VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

3 ott 2013

Alberto Maggi

Postfazione

Carissimo Federico,

 

ho letto con vero piacere questi tuoi scritti.

Non entro nel merito di quanto dici, se non per dirti che sono rimasto colpito dalle riflessioni che sai offrire a chi ti legge, con un modo e con un linguaggio che, pur conservando rigore scientifico e profondità di pensiero, sa arrivare veramente a tutti con semplicità e chiarezza.

Ma la cosa che più mi piace di te è che ti poni non come uno che sa e vuole insegnare a chi non sa, ma come una persona che è in cammino. Un compagno di strada, uomo tra gli uomini, nel viaggio della vita.

Il Viaggio tra psicologia e spiritualità, come scrivi nel sottotitolo del libro, diventa un viaggio che è ricerca, ascolto delle domande che la vita ci pone davanti ogni giorno. In un cammino verso la verità. La verità dell’uomo che, io credo di poter aggiungere, coincide in fine con la verità di Dio.

 

Quando mi hai chiesto se ero disposto a scrivere qualcosa per questo tuo secondo volume de LA LENTE E L’ANIMA, tu sai che io ero reduce da un mio viaggio molto particolare, Un viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita. La malattia mi aveva incontrato e mi aveva chiesto di camminare un po’ insieme con lei. Potevo dirle di no? Io avrei pure voluto, ma lei era più decisa di me: è giunta all’improvviso e mi ha preso per mano – e io mi ci sono lasciato prendere. E devo dirti che, sia pure con una sufficiente distanza di sicurezza, sembra che non abbia ancora deciso di lasciarmi camminare del tutto da solo.

 

Ho ripensato allora a quante volte nei miei studi e nelle mie meditazioni con la Bibbia avevo incontrato la malattia, con la sua forza, e la forza grande della liberazione. Ho provato a scrivere qualche appunto fra i tanti pensieri che nascono nella mia mente di fronte a un tema tanto vasto e in un momento così particolare.

Decidi tu se ritieni che questi pensieri possano accompagnare questo tuo lavoro (…).

 

Con affetto grande.

Tuo Alberto

Montefano, 10 settembre 2013

 

* * *

 

MALATTIE E LIBERAZIONE

 

Gesù inizia la sua attività liberando e guarendo le persone sottomesse all’istituzione religiosa, come descrive l’evangelista Matteo: “E percorreva l'intera Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni malattia e infermità nel popolo” (Mt 4,23).

L'evangelista segnala una presa di distanza dalle istituzioni religiose giudaiche (loro sinagoghe), dove Gesù va non per partecipare al culto, ma per insegnare, liberando così il popolo da quelle false immagini di Dio inculcate dall'insegnamento tradizionale. Una di queste immagini era che le malattie fossero conseguenza diretta del peccato: “Chi pecca contro il proprio creatore cade nelle mani del medico” (Sir 38,15).

Nel vangelo di Giovanni si legge che, quando i discepoli vedono “un uomo cieco dalla nascita”, chiedono a Gesù se “ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco” (Gv 9,1-3). La cecità non era considerata un'infermità come le altre ma, impedendo lo studio della Legge, era ritenuta una maledizione divina.

Nella Bibbia si legge che “Bene e male, vita e morte, povertà e ricchezza provengono dal Signore” (Sir 11,14), un Signore che definisce se stesso con queste parole: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo” (Is 45,7), e assicura che non “avviene nella città una disgrazia che non sia causata dal Signore” (Am 3,6).

La credenza, contenuta nell'Antico Testamento, che sia Dio l'autore delle sciagure che si abbattono sull'umanità, lascia all'uomo solo la possibilità di accettare rassegnato quel che il Signore gli manda, sperando che non calchi troppo la mano: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”,replica Giobbe alla moglie che lo rimprovera per aver benedetto il Signore per tutte le disgrazie piovutegli addosso (“il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”, Gb 1,21.2,10).

La convinzione che mali e malattie siano un castigo inviato da Dio per le colpe degli uomini, è così radicata all'epoca di Gesù che, quando un ebreo incontra una persona con qualche grave handicap, benedice il Signore autore del meritato castigo: “Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: Benedetto il giudice giusto” (Ber. 58b).

