VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

26 apr 2009

Vicini, nel silenzio

E’ passato il terremoto, dicevano i nostri vecchi. Proprio due settimane fa riflettevamo sulla parola Pasqua, che significa passaggio. Ma quest’anno è stato un ospite non gradito a passare, proprio nei giorni di pasqua. E’ passato il terremoto: un modo di dire che esprime l’idea che ‘qualcuno’, passando, viene a scuotere le nostre sicurezze.

Nelle nostre case è passato come un soffio di vento. Impetuoso. Nelle case dei nostri vicini, a sole due ore di strada, è passato come una furia, facendosi accompagnare dalla distruzione e dalla morte.

Sconforto. Paura. Terrore. Panico. Disperazione. I nostri cuori hanno ritrovato sentimenti che non vorrebbero mai trovare.

 

Il terremoto che passa fa crollare le nostre certezze. La casa che non ci protegge più e la natura che si rivela non governabile da noi umani: due segnali che ci mettono davanti tutta la nostra fragilità e ci fanno perdere i nostri punti di riferimento.

 

La casa. L’essere umano è un animale che appartiene alla terra, e come tutti gli altri animali trova sicurezza nel suo rifugio. Il nido, la tana sono il luogo dove gli animali si ritirano per far nascere i loro cuccioli, per difendersi dai predatori, per ripararsi dalle intemperie. Anche l’animale-uomo trova sicurezza nel suo rifugio. Ma quando a crollare è proprio il luogo della sicurezza, ci sentiamo scoperti, come in balia di forze dalle quali non possiamo difenderci. La casa che trema ci getta nel panico. La perdita del nido ci getta in mezzo alla strada. La perdita del luogo dove poterci rifugiare nel momento del pericolo ci fa sentire nudi, in balia di ogni possibile minaccia. Non possiamo più andare da nessuna parte per trovare rifugio e conforto. Sia in senso fisico (reale) che in senso morale (affettivo).

 

La natura. La grande evoluzione della tecnologia e della scienza, che caratterizza il nostro tempo, ci porta sovente a guardarci come i ‘padroni’ della natura. In grado di controllarla. E la pensiamo sempre più come una natura addomesticata. I super computer che fanno calcoli che la nostra mente non riuscirebbe neanche ad immaginare; la capacità di entrare dentro l’infinitamente piccolo, superando il limite che i nostri padri avevano chiamato ‘atomo’ (= qualcosa che ‘non può essere sezionato’); l’ingegneria genetica che ci fa sognare figli ‘perfetti’, immuni da difetti o da malattie… Sono alcuni dei tanti aspetti che ci fanno dire che il sogno dell’onnipotenza umana sta per realizzarsi.

Di fronte a tutto ciò, la natura che ci parla - questa volta con la voce del terremoto, altre con la voce di un’alluvione, di una malattia… - ci mette davanti alla nostra piccolezza. E l’immagine di noi, uomini del duemila, oscilla: tra il sogno dell’onnipotenza e l’esperienza della fragilità e della piccolezza.

Possiamo provare ad ascoltare questa voce? Potrebbe giungerci come un richiamo ad attivare un nuovo atteggiamento con la natura: ritrovare la capacità di ascoltarla e di rispettarne le leggi. Invece di ostinarci, con la nostra presunzione, nel volerla piegare ai nostri interessi.

Noi siamo parte di questa natura. Come possiamo pensare di poterla ‘piegare’ secondo i calcoli delle nostre piccole menti? Se riuscissimo a comprendere che la tecnologia e la scienza, strumenti preziosi dell’ingegno umano, devono servirci a conoscere meglio le leggi che regolano il funzionamento dell’universo e la vita degli uomini sulla terra…

*

Ma ora, in un momento così particolare come quello che stiamo vivendo questi giorni, vorrei guardare con voi ad un altro aspetto. Un pensiero su come comportarci con quelle persone che si sono trovate in mezzo a questa terribile esperienza e con coloro che, pur stando qui - quindi non toccate direttamente dal terremoto - vivono tuttavia momenti di terrore o di panico. Che fare con loro? Cosa dire?

 

Molte volte, quando una persona cara si trova in un momento difficile, noi ci mettiamo a parlare, a dire parole e pensieri. A volte chiari, altre confusi. E non ci accorgiamo che al cuore di chi sta male non arrivano né le nostre parole né i nostri pensieri.

Ciò che può arrivare è la nostra vicinanza. Il tempo che sappiamo condividere. Il silenzio, che è capacità di ascolto, con cui sappiamo essere vicini.

Quando il dolore invade la nostra anima, non abbiamo bisogno di sentire parole. Abbiamo bisogno di trovare qualcuno che sappia accogliere le nostre parole e i nostri pensieri. Senza invadere lo spazio del cuore, già pieno del nostro dolore. Senza giudicare. Senza che ci venga a dire cosa dobbiamo fare. Quando stiamo male abbiamo bisogno di lamentarci. Di piangere. Di imprecare, a volte. Abbiamo bisogno di trovare qualcuno che sappia ascoltare il nostro dolore. Senza scappare. Senza chiuderci la bocca e soffocare le nostre parole con le sue. E’ il nostro dolore che ha bisogno di uscire, di trovare qualcuno che lo possa condividere. Che gli riconosca il diritto di esistere, la dignità di un sentimento nobile e vero.

 

In un libro di alta psicologia - quando ancora la psicologia non si sapeva neanche cosa fosse, ma, sembra, si sapeva molto bene cosa fosse e come fosse l’uomo - si racconta: “Tre amici di Giobbe vennero a sapere della sua grande disgrazia. Partirono allora per andare insieme da Giobbe a fargli le condoglianze e a dargli conforto. Scorsero Giobbe da lontano, ma non lo riconobbero. Quando gli furono vicini e videro la sua grande sofferenza, si misero a piangere… Poi si sedettero a terra, con lui, per sette giorni e sette notti, senza dirgli una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore” (cfr. Giobbe 2,11).

Gli amici. Sette giorni e sette notti stanno con lui, senza dire una parola. Vicini. Nel silenzio. Siamo, più o meno, duemilacinquecento anni fa… Non lasciamoci scappare tanta saggezza.

Vicini, nel silenzio.