VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

2 ott 2013

Simona Argentieri

Presentazione

L’incontro tra me e Federico Cardinali è stato semplice e naturale, ma anche fonte di continue sorprese. È cominciato nel segno della spontanea simpatia nel corso dei seminari che sono stata invitata a tenere nella sede di Ancona dell’Istituto di Psicoterapia Familiare; e poi, durante quella esperienza, si è arricchito di stima e reciproca curiosità. Abbiamo lavorato insieme sui problemi della famiglia, con le sue patologie e le sue risorse, nel registro della sofferenza e in quello dell’armonia, condividendo la fiducia nello strumento della psicoanalisi per comprendere prima ancora che per curare.

Tuttavia, è anche stato chiaro fin dal principio che siamo due interlocutori paradossali: lui un uomo, uno psicologo, di profonda cultura religiosa; io una donna, medico e psicoanalista, altrettanto profondamente non credente in ogni forma di trascendenza. Su tali atipiche premesse è partito il nostro dialogo, che non accenna a finire, tra affinità e divergenze, in un equilibrio mai definitivo ma sempre connotato dal reciproco rispetto; tanto da spingere Federico Cardinali ad offrirmi la prefazione del secondo volume della sua opera e me ad accettare l’impresa.

D’altronde, il dialogo è per lui un connotato identitario, un’esigenza che lo accompagna – come i suoi scritti testimoniano – in ogni dimensione della vita. Per anni, puntualmente ogni sette giorni, ha pubblicato una paginetta con stile limpido e breve, ma di altissimo peso specifico, per intessere un dialogo a distanza con i suoi lettori, scegliendo di volta in volta una tema dell’attualità o della quotidianità (‘Il Natale’, ‘Genitori e nonni’, ‘E i compiti per le vacanze?’) senza evitare gli argomenti più difficili o crudi (‘Il bambino violato’, ‘Adozioni’, ‘Separazioni e rancori’, ‘Affamati di giustizia’). L’intento non è esibire saggezza, né profondere dottrina; ma pensare e far pensare gli altri. Tanto più che gli ‘altri’ ai quali si rivolge non sono dei pazienti e neppure degli psicoterapeuti, ma persone qualunque, immerse nel tumulto della modernità. Questi pensieri, affidati originariamente alla vita effimera di un giornale, vengono ora raccolti in un secondo volume.

 

Un assai utile strumento che compare nelle prime pagine – dopo l’Indice Generale, che raccoglie non solo i titoli che si susseguono, settimana dopo settimana, negli anni 2011 e 2012; ma elenca anche quelli degli anni precedenti dal 2008 al 2010, che costituiscono il corpo del primo volume – è l’Indice per Argomenti. Qui si raggruppano gli interventi secondo precisi criteri tematici: L’uomo, questo sconosciuto; Vita in famiglia; In dialogo con la vita e con la morte; Tra religione e spiritualità; L’uomo sociale e politico.

A mio avviso, non si tratta solo di facilitare al lettore la scelta di ciò che particolarmente lo interessa, ma è soprattutto un modo attraverso il quale Federico Cardinali dialoga con se stesso, si interroga sulle sue riflessioni nel corso del tempo, approfondisce un concetto, talvolta si consente persino di cambiare un po’ idea.

 

Il linguaggio è semplice, non ci sono concessioni al gergo psicologico; l’attenzione è orientata alle vicissitudini quotidiane di tutti, al modo in cui viviamo e operiamo; ma anche al modo in cui si formano i pensieri con i quali reagiamo per far fronte ai grandi temi dell’esistenza e cerchiamo di connotarli di significato. In questa impresa, l’autore è una presenza discreta, che non fa mai pesare competenza e cultura; anzi, espone più dubbi che certezze.

 

Prendiamo ad esempio l’articolo del 22 luglio 2012 ‘Un’occasione per pensare’. L’occasione è la morte di un artista molto amato, Lucio Dalla, che certo, oltre al clamore mediatico che sempre suscita il fenomeno del divismo, ha evocato anche in tantissimi di noi emozioni sincere. Ma – scrive Federico – “Lucio aveva un compagno con cui da tempo condivideva la sua vita. Lucio e Marco, insieme, erano la loro famiglia”. Ciò che mi piace è la libertà del suo pensiero, anticonformista, non allineato alle ideologie conservatrici; ma neppure provocatorio, a incoraggiare chi delle vicende umane private vuole fare vessillo. Egli evoca invece la dimensione affettiva delle coppie composte da due persone dello stesso genere, non riducibili alla rozza definizione di ‘omosessuali’, che vorrebbe ricondurre tutta la complessità delle relazioni umane al sesso. Certo qui è in causa la questione dei diritti che ogni società che si pretende civile deve rispettare. Ma egli fa qualcosa di più, profondamente in sintonia con il migliore spirito della psicoanalisi: invita chi lo legge – e ne ha diritto perché è ciò che fa continuamente egli stesso – a rivolgere l’attenzione critica su di sé: “… Perché allora come società civile troviamo tanti ostacoli nel riconoscere anche a queste persone (uomini e donne) il diritto di vivere in coppia e di vedersi riconosciuto, con relativi doveri e diritti, questo stato? Alcuni dicono che questo riconoscimento danneggerebbe la famiglia ‘naturale’ fondata sull’incontro tra uomo e donna. Dobbiamo essere onesti, però: non è sotto gli occhi di tutti la grande crisi che la famiglia sta attraversando?”.

È proprio con la sua connaturata onestà che Federico Cardinali addita l’ipocrisia di chi vorrebbe addebitare ad altri, al ‘fuori’, la crisi dei valori, senza mettersi in discussione e assumersi responsabilità.

