VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

22 mar 2009

Tibet. Il silenzio del mondo

Marzo 1959. E’ difficile dimenticare questa data. Meglio: sarebbe bello che fosse difficile dimenticarla. Perché, invece, il mondo sembra proprio averla cancellata, non solo dai libri di storia, ma anche dai suoi pensieri. Parlo del mondo della politica come del mondo delle religioni: in una parola, del mondo degli uomini.

A cosa mi riferisco? Alla tragedia consumata, esattamente cinquant’anni fa, in una sperduta parte del nostro pianeta: l’esercito della Repubblica Popolare Cinese stronca nel sangue il tentativo del popolo tibetano di ritrovare la libertà per il suo paese invaso dall’esercito rosso.

Pochi giorni fa il Dalai Lama ce l’ha ricordato. Lui, la guida spirituale del Tibet, da allora costretto all’esilio, in India, insieme a tanta parte del suo popolo. I giornali ci hanno riportato l’eco delle sue parole: il governo cinese sta riducendo il Tibet ad un inferno sulla terra.

 

Cosa c’entra il Tibet in una rubrica di psicologia?

Ce lo spiega Etty Hillesum, una giovane donna, ebrea, morta ad Auschwitz nel 1943, a ventinove anni. Un anno prima di morire scrive: “La ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione e non potrà mai dare buoni frutti”.

 

Ognuno di noi ha imparato che la vita, più o meno frequentemente, ci fa incontrare situazioni di sofferenza. Una malattia, la perdita di una persona cara, una situazione lavorativa difficile o addirittura la perdita di un lavoro - come, purtroppo, capita in questo periodo -, un’ingiustizia che ci viene fatta, un torto o un’offesa… sono tante le occasioni in cui il disagio o la sofferenza ci chiedono di ribellarci, di far sentire la nostra voce, di dover chiedere il perché di quanto ci succede. Ma il grosso rischio che corriamo è proprio quello di dare voce e forza alla nostra ribellione solo quando la sofferenza ci tocca personalmente. Abita nella nostra mente quella forza che riconosce dignità alla nostra ribellione quando sono altri a subire una violenza o un’ingiustizia? Sentiamo di poter mettere in campo la medesima forza per gridare contro l’ingiustizia che altri devono subire?

 

Se proviamo a guardare a quanto sta succedendo da cinquant’anni in questa lontana regione del mondo e a come il mondo stesso reagisce, credo proprio che dovremmo riconoscere la miopia del nostro sguardo e riconoscere che i nostri occhi hanno perso la capacità di guardare oltre un palmo dal nostro naso.

 

Queste riflessioni ci toccano, certo, nella nostra dimensione personale. E con questa ognuno di noi potrà farci i suoi conti. Se vuole. Se trova in sé la forza di rimettere in discussione la scala dei suoi valori. Ma queste riflessioni, credo, dovremmo farle, anche considerando la nostra dimensione sociale. Come comunità civile e come comunità di credenti. Parlavo sopra del silenzio della politica e del silenzio delle religioni di fronte alla tragedia del popolo tibetano.

 

Il silenzio della politica. Tutti i governi sono in allarme per la questione israelo-palestinese. E giustamente! L’Iraq e l’Iran li nominiamo con il fiato sospeso. Il terrorismo ci toglie il sonno. La crisi economica ci getta nel panico. E il Tibet? Questo popolo silenzioso che ha saputo coltivare una spiritualità così profonda e non-violenta, portatrice di pace e di valori così lontani dal consumismo che ci soffoca, chi lo vede? Il governo italiano, l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Russia?

Ragioni diverse, credo, sottostanno a questa indifferenza della politica. Una prima ragione: in Tibet non ci sono né petrolio né diamanti né miniere d’oro… La sua ricchezza è la spiritualità. Cos’è la spiritualità? Non ci dà da mangiare né viene quotata in borsa… La spiritualità non è un valore per il mondo della politica. Una seconda ragione, forse ancora più forte: abbiamo paura e siamo pavidi di fronte ai ricatti della Cina, la nuova potenza economica, il nuovo mercato sul quale ‘bisogna’ investire per ricavarne utili e guadagni per casa nostra.

 

Il silenzio delle religioni. Questo è un mondo sensibile alla dimensione spirituale. Sensibile alle ingiustizie tra gli uomini e al rispetto della dignità umana. Eppure anche questo mondo tace. Il Cristianesimo e l’Islam, le due più grandi religioni del mondo (grandi, per il numero degli aderenti) sembrano ignorare la tragedia del popolo tibetano. Perfino in casa nostra, nel mondo cattolico, così attenti come siamo alle necessità dei più poveri, secondo l’insegnamento del Maestro, sembra regnare il silenzio. Certo, dobbiamo tenere presenti tante variabili. Ci sono anche qui questioni aperte con il governo cinese. La prudenza della diplomazia dice di non parlare troppo.

Ma è proprio questo l’insegnamento del Maestro? Mi torna in mente il Vangelo che abbiamo letto domenica scorsa. Non vorrei sentirmi sulla schiena la “frusta di cordicelle” con cui ha scacciato dal tempio la “gente che vendeva buoi, pecore e colombe…”. Con il rimprovero per aver fatto della Casa del Padre una casa della diplomazia, piuttosto che il luogo della preghiera e della cura dei più deboli e degli oppressi del mondo.

 

Il popolo tibetano non ce la può fare da solo a sopravvivere. Ha bisogno della nostra attenzione e della voce di tutto il mondo.