VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

9 nov 2014

Nel libro dei conti

Con gli anni che passano, anche i conti chiedono di essere fatti in modo diverso. Questi giorni, che la tradizione ci invita a vivere nel ricordo dei defunti, cioè delle persone che hanno condiviso con noi questa fase della vita, diventano un invito ad aprire il nostro libro, quello della vita, e provare a leggerne qualche pagina. Nel silenzio del cuore. Liberi dai rumori che invadono le nostre giornate.

 

Nel guardare questi conti mi accorgo che non so più bene se sono di più le persone che ho incontrato e che ancora camminano, come me, su questa terra, o sono di più coloro che questa parte di vita l’hanno oltrepassata e procedono, nel loro cammino, per strade a me ancora sconosciute.

Emilio, Osvaldo, Domenico, amici di liceo; Sandro, Bruno, Luciano, compagni di camminate e scalate in montagna; Giuseppe, Anna, Vittorio, Gianni, insegnanti e maestri; Gina, Lorena, Maria Assunta, che hanno voluto condividere con me quelle pene della vita che sembrano troppo pesanti per le spalle di una sola persona. Che mi hanno incontrato con una richiesta di aiuto e che, nel tempo, si sono rivelate capaci di essere loro d’aiuto a me, maestri di vita con la forza che mettevano in campo per vivere e reggere la loro fatica. Rocco, il primo tra gli allievi che se ne va a quarant’anni, lasciandoci senza parole che possano darci conforto. I miei genitori poi, i nonni, quelle persone che mi hanno sostenuto e sorretto negli anni. Un elenco innumerevole di nomi e di ricordi che riempirebbe tutta questa pagina. Che riempie, in realtà, molte pagine del mio libro. Come, credo, del vostro.

 

Nomi che portano ricordi. Che richiamano serenità e momenti felici. E che oggi, quando ritornano, portano con sé anche il sapore delle lacrime. Che tengo nascoste. Per pudore. Per vergogna, forse. Perché non sarebbe da uomini adulti lasciarsi prendere dal dolore di una perdita? Dal dolore delle perdite? Non certo perché, come alcuni dicono, non sarebbe da cristiani lasciarsi prendere dal pianto di fronte alla morte: perché un vero cristiano dovrebbe essere felice di sapere che chi ha oltrepassato questa vita, ora si trova fra le braccia del Buon Dio. Nella vita piena, dove Egli «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi: e non vi sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (Apocalisse 21,4).

 

No. Pur con tutta la fede (= fiducia, affidamento) di cui un uomo può essere capace, io non credo che il dolore per una perdita non sia un dolore cristiano. Noi siamo nati per vivere. E vivere significa sentirci collocati in un mondo di relazioni. Importanti. Perché relazioni d’amicizia, di parentela. Relazioni che parlano di affetto, di amore. E perdere una persona con la quale abbiamo costruito, con la quale abbiamo camminato per tanto tempo insieme, perdere una persona sulla quale abbiamo investito tante energie, non è cosa da poco. Perché l’affetto e l’amore sono bisogni fondamentali per ogni essere umano.

Dolore ancora più forte, poi, invade il cuore quando a morire è una persona giovane o addirittura un bambino. Ingiustificabile ai nostri occhi. Inaccettabile per il nostro cuore.

 

Eppure sappiamo bene che la morte non rispetta regole. Lei si muove, libera nel vento. E quando si avvicina non c’è via di fuga. Per nessuno. Perché lei non guarda in faccia nessuno. Giovane o vecchio, povero o ricco, sano o malato. Non so perché lei possa muoversi così. Forse perché lei sa ciò che a noi sfugge. E anche quando, con la nostra intelligenza, proviamo a rincorrerla e a chiederle spiegazioni, lei spiegazioni non ne da. Forse anche perché non ne ha?

 

E allora siamo noi a tessere pensieri che aiutino a costruire qualche risposta. E ci muoviamo a fatica tra l’uno e l’altro. Culture e religioni diverse portano pensieri diversi. Utili, credo. Anche se insoddisfacenti di fronte al dolore della morte. Gli antichi greci ritenevano che un’anima, in sé immortale, percorresse fasi della vita diverse e ricorrenti. Terminato il tempo di una vita con il passaggio attraverso la morte, dopo un periodo di riposo nell’aldilà, l’anima ripartiva per un altro viaggio, e nascendo di nuovo, riprendeva il suo cammino sulla terra. Fino al raggiungimento della pienezza del sapere e dell’essere. Anche tra i cristiani dei primi secoli era presente questo pensiero. Che oggi ritroviamo in molte culture e religioni dell’oriente.

 

Oltre duemila anni fa, così un uomo parlava con il suo Dio: «Quando ero plasmato nel segreto, ricamato nel profondo della terra... tutti i miei giorni erano scritti sul libro, già contati quando ancora non ce n’era nemmeno uno» (Salmo 139). E in un luogo diverso, così un altro Gli diceva: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e acquisteremo un cuore saggio» (Salmo 90).

Mi piace fare mia questa preghiera. E chi non può condividerla con il Creatore, la prenda ugualmente, e la condivida con la Vita stessa che oggi l’accoglie e lo contiene.