VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

16 set 2012

Buoni e cattivi maestri

Il nostro tempo sembra un’epoca in cui molti si pongono come modelli da imitare, o addirittura da invidiare, per dove sono arrivati nella loro vita, per ciò che hanno realizzato o per quanto sono riusciti ad accumulare. E, quasi moderne sirene, continuano ad allietarci con il loro canto: “Imparate da me, guadate come sono bello, come sono grande, come sono ricco… io mi sono fatto da solo!”. Che questi càntino… lasciamoli pure cantare. Il problema è che molti ci cadono, sedotti dal luccichio dei tanti palcoscenici. Quelli dello spettacolo o della politica o degli affari o, più semplicemente, della sempre-accesa televisione.

 

Dice il Talmud – il grande compendio della sapienza e delle tradizioni ebraiche – che nella vita dovremmo fare due cose a favore nostro: la prima è trovarci un maestro, la seconda sceglierci un amico.

Duemila500 anni fa Confucio diceva: «Se viaggiassimo in tre, certamente avrei sempre un maestro accanto: dell’uno coglierei i pregi per trarne esempio, dell’altro coglierei i difetti per correggermi». Attenzione all’ultima parola: correggermi, non correggerlo. La persona di cui vedo i difetti, anch’essa può diventare maestro, perché cogliere in lui i suoi limiti diventa per me un’occasione per vedere quegli stessi limiti in me stesso. Un altro antico Maestro, cinquecento anni dopo Confucio, diceva ai suoi che vedere la pagliuzza nell’occhio del prossimo è una buona occasione per accorgerci della trave che è nel nostro.

 

È difficile, oggi, trovare un vero maestro. Uno, cioè, che sappia guardare la vita con uno sguardo di attenzione e di rispetto, verso il mondo e verso la vita stessa. Uno che viva questi valori e che, proprio in forza di questa sua coerenza, possa indicarmi la strada per correggere me stesso. Le mie contraddizioni e le mie incoerenze.

 

Maestri non si nasce. Quando nasciamo, tutti abbiamo bisogno d’imparare. E qui incontriamo i nostri genitori. Sono loro che c’insegnano. Tutto. C’insegnano a parlare, a camminare, a prenderci cura di noi. C’insegnano cosa significhi vivere e cosa significhi prenderci cura, di chi ci sta vicino e di noi stessi. Loro sono i nostri primi maestri. E sono maestri che non dimenticheremo più, li porteremo nel cuore e nella mente. Con loro e con il loro insegnamento ci confronteremo sempre, anche quando le esperienze e gli incontri della vita ci porteranno a cambiare e – perché no? – a oltre-passare quanto loro, con tutta la loro onestà e tutto il loro affetto, ci hanno insegnato.

 

Usciti da casa, maestri incontriamo a scuola. Li chiamiamo proprio così: maestro, maestra. Poi essi diventano ‘professori’. Chi sa perché devono cambiare nome? Professore vale più di maestro, dicono. Ma io ho un grande timore: non sarà che, diventando professore, si abdica alla funzione di maestro? Quante volte incontriamo dei bravi professori che sanno tutto (o quasi) della disciplina che insegnano. Ma per quanti di loro non ci verrebbe da ricordare le parole che Kierkegaard diceva di Hegel: «Il Signor Professore sa tutto sull’universo. Ha semplicemente dimenticato chi è lui».

 

Nella tradizione orientale esiste una figura particolare: il guru. Nell’antico sànscrito guru significa profondo. Ciò che qualifica il guru come maestro non sono le sue conoscenze accademiche o i suoi titoli di studio o il suo successo nei vari settori della vita (economico, politico, filosofico, scientifico, religioso, ecc.): ciò che ne fa un maestro è l’autorealizzazione personale. Nei Veda (= i testi sacri dell’Induismo) si dice che il vero guru è una persona libera da «inganno, orgoglio, astuzia, malvagità, frode, gelosia, falsità, egoismo, interesse personale», e che il suo compito non è solo insegnare la via, ma anche vivere sentimenti di compassione e di amore verso il discepolo.

E nello stesso tempo il discepolo viene messo in guardia contro il pericolo dei falsi maestri: «Vagando all’interno dell’ignoranza e pensando di se stessi “siamo saggi, sapienti”, gli sprovveduti, pur sofferenti, errano nella loro crescita, come ciechi guidati da uno anch’egli cieco».

 

Ma «Può un cieco guidare un altro cieco? – si chiedeva il Maestro di Nazareth duemila anni fa – Se un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso» (Matteo 15,14 e Luca 6,39).