VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

18 lug 2010

I due figli della speranza

La settimana scorsa c’eravamo lasciati con un pensiero. Forte e impegnativo. L’avevamo preso da S. Agostino. Un filosofo e vescovo vissuto circa 1.600 anni fa: muore nel 430. Ci diceva: la speranza ha due figli: l’indignazione e il coraggio.

 

Oggi lo riprendiamo. Perché quelle parole, secondo me, sono una spinta a fare un passo avanti. A risvegliare ed alimentare la speranza.

 

Molte volte, nel mio lavoro, incontro persone che sentono di essere arrivate al fondo. Esperienze dolorose, situazioni pesanti, personali o famigliari, le stanno mettendo a dura prova. E nonostante sentano di avercela messa tutta, nulla sembra cambiare. Nonostante tanta fatica, tutto appare fermo. E il pensiero che emerge, pian piano, è che non c’è più nulla da fare. Ormai le cose vanno così. Sempre peggio.

Sul piano personale, quindi. Ma anche quando allarghiamo il nostro campo visivo e guardiamo la vita sociale, tanto spesso ci diciamo che ‘tanto le cose non cambiano’. Nel mondo del lavoro, nei servizi (sanità, scuola, servizi sociali), nella politica, perfino nella chiesa. E ci fermiamo. Come se davvero non ci fosse più niente da fare.

E la speranza che le cose possano migliorare si affievolisce sempre più.

‘La speranza è l’ultima a morire’ ci diciamo. Ma perché la speranza non muoia, dobbiamo trovare la strada per tenerla in vita. E a me sembra proprio interessante la strada che prova ad indicarci questo grande pensatore cristiano. Lui ci invita ad incontrare i suoi ‘figli’. I figli della speranza, ci dice, sono due: l’indignazione e il coraggio.

 

Perché l’indignazione?

 

Perché questa è la forza che ci fa cogliere ciò che non va e ci tiene svegli. Il rischio più grosso che possiamo correre, infatti, è proprio quello di abituarci al male. A ciò che ostacola la vita.

 

Non capita anche a voi di fare l’abitudine a qualche dolore che esprime il nostro corpo? Una spalla, un dito, lo stomaco… ci mandano segnali di allarme (questa sembra essere una delle funzioni del dolore fisico) e noi li trascuriamo: ci facciamo l’abitudine. Poi, però, questi cronicizzano e noi rischiamo di non riuscire più a farli guarire.

In famiglia. A tavola c’è sempre la TV accesa. Se il nostro bambino ci racconta ciò che ha fatto a scuola, lo facciamo star zitto perché… c’è il telegiornale. Se vuole giocare con noi, non abbiamo tempo. Poi arriviamo che ha quindici anni, e ci lamentiamo perché ‘non ci dice mai niente’. Ci siamo abituati a non parlare.

Andiamo in un ufficio, a una visita medica, ai colloqui a scuola, e ci sentiamo trattati come un numero. Ci stiamo male. Ma ci convinciamo che non possiamo farci niente. ‘Tanto si sa che le cose vanno così’ ci diciamo. E ci abituiamo anche a questo.

Guardiamo il mondo della politica. Scandali, interessi privati che prevalgono di gran lunga sull’impegno a lavorare per il bene comune. E noi ‘tanto sono tutti uguali’ diciamo… e ci facciamo l’abitudine. Al punto tale che molti di noi non vanno più neanche a votare.

Perfino nella chiesa, dicevo. Un esempio. Parliamo molto dell’impegno dei laici. Ma ci sono laici che vogliono davvero impegnarsi per portare quelle spinte al rinnovamento (= ‘conversione’) che il vangelo continuamente ci richiama? Ci sono sacerdoti disposti ad ascoltare chi porta una spinta a oltrepassare il ‘si è fatto sempre così: adesso cos’è questa mania di cambiare’?

 

Ecco dove l’indignazione, figlia della giustizia, ci viene in aiuto. Mi chiedo se anche tra noi cristiani - che, secondo il Vangelo, siamo ‘il sale della terra’ e ‘la luce del mondo’ (cfr. Matteo 5,13.14) - non possa ritrovarsi una sorta di passività indotta. Come se indignarsi significasse non vivere nell’amore fraterno. Guardiamo Gesù di Nazareth: non mi pare che in lui manchi la forza dell’indignazione. Con i farisei, di fronte ai sacerdoti, con i mercanti nel tempio, con chi pretende di imporre norme facendole passare per ‘leggi di Dio’, con chi fa del male ai bambini…

 

E dopo l’indignazione, il coraggio.

 

Se sappiamo indignarci, sappiamo mettere in campo anche il coraggio. Il coraggio di lavorare per cambiare ciò che non va. Perché l’equità e la giustizia ritornino a guidare le relazioni tra gli uomini e tra i paesi. Perché il rispetto dovuto ad ogni vivente ci porti a dare attenzione a chi ha meno di noi (pensiamo agli immigrati, per esempio, ai disabili, a chi perde il lavoro, agli anziani, a chi è solo…). Perché davvero l’attenzione ai bambini ci insegni a rispettarli nei loro bisogni reali, a trovare il coraggio di ‘perdere tempo’ con loro.

 

E’ vero, il coraggio richiede impegno. A volte fatica. Ma “Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Luca 9,62) ci dice Gesù. E noi, dal momento in cui abitiamo questo mondo, abbiamo messo mano all’aratro della vita. Di quella personale e di quella della nostra famiglia. Ma anche della vita sociale e politica. Così come, quanti ci riconosciamo nell’essere cristiani, abbiamo messo mano all’aratro della vita della chiesa (= la comunità dei cristiani).

 

Nessuno di noi da solo ce la può fare. Ma se vogliamo davvero che la giustizia abiti tra noi, nessuno, credo, può sentirsi esonerato dal continuare a lavorare la sua-e-nostra terra.