VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

17 nov 2013

Inquilini della terra

È difficile guardare con pari attenzione il procedere della vita verso la morte sia il percorso inverso, della morte verso la vita. La nostra esperienza, che si pone come radice di ogni conoscenza, rischia di rendere la mente incapace di oltre-passare il puro dato dei sensi. È tipica del pensiero occidentale la difficoltà a ragionare in termini di circolarità: cioè di passaggio continuo e di interdipendenza tra l’una e l’altra. Nelle filosofie e religioni orientali la mente è allenata a coltivare un campo visivo più ampio di quello che percepiscono i sensi. È il campo visivo del silenzio, dell’attenzione e della meditazione che diventa fonte di conoscenza e capacità di ascolto di quanto la natura stessa ci propone.

 

È novembre. Tutto, intorno a noi, ci parla di ritiro. La luce restringe il suo giro. Le piante lasciano andare le foglie con cui hanno respirato nelle stagioni che si chiudono, e si preparano al silenzio dell’inverno. Gli animali rallentano il loro ritmo: alcuni hanno conservato perfino la capacità di andare in letargo. In un tempo e uno spazio di raccoglimento e di silenzio. Anche noi umani sentiamo il bisogno di rallentare i nostri tempi: la sonnolenza che si fa sentire, la stanchezza che ci raggiunge prima del solito, con quel senso di affaticamento che segna la fine di una giornata. E ci sorprendiamo, quasi preoccupati, nel sentire che l’energia dell’estate si allontana.

 

Ma non siamo anche noi parte di questa stessa natura? Guardiamo. Anche la tradizione ci viene incontro. L’hanno inventata i nostri padri. Più capaci, forse, di dialogare con quella natura di cui si sentivano parte. Da oltre mille anni nel mese di novembre ci sentiamo chiamati a riavvicinarci a coloro con cui abbiamo condiviso parte di quel tempo che ancora segna le nostre vite. Andiamo nei cimiteri. Guidati dal pensiero che lì incontriamo i nostri morti. Genitori, amici, compagni di vita. Figli perfino, per qualcuno. Persone, comunque, con cui abbiamo fatto insieme un pezzo di quella strada sulla quale noi ancora stiamo camminando.

 

Due pensieri, credo, potrebbero dirci.

Il primo. Morire e vivere non sono poi così lontani come noi tendiamo a pensare. Tantomeno sono l’uno il contrario dell’altro, come spesso ci capita di sentire. Essi sono come le due facce della medesima realtà, della medesima vita. Se noi fossimo capaci di ascoltarli, i nostri morti ci direbbero: fermati un momento, respira. Perché tanto correre? Guardati intorno. Non vedi l’autunno? Le piante, gli animali, la luce. Rallenta anche tu. Parla un po’ con noi. Dicci i tuoi pensieri, quelle preoccupazioni che ti catturano l’anima e ti restringono il respiro. Perché non provi a condividerle con noi? Quanto tempo, sapessi, anche noi abbiamo sprecato, sempre di corsa e con il fiato corto. Anche noi siamo vissuti come se tutto il mondo allora dipendesse da noi. Nel nostro ‘oggi’ sappiamo bene che non è così. Respira.

 

Poi, con la saggezza che ora sanno ascoltare, ci ricorderebbero un proverbio. È un proverbio indiano, ma nel loro mondo India o Italia non fa troppa differenza: «La terra sulla quale viviamo non ce l’hanno data i nostri padri in eredità, ce la danno in affitto i nostri figli». Poi, vedendo che noi siamo senza parole perché non ne comprendiamo subito il senso, continuerebbero ricordandoci che abitare una casa in affitto significa che non ne siamo proprietari. Significa che prima o poi quella casa la lasceremo. Proprio come hanno fatto loro, che l’hanno già lasciata perché un giorno la vita e la morte, insieme, hanno ricordato che il contratto d’affitto era scaduto ed era giunto il tempo di recarsi in un’altra casa. La casa della Vita che ha oltrepassato la porta della Morte.

 

Nei Detti Islamici di Gesù troviamo queste parole: «Il mondo è un ponte: oltrepassatelo senza costruirvi sopra» (286).

Non credo sia un invito a disinteressarci della casa. È per ricordarci che siamo di passaggio. Perché anche se la casa è in affitto, pulirla e renderla abitabile è compito di chi ci vive. Prenderci cura di noi stessi e degli altri, nostri coinquilini; costruire relazioni di pace e di rispetto nelle differenze, tra culture e tra persone; non togliere il contributo che ciascuno può dare perché la politica sia impegno per il bene comune; lavorare perché sia la giustizia a guidare i rapporti tra i popoli; curare che le religioni diventino sempre più luoghi di libertà e ossigeno per lo spirito…

 

Così, io credo, i nostri figli potranno dire che questa terra che ci hanno dato in affitto l’abbiamo curata bene. E anch’essi, imparando da noi, sapranno custodirla. Per i figli che dopo di loro la prenderanno in affitto. In una catena, ininterrotta, di Vita e di Libertà.