25 ott 2009
Pianeta famiglia
Genitori, da uno a due (2)
Riprendiamo le riflessioni che ci ha portato Marta, la mamma di una bambina di quattro mesi, nella lettera che abbiamo letto, insieme, la settimana scorsa.
Ci diceva di come si sentisse affaticata nelle sue giornate. E ci spiegava che tale fatica non derivava tanto dall’impegno che l’accudimento della bimba le richiedeva quotidianamente, quanto invece dalla mancanza di un supporto morale, di un dialogo col mio compagno, dal non ricevere ascolto e sostegno mentale dopo giornate piene di impegni ed evoluzioni. Ricordate? Erano queste le sue parole.
Riflettendo sui suoi pensieri, ci dicevamo come il fatto che una donna senta il disagio della solitudine nel crescere un figlio, quando il suo compagno (e padre del bambino) si rende assente o poco presente, è un disagio legittimo. Un disagio sano. Un disagio che… è una fortuna che ci sia! Una mamma che sa sentire questo disagio significa che sa ascoltare il suo cuore (= il suo mondo interno), e sa ascoltare il cuore di suo figlio.
Perché un figlio, a qualsiasi età - ripeto: a qualsiasi età - ha bisogno anche di suo padre. E una donna, per essere una madre sufficientemente buona, ha bisogno della presenza del suo compagno. Non può farcela da sola, non può chiedere a sé stessa di essere madre-e-padre.
(Parliamo qui, naturalmente di quelle situazioni dove il padre esiste. Situazioni estreme, dove una malattia o una disgrazia hanno portato la perdita di un genitore, vanno guardate con altra attenzione. Ci torneremo, magari, in qualche altra occasione, se qualcuno di voi desidera che ci entriamo.)
C’eravamo lasciati dicendoci che ora molto dipenderà da come questa giovane donna - e tutte le mamme, più o meno giovani - vorrà ‘giocarsi’ questo suo disagio. Perché due sono le strade che il suo disagio potrà prendere. Esso potrà diventare critica, lamentela, tristezza, senso solitudine, perfino depressione. Oppure potrà essere messo in campo come una grande risorsa per portare nella sua famiglia quei cambiamenti che sono necessari per superare vecchi modelli di genitori che facevano crescere figli orfani di padre… vivente.
E’ per questo che la settimana scorsa mi sono permesso di dire che forse anche lei sbaglia. Perché, vedete, l’errore più comune che un uomo può fare nel rapporto con i figli è quello di delegare tutto a sua moglie, madre dei suoi figli. E di tenersi fuori. Ma lo sbaglio che una donna tende a fare è quello di prendersi totalmente il compito di crescere i figli, lasciando fuori dal campo il marito e padre. E’ proprio questo lo sbaglio che ora Marta - e tutte le donne come lei - rischia di fare: quello di non richiedere la presenza del suo compagno quando questi la sera torna a casa dal lavoro.
Proviamo a fare insieme una riflessione. Partendo da un’osservazione terra terra, ma non per questo poco significativa. Vede, Marta, Lucia è vostra figlia e non soltanto sua figlia. E dato che lei sente il disagio di ritrovarsi sola nel prendersi cura della bambina, è fondamentale che questo disagio lo condivida con lui. Lui ha bisogno di sentirsi ricordare che ha una figlia e che questa, la sera quando torna a casa, ha bisogno di lui, della sua presenza e del suo tempo. Non si lasci ‘commuovere’ o convincere dalla sua (= di lui) stanchezza: certo che è stanco. Ma perché, lei non è stanca? La sua stanchezza vale meno di quella di lui?
Questo richiamo non è un rimprovero o una critica ad un atteggiamento tanto diffuso tra gli uomini, anche tra i giovani uomini. Tutti noi maschi abbiamo introiettato (= messo dentro la nostra mente e il nostro cuore) un modello di padre che ha come compito primario quello di portare a casa i soldi per far vivere la sua famiglia. A volte lo viviamo in maniera così esasperata che ci mettiamo perfino a fare due lavori, pur di guadagnare di più. Restando, così, ancora di più fuori casa. Perché, parallelamente, abbiamo imparato che stare con i figli è qualcosa di meno importante: tanto c’è la mamma che ci pensa. E quando dobbiamo intervenire direttamente sarà lei a dircelo e a chiedercelo… Cari uomini, maschi, non è così per la maggior parte di noi? Lo abbiamo imparato, ci dicevamo, nella nostra famiglia d’origine, da come nostro padre si è comportato con noi.
Parallelamente una donna ha imparato che il suo primo compito in famiglia è quello di prendersi cura dei figli. E il marito, quando c’è, è un aiutante, un assistente. Che deve fare quello che gli dice la sua compagna. Al punto che… guai se non lo fa come gli dice lei!
“Sì, ma lei ha l’istinto materno!” mi direte. E chi l’ha detto? Allora dovremmo dire anche che lui ha l’istinto paterno: o lui non appartiene alla specie-uomo, ma ad un’altra specie? La psicologia moderna ci insegna che dobbiamo parlare meno di istinto quando parliamo degli esseri umani, e parlare di più di capacità e di apprendimento, che serve a potenziarle. Perché diventare madre o padre è un processo di apprendimento: è qualcosa, cioè, che impariamo.
E questo apprendimento lo facciamo in due: uomo e donna, donna e uomo. Ciascuno può insegnare qualcosa all’altro e dall’altro imparare.
E’ per tutto questo che scrivevo la settimana scorsa che il disagio di Marta è una grande risorsa. Se lo mette sul tavolo della cucina e lo condivide con il suo compagno. Perché questo permetterà a tutti e due di diventare genitori. Lui imparerà ad entrare un po’ di più nella vita di sua figlia. Lei imparerà a lasciargli un po’ il campo e a guardare sé stessa come uno dei due genitori, perché accanto a lei, madre unica di Lucia, c’è il suo compagno, padre unico della medesima bambina.
Un figlio ha bisogno di due genitori. Di tutti e due. Fin dalla nascita. Un padre che sa prendere il suo posto accanto al figlio, e una madre che glielo lascia prendere, gli fanno il più bel regalo che la vita gli possa donare. Così davvero riusciremo a non far crescere più i figli ‘orfani di padre… vivente’!
P.S. Sarebbe bello ricevere la lettera di un padre… Noi l’aspettiamo.