VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

4 lug 2010

Padri e figli

Una sera stavo facendo due passi. Le mie gambe, anchilosate da una giornata intensa di lavoro, passata, seduto, ad ascoltare e condividere con alcune persone un po’ di quel dolore che la vita spesso ci propone nel nostro cammino, le mie gambe, dicevo, avevano proprio bisogno di ritrovare un po’ di movimento.

A un certo punto un manifesto richiama la mia attenzione. Forse perché il colore lo distingue dagli altri, compagni che, solitamente tristi, annunciano la morte di qualcuno. Vi era scritto:

 

A mio figlio.

Queste poche righe per ringraziarti dei giorni trascorsi insieme che mi hanno permesso di conoscerti adulto, uomo, con i tuoi progetti, i tuoi desideri e per scusarmi per non averti mai detto “ti voglio bene”. Sono orgoglioso di averti conosciuto e avuto come figlio. Mi dicevi: “Babbo, piangerai tre giorni poi mi dimenticherai”. Figlio mio, finché avrò vita, resterai e vivrai sempre nel mio cuore e quando un giorno ci rivedremo, permettimi di abbracciarti. Tuo padre.

 

Penso sia difficile immaginare un dolore più grande di quello che inonda il cuore di un genitore alla perdita di un figlio. Per questo il mio pensiero, l’altra sera come oggi, va subito a quest’uomo che ha provato a dirci della sua sofferenza. Mi piacerebbe poter dire a lui, e alla sua famiglia, la vicinanza, non solo mia, ma di tutti noi che abbiamo ascoltato le sue parole.

Il suo dialogo con il figlio sicuramente continuerà. Chi può interromperlo?

Altrettanto sicuramente questo ragazzo, oggi, sa perdonare suo padre che non è stato capace di dirgli, finché vivevano insieme, ti voglio bene. Oggi lui sa guardare la vita con altri occhi, da un altro punto di osservazione. Dove lo sguardo oltrepassa i limiti e i confini dello sguardo umano.

 

Mi piacerebbe, però, che il coraggio di quest’uomo, capace oggi di chiedere scusa al figlio per non avergli mai detto ti voglio bene, possa diventare per noi una lezione di vita.

 

Mi domando quanti sono i padri che sanno dire ai loro figli ti voglio bene. Che lo sanno dire oggi, quando i figli sono vivi. Affaticati a volte, o contrariati dalle difficoltà del quotidiano. Disorientati, nella ricerca della propria strada. Contestatori spesso, difficili da trattare. Bisognosi, comunque, di sentirsi ascoltati e sostenuti nel loro cammino.

E’ vero, certe volte te le fanno proprio scappare. E tutto vorresti dirgli meno che ti voglio bene.

 

‘Ma certo che voglio bene a mio figlio!’ mi direte adesso. Sì, lo so. Ma avete mai pensato, cari uomini, che i figli hanno bisogno di sentirselo dire? Almeno qualche volta. E non solo quando sono bambini. Anche a quindici anni, a venti e oltre ancora. A tutte le età.

 

Quanto siamo congelati, noi maschietti, nell’esprimere i nostri sentimenti! Con i figli. Con la moglie. Con i genitori. Come se i sentimenti fossero ‘roba da donnette’. Noi dobbiamo lavorare, portare a casa i soldi. Coltivare i nostri hobby. Magari uscire con gli amici.

Congelati nei sentimenti. E nell’organizzazione concreta del quotidiano?

Proviamo a chiederci quanto tempo passiamo con loro. Ma c’è la madre che ci pensa! Sì, la mamma. Lei, certo, c’è. Ma, domanda: li avrà messi al mondo da sola questi figli? Forse sì. Il padre, chi sa, era giusto di passaggio.

Vai a scuola: chi va a parlare con gli insegnanti? La mamma. Il figlio sta male. Chi rimane in casa? La mamma. Chi lo porta dal medico? La mamma. C’è da andarlo a portare in piscina, o a scuola di musica, o a judo. Chi ci pensa? La mamma. Qualche volta il padre, quando la moglie glielo ricorda.

Figli, orfani di padre vivente. Questo nostro mondo sembra pieno di orfani di padre vivente.

 

Avete mai pensato cosa succede quando i genitori si separano? I figli, di solito, sono affidati alla mamma. Anche se oggi si fa l’affidamento condiviso, sono comunque collocati presso la madre. E i padri? I padri allora si sentono trascurati, offesi, trattati ingiustamente. Perché noi, padri, vogliamo stare con i nostri figli. Così diciamo. Abbiamo creato perfino associazioni per difendere ‘i nostri diritti’. Ma anche qui, di nuovo, non rischiamo di chiudere la stalla quando non ci sono più i buoi?

 

Cari uomini, stimolati e un po’ provocati dal dolore di uno di noi che sta attraversando una prova così difficile come la morte di un figlio, abbiamo provato a condividere qualche riflessione. L’abbiamo fatto anche sorridendo un po’, tra noi, di certi nostri limiti.

E’ vero, molto probabilmente non ce l’ha insegnato nessuno a dire ai nostri figli “ti voglio bene”. Forse nostro padre non ce l’ha mai detto. Magari perché neanche lui se l’era mai sentito dire dal padre suo. Oggi, però, siamo nel 2000 e non possiamo continuare a vivere in famiglia secondo i modelli di cento anni fa.

Se ascoltiamo il nostro cuore, lì di sicuro ci troviamo l’affetto e l’amore per i nostri figli. Come per le nostre compagne di vita. Proviamo a dirci che non è una vergogna (!) esprimere i sentimenti. Dare loro la parola. Poterli dire.

Se proprio non ci riusciamo, facciamoci aiutare da chi ci sta vicino. Loro sono più brave, perché sono più libere di ascoltarsi e di ascoltare, e sanno far vivere gli affetti e i sentimenti.

 

Oggi ci salutiamo con un compito. Per le vacanze. Quando vedete vostro figlio provate a dirgli “ti voglio bene”. Glielo dite solo dentro di voi, senza parole. Così, una delle prossime volte che lo incontrate, ’sta sera o fra qualche giorno, chi sa, vedrete che riuscirete anche a dirglielo veramente!

Lui sarà sorpreso, magari si commuoverà pure e vi getterà le braccia al collo. E vi commuoverete insieme.