Ma se la malattia è sempre in relazione al peccato dell'uomo, come poteva spiegarsi la sofferenza dei bambini, indubbiamente innocenti? Per i rabbini, la soluzione era molto semplice: i piccoli sono il capro espiatorio delle colpe degli adulti, come insegnano Bibbia e Talmud che presentano un “Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20,5); “Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono per il male dell'epoca” (Shab. 33b).

 

Gesù con il suo insegnamento e la sua attività smentisce questa falsa immagine di Dio. Dio è colui che libera dalle malattie (“Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”, Sal 103,3), e non colui che le invia. Questa opera di liberazione è il contenuto della “buona notizia” (gr. euanghelion, vangelo, Mt 9,35; 24,14; 26,13).

La buona notizia è quella del Regno, cioè dell'attività di Dio come re nei confronti dei suoi, che verrà formulata da Matteo nel discorso sul monte (Mt 5) ed espressa nelle azioni compiute dal Cristo. La regalità del Signore non consiste nel dominare i suoi, ma nel servirli (Mt 20,28); Dio non sottomette, ma libera. L’attività di Gesù, il “Dio con noi” (Mt 1,23), consisterà nell'eliminazione di quelle infermità che sono nelpopolo, cioè quegli impedimenti dai quali devono essere liberati per poter seguire il Cristo.

La fama di Gesù si estende al di là dei confini della Galilea, e raggiunge la terra pagana: “Giunse la sua fama per tutta la Siria e conducevano a lui quanti avevano male e tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, lunatici e paralitici; ed egli li guarì” (Mt 4,24). Inizia già a delinearsi un regno i cui confini non sono limitati a Israele, ma estesi a tutta l'umanità: anche i pagani sono i beneficiari dell'azione risanante di Gesù. Il regno di Dio è l’estensione universale dell’amore di Dio dal quale nessuno può essere escluso.

 

Gesù non chiede agli infermi di accettare la loro malattia come espressione della volontà divina, o di offrire a Dio le proprie sofferenze per salvare l’umanità peccatrice. Neanche afferma che queste sofferenze siano state loro inviate da Dio, come croce da portare per tutta la loro esistenza.

No.

Gesù semplicemente guarisce.

Gesù non elabora una teologia del male o una spiritualità della sofferenza.

Lui non dà spiegazioni, agisce.

Non teorizza, lui risana. Là dove c’è morte lui comunica vita, dove c’è debolezza lui trasmette forza, dove c’è disperazione infonde coraggio.

L’azione del Cristo non è solo una risposta alle domande di aiuto (“Se vuoi, puoi purificarmi!”, Mc 1,40). Gesù precede le richieste degli infermi, risuscitando la speranza in chi aveva perduto ormai ogni illusione: “Vuoi guarire?” (Gv 5,6).

Gli evangelisti non intendono certo presentare ingenuamente il Cristo come una specie di pronto-soccorso ambulante risolutore di tutte le infermità del popolo. Gli autori dei Vangeli non redigono una cronaca, ma una teologia, non sono interessati alla storia, ma alla fede, non intendono narrare dei fatti ma comunicare delle verità.

Gli evangelisti denunciano lo stato di prostrazione del popolo causato dal dominio della casta religiosa al potere. L’istituzione religiosa fa ammalare le persone privando l’uomo di libertà e di iniziativa, impedendo la sua maturità. Il popolo non può permettersi di avere autonomia di pensiero e di condotta (“Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”, Gv 7,49).

Inoltre, per mantenere il popolo sempre sottomesso e docile ai suoi voleri, l’istituzione religiosa deturpa il volto di Dio, presentandolo come uno spietato tiranno di cui occorre aver paura, un Dio nel nome del quale è possibile togliere la vita, arrivando a uccidere persino quelli del proprio sangue, per lavare l’offesa alla divinità, come ordinò Mosè dopo il tradimento del vitello d’oro (Es 32,25-29).

