VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

19 dic 2010

Fra le sue braccia (2)

Le riflessioni di Claudio, la settimana scorsa, ci avevano portati a ragionare insieme sulla presenza di tante religioni nel mondo e su come ciascuna di queste cerchi di fornirci delle risposte a quelle domande di fondo che accompagnano la nostra vita. Ci dicevamo anche come ogni religione trovi la sua origine all’interno di una cultura e nello stesso tempo ne diventi l’espressione e il fondamento.

Riflettendo, poi, su come ogni religione ha il suo modo di presentarci l’immagine di Dio, eravamo giunti a farci una domanda. Una domanda impegnativa, in verità, ma una domanda sicuramente necessaria. Per non perderci. Ci chiedevamo cosa significa ‘credere in Dio’.

Perché non sempre aderire ad una religione significa davvero credere in Dio. Pensate quante volte è successo nella storia - e succede, purtroppo, anche ai giorni nostri - che gli uomini hanno usato la religione per prevalere gli uni sugli altri o, addirittura, per combattersi gli uni contro gli altri.

 

Allora: cosa significa credere in Dio?

Qui riprendiamo quella parola che abbiamo lasciato la settimana scorsa: la parola FEDE.

Questa parola nasce nel latino fides (= fiducia). Guardiamo quante parole hanno origine da questa: fedeltà, fiducia, fidarsi, affidarsi, confidarsi. Perfino diffidare. Tutte ci parlano di un rapporto, di una relazione. Perché credere in Dio significa ‘semplicemente’ fidarsi di lui, affidarsi a lui, confidare in lui. In una sola parola essere in relazione con Lui.

 

Noi cristiani sappiamo bene che questo, in realtà, è l’insegnamento di Gesù. Gesù di Nazareth era un ebreo. Ed essendo nato in Palestina, è cresciuto all’interno di quella cultura e di quella tradizione religiosa. E ne ha rispettato la storia e gli insegnamenti.

Gesù non ha fondato una ‘religione’. Lui ci ha parlato del Regno di Dio. La sua opera e il suo insegnamento sono stati un richiamo continuo alla ‘conversione’ per passare da una pratica religiosa o, forse meglio, attraverso una pratica religiosa, ad una relazione personale con Dio.

Questo significava per lui ‘credere in Dio’: essere in relazione con Lui. In una relazione di fiducia. Perché fidarci di Dio? Perché “il Padre vostro sa di cosa avete bisogno ancor prima che voi glielo chiediate” lui ci diceva (Matteo 6,8).

 

Ma chi è questo Dio e come si chiama? Ci chiedevamo la settimana scorsa. Se guardiamo attentamente, ci accorgiamo che Gesù non ci ha detto mai qual è il nome di Dio. Forse semplicemente perché lui sapeva bene che Dio non ha un nome: il suo ‘nome’ è Vita. Anzi, Vita-in-relazione. Gesù, infatti, ne ha sempre parlato usando la parola Padre. E ci ha anche detto di chiamarlo così quando ci vogliamo parlare: “Padre nostro…”.

 

Noi, però, sappiamo bene che ‘essere in relazione’ non significa sempre vivere una relazione ‘buona’. Noi siamo sempre in relazione, ma a volte il nostro rapporto con gli altri è difficile, pesante, perfino conflittuale. A volte anche incostante o instabile. Passiamo dall’intensità di una relazione amorosa ad un rapporto indifferente, o astioso, o perfino di odio. Riflettevamo due settimane fa su come anche all’interno delle nostre case non è infrequente vivere relazioni difficili, conflittuali, perfino di violenza. Tra coniugi. Tra genitori e figli.

 

Gesù di Nazareth conosceva bene l’animo umano. Egli sapeva che non era sufficiente per noi parlarci di Dio come di un Padre. La nostra esperienza di figli, con nostro padre o nostra madre, non è sempre così dolce e piena di comprensione o di amore. Forse per questo, come se avesse il timore di non essere capito, o, chi sa, forse anche di non essere stato chiaro, insisteva nel dire “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: morire per i propri amici… Io non vi chiamo più servi, perché un servo non sa cosa fa il suo padrone. Vi ho chiamati amici…” (Giovanni 15,12).

 

Come se questo non fosse ancora sufficiente, uno dei suoi discepoli, Giovanni, nella sua prima lettera ai cristiani di allora cerca di dire ancora qualcosa su questo Padre di cui parlava Gesù. E l’unica definizione che riesce a darci è questa: “Dio è Amore” (1a Giovanni 4,8). Sembra non esserci altra parola. Tanti aggettivi usano le religioni quando parlano di Dio. Ma sono tutti insufficienti. Solo questa parola sembra contenerlo a pieno: AMORE.

Allora possiamo dirci che credere in Dio significa, sì, vivere in relazione con Lui, ma non basta. Credere in Dio significa vivere con Lui una relazione d’amore. Perché se Lui è Amore, non può che amarci. Al di là di ogni nostra qualità, o capacità, o merito. Semplicemente perché siamo i suoi figli.

 

Ora, per salutarci, voglio prima ringraziare Claudio perché con le sue domande ci ha permesso di condividere queste riflessioni. Poi vorrei dire un ultimo pensiero sulla religione. Io credo che possiamo dirci che compito della religione, di ogni religione, è portare gli uomini a riscoprirsi in questa relazione d’Amore con Dio, Padre-e-Madre, che si prende cura dei suoi figli. Ogni giorno, ogni momento della nostra vita.

Le usanze, le tradizioni, i riti… sono strumenti e come tali possono cambiare a seconda delle epoche e delle culture. Ciò che non può cambiare è l’obiettivo di una religione, il suo scopo.

Insegnava Gesù: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Marco 2,27). Una religione che dovesse imprigionare l’uomo dentro regole o tradizioni è povera, senza vita. Non è una ‘buona’ religione. Una religione è per l’uomo - quindi buona - quando ci aiuta a riscoprire che siamo fra le Sue braccia.

(2. fine)