VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

2 set 2012

Il dolore del vivere

Le nostre domande senza risposta

Luciana aveva 63 anni, Erica ne aveva 46, Sonia 31, Attilio 48, Lucio 31. Castelbellino, Maiolati, Osimo, Apiro, Ancona. Nomi di persone, e nomi di paesi e città che le vedevano nelle loro strade. Persone e paesi – e ci limitiamo a persone e luoghi a noi molto vicini – che quest’estate hanno incontrato la morte. Una morte, non temuta, una morte ricercata.

 

Suicidio, noi diciamo. Parola difficile. Non nel suo significato etimologico: sui-cidio nasce dall’incontro di due parole latine, sui (= se stesso) e caedere (= colpire, uccidere). Difficile nel suo significato affettivo: tutto il nostro mondo interno risuona di un colore lugubre, triste, buio. Senza speranza. Così noi lo sentiamo. Noi che restiamo, qui in questa vita, e privi ormai della persona che ha deciso di andarsene. Che ha deciso di colpire se stessa.

 

Colpire o liberare?

Perché credo che i punti di vista siano proprio diversi. Noi – noi che restiamo – diciamo colpire, uccidere. La persona che lo fa, invece, direbbe liberare. Liberare se stessa da una situazione che per lei non è più sostenibile. Malattia, solitudine, silenzio, mancanza di prospettive. Il buio. Buio che è oscurità totale, assenza di ogni possibilità di vedere, di guardare oltre. Oltre questo momento e questo luogo che t’imprigionano. Ti incatenano.

 

Il suicidio ha sempre accompagnato la storia dell’umanità. Di fronte ad esso non abbiamo potuto fare a meno di interrogarci, nel tentativo di trovare delle risposte. Non l’abbiamo potuto evitare in passato, né possiamo farlo adesso. È una cosa troppo sconvolgente, impensabile sembra. Contro il nostro istinto di sopravvivenza. Eppure… eppure in ogni epoca e in ogni cultura esso ha camminato accanto a noi. Platone lo vedeva come un’offesa verso gli dèi, per Aristotele l’offesa era verso la comunità. Filosofi a noi più vicini vi vedono una trasgressione alla legge morale, altri un atto assolutamente ‘inutile’. Nel mondo orientale esso ha assunto perfino significati positivi: suicidi rituali. Dalla vedova che si dà la morte sul rogo del marito, ai suicidi a tutela del proprio onore nell’antico Giappone. Nella tradizione ebraica, nella cultura cristiana e in quella islamica, il suicidio è considerato un atto grave, perché signore della vita è soltanto Dio e l’uomo non ne può disporre come vuole.

 

Ma questo pensiero – che soltanto Dio è il Signore della Vita – è così grande che per troppo tempo non siamo riusciti a farlo nostro. Nella sua pienezza e profondità. Perché abbiamo attribuito a Lui i nostri pensieri, con tutto il limite che questi sempre portano con sé. Lo abbiamo ‘ridotto’, Lui il Signore della Vita, a un giudice-inquisitore che sapeva solo condannare chi, dalla sofferenza del vivere, aveva cercato di uscire chiudendo con questa dimensione della vita, troppo pesante per le sue spalle di pover’uomo. Anche certa parte della Chiesa ha sposato quest’immagine di Dio, purtroppo: siamo arrivati perfino a negare il funerale religioso ai suicidi; abbiamo negato loro perfino la sepoltura nel campo-santo. Che è il Campo dei Santi, cioè dei figli di Dio. Di tutti i figli di Dio!

 

Un poeta che ha accompagnato i miei anni giovani, Fabrizio De André, così canta, nella sua Preghiera in gennaio: «… Ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte: “Venite in paradiso, là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del Buon Dio”...». Anch’io sono convinto che ‘nel mondo del Buon Dio’ non può esserci altro che pietà e accoglienza. «Compassionevole e misericordioso è il Signore» ci ricorda la Bibbia (Salmo 111). Soprattutto verso chi ha incontrato un dolore del vivere troppo pesante per le proprie forze.

 

Perché allora tanta durezza da parte nostra?

Perché una persona che si toglie la vita ci mette davanti agli occhi una domanda che ci disorienta: dov’eri tu quando io non ce la facevo più a vivere? Com’è che non te ne sei accorto? E noi, i sopravvissuti, di fronte a questa domanda non sappiamo trovare una risposta che acquieti la nostra coscienza. Solo dopo la sua morte riusciamo a leggere quei ‘segni’ che quel vicino di casa, quella persona amica, quel parente… ci stavano mandando.

Ma ormai è fatta. Lui se n’è andato e noi siamo qui. Soli. Con i nostri pensieri e i nostri interrogativi.

(1. continua)

 

L'articolo non è stato pubblicato dal giornale perché 'critico' nei confronti di certe posizioni della Chiesa.