VOCE DELLA VALLESINA Settimanale di informazione - Colloqui con lo psicologo - di Federico Cardinali

7 set 2025

Ancora sul celibato obbligatorio per i preti

Se consapevoli, anche liberi (2)

Nel primo articolo indicavamo un terzo ordine di ragioni che stanno a sostegno del celibato obbligatorio per i preti.[1] Notando, però, come questo rischi di sfuggire perfino ad un livello di consapevolezza appena sufficiente. Tanto subdolo è il meccanismo con cui agisce. Come certi stereotipi culturali che, in maniera subliminale, condizionano tante scelte, perfino la logica del pensiero. Si pensi al maschilismo. Che ancora guida atteggiamenti, scelte, pensieri, relazioni anche ai nostri giorni.

Questo terzo ordine di ragioni, dicevo, è di natura psico-gestionale. Mi spiego. Un primo aspetto è di carattere organizzativo. Gestionale, appunto. Tutti noi abbiamo conosciuto più d’un prete nella nostra parrocchia. Dopo una decina d’anni, infatti, un prete cambia parrocchia, quindi cambia abitazione. Che sia un single a doversi trasferire o un uomo con famiglia non è la stessa cosa. Ai carabinieri di grado inferiore non era consentito sposarsi prima d’una certa età: gli spostamenti si gestiscono molto meglio se non c’è coinvolta una famiglia. E questo aspetto funziona. Anche bene.

Ma accanto a gestionale ho messo la parola psico. È questo l’aspetto più complesso. Che tanto è significativo, quanto privo dell’attenzione che merita. Ignorato. Come non ci fosse. Proviamo a guardarlo.

Con chi, la sera, una persona condivide la sua giornata? Con la famiglia. E questo, non solo perché la vicinanza è buon cibo. Per tutti. Ma, più nel profondo, perché può sentire che non è sola. Nelle difficoltà e nella leggerezza. Non è sola. Con i suoi pensieri, le sue frustrazioni, le sue gioie. Il suo desiderio. Lampada sulle carte abbandonate, / e intorno notte fin addentro al legno / degli armadi.[2]  Una parola un abbraccio e la giornata è più bella. Più piena. E senti che un punto di rifornimento c’è. Per te. Per la tua anima. E per il tuo corpo. Sì, anche per il corpo. Perché il corpo c’è, e c’è, e c’è / e non trova riparo.[3]   L’uomo solo è più gestibile da parte dell’istituzione cui appartiene: ne è più dipendente. Mi disse un prete qualche anno fa: la chiesa s’è impadronita anche del cuore di noi preti. E mi spiegava che non solo il tempo, non solo le energie fisiche, ma anche gli affetti di un prete sono nelle mani... dell’istituzione.

 

Qui la voce di alcuni preti: parole scambiate sui social nella circostanza, triste, del suicidio di don Matteo. Di fronte a questa notizia qualcuno ha scritto: cerchiamo i sacerdoti per raccontar loro tutti i nostri malesseri. Ma qualcuno ascolta i loro malesseri? La loro solitudine? Le loro ferite? - Non bastano i dialoghi ufficiali: è molto importante, penso, l’empatia - Abbiamo bisogno anche della libertà interiore di comunicarlo apertamente per lasciarci soccorrere - Ci sono situazioni in cui non si ha la forza di chiedere e comunicare ma si sente solo il bisogno di vicinanza, di conforto, di sentirsi dire: coraggio, rialziamoci insieme, non sei solo - Continue preoccupazioni gestionali, solitudine affettiva e spirituale, difficoltà economiche a volte anche molto reali. In questo scenario, chi si prende cura della vita del prete? Dalla vita materiale a quella spirituale - Portano con sé carichi, spesso insostenibili, di sofferenze taciute e di solitudini inconfessate. Tanto più se vissuti nel segreto, in silenzio, dissimulati dietro al sorriso che tutti si aspettano, dietro alla puntualità e alla precisione che tutti pretendono, dietro alle parole ben costruite che tutti vogliono sentire - Forse, però, è anche arrivato il momento di assumersi delle responsabilità, e di farlo in maniera molto umile. Come comunità ecclesiale, certo, ma anche come istituzione ecclesiale.

 

Anche come istituzione ecclesiale scrive quest’ultimo. Ma l’istituzione chiesa non sembra affatto pronta a interrogarsi circa la possibilità/necessità di superare questo vincolo, al momento indissolubile, tra sacerdozio ministeriale e celibato. E questo ci porta ad una considerazione. Se il celibato dev’essere protetto da un pensiero rigido, incapace cioè di ascoltare domande che ne mettano in discussione l’obbligatorietà, significa che il pensiero che lo sostiene non è forte, cioè solido. Un pensiero forte sa accettare il dialogo e non ha paura di confrontarsi con pensieri diversi. Sa riconoscere anche quando è necessario cambiare. Se invece, per sostenere il celibato, l’istituzione, cioè la gerarchia, continua ad aggrapparsi ad un pensiero rigido, c’è da chiederci seriamente quanto creda davvero che il celibato sia un valore. Come se, una volta sciolto il vincolo dell’obbligatorietà, tutto possa andare in fumo.

 

Se così fosse, ci sarebbe molto da pensare. E coloro che ritengono di dover tenere solo nelle loro mani la facoltà di prendere decisioni senza neppure ascoltare la comunità – siamo nel terzo millennio! – una domanda seria dovrebbero farsela.

Un pensiero rigido parla di morte. Solo un pensiero forte alimenta la Vita.

 

 

[1] È una lunga storia, 20 luglio

[2] R.M. Rilke, Il celibe

[3] W. Szymborska, Torture

*

 

Per approfondire:  È una lunga storia (1) 2025  In fondo ci sono link ad altri articoli sull'argomento