i suoi ragazzi – quelli cioè che gli sono affidati dalle famiglie – sono prima di tutto persone in crescita. Che hanno bisogno, sì, di apprendere tante conoscenze, tante discipline, ma prima di tutto hanno bisogno di essere aiutati a diventare donne e uomini.

 

 

Un maestro è maestro di vita. Con il suo esempio. Con la sua fatica di assumersi la responsabilità di educatore. Con la capacità di ascoltare i suoi ragazzi, di dialogare con loro. In un ascolto e in un dialogo rapportato alla loro età e alle loro situazioni di vita. Un maestro è consapevole che a volte – molte volte, purtroppo – deve supplire alle deficienze dei genitori. E non tanto sul piano del sapere: è ovvio che i genitori non possono essere all’altezza d’insegnare tante discipline. È sul piano della trasmissione di valori. Nell’accompagnare i ragazzi ad acquisire l’abitudine a pensare. Con la propria testa. A riflettere, a valutare cose e situazioni.

 

Cari insegnanti, il mio augurio è che voi, con la stessa forza con cui state lottando per il giusto riconoscimento dei vostri diritti di lavoratori, possiate lottare per diventare, ed essere, veri maestri per i vostri alunni.