 

È la paura di Dio causata dalla religione la causa principale delle malattie da cui Gesù guarisce. Gli evangelisti non intendono infatti presentare un elenco di patologie mediche, ma, adoperando il linguaggio dei profeti, usano le infermità corporali per indicare quelle ancora più gravi che appartengono allo spirito (“Fa’ uscire il popolo cieco, che pure ha occhi, i sordi, che pure hanno orecchi” (Is 43,8); “Ascolta, popolo stolto e privo di senno, che ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode” (Ger 5,20). Gesù non è pericoloso per aver ridato la vista a un cieco, ma per avere aperto gli occhi al popolo (Gv 9).

La buona notizia del Regno è per questo strettamente collegata alla guarigione di ogni malattia e infermità: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni sorta di malattia e infermità...” (Mt 9,35).

C’è una stretta relazione tra il contenuto della buona notizia (Dio è amore) e la salute degli uomini. E se la guarigione è opera della buona notizia, le cause dell’infermità del popolo vanno ricercate in una dottrina che si contrabbandava come volontà divina, quando era soltanto invenzione umana per dominare e sottomettere il popolo (“Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”, Is 29,13; Mt 15,9; Mc 7,6).

 

L’azione di Gesù nasce dalla sua compassione. Questa non è un sentimento, ma un’azione esclusiva di Dio con la quale il Signore comunica vita a chi non l’ha: “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno pastore...” (Mt 9,36).

Nel suo operato Gesù constata la situazione drammatica in cui giace il popolo. Mentre Mosè aveva stabilito che ci fosse sempre un uomo valido affinché “la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,17; Zc 10,2), ora nessuno si prende cura di questo popolo che, mancando di un orientamento, sta perdendo progressivamente le forze.

In realtà non è che mancassero i pastori: è che questi curavano solo il loro interesse, a scapito di quello del popolo del quale erano chiamati a prendersi cura, come aveva denunciato il Signore tramite il profeta Ezechiele: “Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate” (Ez 34,2-5).

Vista la carenza di pastori e lo sbandamento delle pecore, ci si aspetterebbe che la preghiera di Gesù fosse perché il Signore inviasse pastori per il suo gregge. Invece Gesù parla di operai: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,37-38).

Gesù ha invitato i discepoli a seguirlo per essere “pescatori d’uomini” (Mt 4,20; Mc 1,17; Lc 5,10) e non pastori. L'unico pastore del gregge è il Signore (Gv 10,11), che ha bisogno di collaboratori, di operai, ma non di altri pastori. Al contrario dei rappresentanti dell’istituzione religiosa, che si sono appropriati del gregge per soddisfare la propria ambizione di potere, i discepoli sono invitati a riconoscere che l’unico Signore del gregge e della messe è Dio (Ez 34,31), e il loro ruolo, in quanto operai, è solo di collaboratori, che Gesù invia, dando “loro il potere di scacciare gli spiriti impuri e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10,1).

Gesù non incarica i discepoli di insegnare dottrine, ma di trasmettere una forza vitale capace di liberare e di guarire. Infatti, mediante l’annuncio del messaggio del Regno i discepoli potranno liberare gli uomini da tutto ciò che domina (“spirito impuro”) e limita la loro vita (“malattie e infermità”). L'attività dei dodici sarà un prolungamento di quella di Gesù (Mt 9,35) venuto perché gli uomini “abbiano vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10), e un’estensione dell’azione creatrice del Padre, autore e “amante della vita” (Sap 11,26).

Gesù ha curato gli infermi (Mt 8,16; 9,35), risuscitato la figlia di uno dei capi (Mt 9,18-26), purificato il lebbroso (Mt 8,2-4) e cacciato i demòni (Mt 9,32). I discepoli sono invitati a continuare l’attività di Gesù nel presente: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Gli infermi guarite, i morti risuscitate, i lebbrosi purificate, i demòni scacciate” (Mt 10,7-8). La preoccupazione di Gesù non è quella di convertire i peccatori, ma di curare i malati.

Non quel che offende Dio, ma quel che offende l’uomo è l’interesse principale di Gesù.

 

 

Alberto Maggi è Direttore del Centro Studi Biblici “G. Vannucci”, Montefano