VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

13 dic 2009

La croce... vuota

La lettera di Enzo che abbiamo letto la settimana scorsa, nata dalla sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo sulla presenza del crocefisso nelle scuole, ci ha dato occasione di riflettere sul rischio che noi cristiani possiamo correre: quello di sentirci i ‘proprietari’ del crocefisso e, di conseguenza, quello di proporre (o addirittura di imporre) questa immagine come il simbolo della nostra religione.

 

Alcune persone mi hanno detto che i pensieri espressi in quelle righe non sono così facili da accettare. Hanno ragione. Io non vi chiedo di essere d’accordo con me: vi chiedo semplicemente di ascoltare quelle riflessioni e di pensarci. Pensarci. Sia prima di accoglierle, condividendole, sia prima di respingerle perché non le ritenete condivisibili.

Il dialogo è strumento di pace. Perché ci sia dialogo è indispensabile che ciascuno di noi sappia, prima di tutto, ascoltare il pensiero dell’altro. Anche il pensiero di chi la pensa diversamente da noi.

Il mio timore è che il peso della tradizione, che è una grande ricchezza culturale, può farci correre il rischio di chiudere i nostri pensieri e la nostra capacità di porci delle domande. Così come ci fa correre il rischio di congelare la nostra capacità di ascoltare le domande che ci vengono poste da chi è cresciuto all’interno di storie e culture diverse.

Dire questo non significa dire che gli altri hanno ragione e noi torto. Significa semplicemente dire che l’apertura al dialogo ci chiede di provare a comprendere il senso delle domande che ci vengono poste.

 

Per arricchire ancora le nostre riflessioni, oggi vorrei proporvi due pensieri. Due pensieri che proviamo a dirci proprio in quanto cristiani. Ce lo possiamo permettere, dato che i nostri incontri settimanali si svolgono su questo nostro giornale.

 

Il primo.

Gesù di Nazareth, l’uomo rappresentato nel crocefisso, è venuto nel mondo per tutti. Non solo per i cristiani. Noi lo sappiamo bene. Il mio timore è che ce ne dimentichiamo troppo facilmente. E nel momento in cui ce ne dimentichiamo, ne facciamo un Dio-di-parte.

In un certo senso rovesciamo le cose. Invece che lasciarci guidare dal pensiero che noi apparteniamo a Lui (“egli ci ha fatti e noi siamo suoi” è scritto nel Salmo 99,3) - noi tutti però, perché tutti siamo figli suoi, non solo i cristiani -, pensiamo e ci comportiamo come se fosse Lui ad appartenere a noi. Come se noi ne avessimo l’esclusiva, il monopolio.

Così facendo, però, dimostriamo di aver dimenticato la rivoluzione che Gesù ha portato tra gli uomini del suo tempo: il popolo ebraico, compresi coloro che ne erano le guide (i sacerdoti, gli scribi, gli anziani…), si era chiuso in sé stesso, pretendendo di tenere dentro i propri confini perfino Dio, il ‘Creatore del cielo e della terra’. Gesù ha insegnato che Dio è il Padre di tutti, non solo dei ‘figli di Abramo’.

Io temo fortemente che in certe prese di posizione, quando rivendichiamo certi nostri diritti - che facilmente diventano privilegi - anche noi cristiani corriamo il rischio di chiuderci dentro la nostra torre d’avorio che chiamiamo cultura o tradizione.

 

Il secondo pensiero.

Noi diciamo che il crocefisso è il simbolo del cristianesimo. Ne siamo poi così sicuri? Certo, l’uomo del crocefisso è Gesù di Nazareth, colui che noi riconosciamo come il Cristo, cioè come il Figlio-di-Dio, il Dio-con-noi. Ma non è il CROCEFISSO l’oggetto della nostra fede, la sorgente della nostra speranza e la fonte del nostro amore, ma il RISORTO.

Questo, lo sapete bene, non sono io a dirlo! E’ la parola della Bibbia. L’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto scrive: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede…” (1 Cor 15,17). E nella lettera ai Romani, a un certo punto sente come la necessità di correggersi quando dice della morte di Gesù, come a volerci ricordare che parlare della sua morte senza guardare la sua resurrezione sarebbe un grosso limite. Scrive: “Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato…” (Rm 8,34).

Se ci pensiamo bene, magari una domanda ce la possiamo tenere: non sarebbe il caso di rappresentare un po’ di più il Cristo risorto piuttosto che il Cristo crocifisso quando vogliamo rappresentare con un’immagine la nostra religione (= cioè il nostro legame, la nostra unione con il Dio che ci ha fatto conoscere Gesù)?

 

E il Crocefisso, allora?

Chi sa, magari possiamo provare a riscoprire, e rappresentare, la CROCE. Vuota, però.

Perché vuota?

Prima di tutto perché Gesù di Nazareth non è più sulla croce. Lui è morto duemila anni fa, ma poi ha vinto la morte, risorgendo, e ora vive nella pienezza della vita. Questa è la nostra fede.

Poi, perché della croce vuota noi ne abbiamo bisogno. Perché quella croce fa parte della vita. Ce lo dicevamo la settimana scorsa, ricordate? Il fatto che anche Gesù ci sia dovuto passare, in fondo ci conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che essa è parte integrante della strada che tutti, proprio in quanto uomini, stiamo percorrendo.

Lui è lì, per stare in nostra compagnia, proprio in quei momenti in cui siamo noi a salire su quella croce vuota. E’ lì per dirci che siamo in buona compagnia: la sua.