VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

8 mag 2011

La legge e lo spirito (1)

Nostro figlio si sta preparando per la prima comunione. Noi siamo contenti, perché per noi è un momento importante e ci piacerebbe che possa viverlo come un incontro di gioia con Gesù, oltre che come un giorno di festa. Da un po’ di tempo a questa parte però ci siamo accorti che parla tanto spesso di peccato: questo non si fa perché è peccato, quello non si dice perché è peccato, ce l’ha detto al catechismo, ci dice.

Ci chiediamo il perché di tanta insistenza sui peccati piuttosto che sul significato della comunione come incontro con il Signore. Se un bambino viene educato con la paura del peccato, non ci pare che questa sia una strada buona per fargli vivere la gioia della fede e dell’amore di Dio. Poi è normale che da grandi se ne vanno e non frequentano più la chiesa. (…) Lei che ne pensa, anche come psicologo: questo modo di fare catechismo non è diseducativo?

Annalisa e Franco

 

Cari genitori, devo dirvi che non siete i primi che si pongono questi interrogativi. Questo, secondo me, è veramente un problema, e credo sia un punto molto importante riguardo all’educazione cristiana e al fenomeno dell’allontanamento dei ragazzi e dei giovani dalla chiesa. Un’educazione fondata sul peccato è certamente diseducativa, perché è un’educazione che imprigiona. Con la conseguenza che o vi si rimane incagliati o, nel tentativo di liberarsene, si butta via tutto.

 

La vostra domanda mi porta a riflettere su due pensieri che, a mio parere, possono aiutarci per entrare in un tema così complesso che ci coinvolge nella mente e nell’anima. Oggi proveremo a riflettere sul primo pensiero: sul pericolo di confondere la religione con l’osservanza di regole e di leggi. Il secondo lo rimandiamo alla settimana prossima: proveremo a riscoprire la benedizione con cui è iniziata la storia dell’umanità.

 

Circa una religione fatta di regole e di leggi, devo dire che molte volte arrivano nel mio studio persone appesantite da esperienze che la vita mette loro di fronte. Esperienze vissute troppo spesso con un senso del peccato che nulla ha a che fare con una vita cristiana vissuta in una relazione di amore e di libertà con Dio, Padre-e-Madre degli uomini.

Su questo la Parola del Vangelo è molto chiara. Nei secoli, però, accanto ad una comprensione sempre maggiore di questa Parola, abbiamo anche rischiato di fraintenderla tante volte o, addirittura, di ‘trasformarla’ con tanti nostri ragionamenti. Preoccupati, forse, più di salvaguardare l’aspetto istituzionale della religione che di curarne la dimensione spirituale. E abbiamo rimesso la legge (= le regole, le tradizioni) prima della relazione con il Padre. Ricollocandoci così in quel tipo di religiosità che Gesù aveva insegnato a superare.

Ricordate la risposta che aveva dato alla donna di Samaria con cui si era fermato a parlare, seduto presso un pozzo? A lei che gli chiedeva dove e come si dovesse pregare Dio, dato che ebrei e samaritani litigavano su quest’argomento, lui disse: «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni 4,21-23).

In spirito e verità. Che significa: in una relazione d’amore con Dio Padre-e-Madre. Perché è proprio questa relazione che lui è venuto a farci riscoprire.

 

Cos’è successo allora? Perché continuiamo a insegnare ai bambini, e agli adulti, che sono più importanti le regole che lo spirito?

Perché fare un elenco di regole è relativamente facile e, in più, permette di esercitare più facilmente un controllo sui comportamenti, nostri e altrui. Con il rischio, però, di confondere il peccato con la trasgressione di regole o di norme. Nella Bibbia la parola originale greca che noi traduciamo con ‘peccato’ è amartìa: che significa mancare l’obiettivo. Essere nel peccato, dunque, significa essere come una freccia che non coglie l’obiettivo ma va fuori traiettoria, fuori strada.

 

Quale strada? La strada dello spirito. Che è strada di vita, perché strada di consapevolezza e di responsabilità. La strada della libertà.

 

Dostoevskij, ne I fratelli Karamazov fa incontrare il Grande Inquisitore con un prigioniero molto particolare: Gesù di Nazareth! Nel loro dialogo - che poi è un monologo, dato che Gesù non dice una parola - il giudice sostiene che tutta l’opera dell’inquisizione renderà finalmente gli uomini “schiavi e felici”: felici perché schiavi, privati, cioè, di quella libertà che è così pesante da sostenere e così pericolosa da gestire. «Con noi saranno tutti felici e non si ribelleranno più né si stermineranno a vicenda, come facevano ovunque con la tua libertà - dice nel suo lungo discorso al prigioniero -. Anziché impossessarti della libertà degli uomini, tu l’hai accresciuta ancora di più (…) Non v’è nulla di più allettante per l’uomo della libertà di coscienza, ma nulla è altrettanto tormentoso (…) E noi abbiamo corretto la tua opera, fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati di nuovo come un gregge e di vedere il loro cuore finalmente liberato da un dono tanto terribile che aveva arrecato loro tanti tormenti».

 

Sentito? Un dono ‘tanto terribile’ la libertà. Ma è il dono più grande che Dio ha fatto all’umanità! Perché è libertà del pensiero, libertà della coscienza.

In fondo è più facile parlare di regole e di peccati, ci dicevamo. Come pure lasciarci prendere dall’attenzione agli aspetti istituzionali e dalle preoccupazioni per la struttura organizzativa di una religione. Ma è proprio quest’atteggiamento che aveva imprigionato i sacerdoti del tempio, gli studiosi della Bibbia e i farisei con cui aveva a che fare Gesù. Lui era Parola viva. Loro sostenevano la legge, fatta di mille regole e mille tradizioni. Una legge che non dava respiro.

Ma è proprio per questo - lo sappiamo bene - che, appena hanno potuto, l’hanno fatto fuori.

(1. continua)