 

I nostri punti di accordo e di consenso sono tanti, i problemi che gli stanno a cuore sono anche i miei: l’attenzione ai più deboli (i bambini, le donne, gli svantaggiati della terra); il rifiuto di avallare con spiegazioni psicodinamiche le soluzioni autoreferenti di coloro che sfuggono alle proprie responsabilità; ad esempio i giovani padri che a fronte dell’angoscia della paternità abbandonano la famiglia verso nuove relazioni, che – dice con frase fulminante – rendono i figli “orfani di padre vivo”, anziché cercare in se stessi le ragioni della crisi; come pure l’indolenza di chi sfugge alla fatica dell’impegno politico per poi attestarsi in una sterile lamentazione sulle carenze della società.

 

Altrettanti sono gli argomenti in ordine ai quali le nostre differenze si fanno radicali, fin dal titolo che si propone come LA MENTE E L’ANIMA. Non è il mio linguaggio. Non posso scindere l’unità di mente e corpo (Freud diceva che fin dall’origine il nostro io è un io corporeo) secondo un processo di maturazione e crescita mai lineare, un continuum che va dai livelli concreti all’astrazione del simbolico, in perenne concomitanza. In quanto all’anima, penso che non mi compete, seppure rivendico il diritto alla dignità di una visione spirituale laica, non trascendente.

Voglio però ammettere che le questioni lessicali sono difficili e che Federico stesso spiega il suo travaglio nella scelta del titolo nella sua prefazione al primo volume. A mia volta, seppure non faccio uso della parola anima, non sono soddisfatta neppure della parola ‘psiche’, che uso più come aggettivo – ‘psichico’ – che come sostantivo.

Al di là delle questioni metapsicologiche, le nostre divergenze necessariamente si ritrovano nelle grandi diatribe della bioetica (un terreno nel quale anch’io da molto tempo sono appassionatamente impegnata): le scelte di inizio e di fine vita, il diritto di ciascuno a scegliere e a chiedere di veder rispettate le proprie scelte in ordine a quale sia il limite oltre il quale non c’è più la dignità della vita. Ma non è questa l’occasione per esporre i miei punti di vista, tanto più che l’ho fatto ampiamente altrove nel corso del tempo.

 

Farei torto all’autore peraltro se non riconoscessi il suo coraggio, la sua indipendenza di pensiero a fronte di qualunque ortodossia istituzionale. Nell’articolo del 16 gennaio 2011 “Religione… libera” scrive ad esempio: “Le religioni sono diverse. Ed è naturale che sia così. Perché le religioni sono legate alla cultura di un popolo. Cattolici o laici, musulmani o buddisti, induisti o protestanti o ortodossi, o qualunque altra ‘definizione’ vogliamo darci, non possiamo dimenticare una grande verità: le religioni sono soltanto delle strade. Per arrivare alla meta. Non sono esse stesse la meta”. “La meta – conclude – è l’incontro con Dio”. La destinazione alla quale io aspiro è ovviamente diversa, ma credo che siamo ugualmente due buoni compagni di strada. Ho detto che non mi riconosco nel titolo; ma il sottotitolo TAPPE DI UN VIAGGIO TRA PSICOLOGIA E SPIRITUALITÀ invece mi piace, perché usa la metafora del viaggio come percorso segnato da arresti, riprese, ostacoli e incontri; e possiamo tener conto senza paura della consapevolezza reciproca che le nostre mete – quelle alle quali aspiriamo e quelle che davvero raggiungiamo – possono divergere radicalmente.

Ammiro infine (anche se non la condivido del tutto; la mia dimensione esistenziale è più legata al senso del limite) la sua profonda fiducia nell’umano, nelle sue risorse e nella sua infinita potenzialità di riscatto.

 

Ma voglio concludere questa prefazione sottolineando ciò che maggiormente apprezzo del libro e del suo autore: più che i contenuti, il metodo; più che la configurazione teorica, l’umanità, la tensione perenne a interrogarsi e a interrogare gli altri, a dar loro ascolto purché – come lui – siano fedeli all’onestà intellettuale che non può essere disgiunta dagli affetti.

Lascio allora la conclusione alle sue stesse parole, a proposito del dolore del vivere (25 novembre 2012): “Ma cos’è questo dolore? Da dove nasce? Che cosa lo alimenta? Come e dove si nasconde, al punto che a volte sembra emergere all’improvviso e con una forza che ci disorienta?”. Sono domande difficili, con le quali anch’io mi devo confrontare giorno per giorno, con i miei pazienti nell’intimità del mio studio ed anche con me stessa. Posso accogliere con convinzione la sua riformulazione della domanda, eccellente viatico alla risposta che ciascuno deve trovare a sua misura: “Io credo che quello che chiamiamo il dolore del vivere altro non sia che la nostra difficoltà a vivere il tempo presente. […] Il passato ci parla, il suo discorso si chiama ‘bilancio’. […] Anche il futuro ci parla. Il suo discorso si chiama ‘progetto’…”.

La vita certo è spesso dolorosa, ma – desidero aggiungere – gli strumenti della psicoanalisi possono aiutarci a non sommare alla sofferenza reale quella quota di infelicità in più, inutile, che è generata dalla nevrosi; dalla pretesa che la serenità, la gioia ci vengano tributate come un diritto, anziché come il frutto del bene che dobbiamo alacremente perseguire per noi stessi e per gli altri.

 

Simona Argentieri è Membro Ordinario e Didatta dell’Associazione Italiana di Psicoanalisi e dell’International Psychoanalitical Association