6 lug 2025
Ancora sul fine-vita. Riflessioni, domande, interrogativi…
Quale vita? (2)
So bene, come sapete anche voi, che toccare il tema del fine vita significa guardare in faccia la vita. E la morte. E questo significa aprire un capitolo che solitamente lasciamo lì, perché ogni sua pagina ci mette davanti a domande che non amiamo ascoltare. In particolare oggi, direi. Ampiamente sostenuti, in questa fuga, dall’assedio dei social e delle nuove tecnologie. Alla cosiddetta intelligenza artificiale stiamo delegando perfino il compito di pensare. Sarà lei, ci diciamo, a darci risposte. Tutte le risposte. Non l’abbiamo costruita per questo? Ma c’è una domanda cui né l’attuale né quella che evolverà con le nuove generazioni sarà in grado di rispondere. È la domanda di senso. Quella che ci spinge a trovare un senso al nostro vivere. E al nostro morire.
È un bisogno questo tutto nostro: coltivare un orizzonte di senso permette di porci di fronte alla vita, e alla morte, come soggetti attivi e non da semplici fruitori di un tempo e di uno spazio che poi, di fronte alla morte, implodono. E tutto finisce. Homo sapiens non può reggere una vita priva di senso. Né una morte che non lasci intravvedere altri orizzonti. Morire, dormire... nient’altro, dice Amleto, e con un sonno dire che noi poniamo fine alla doglia del cuore, e alle mille offese naturali, che son retaggio della carne.[1]
Questi giorni proveremo a chiederci che regole darci per il fine vita. Quando, cioè, il tempo della morte scritto nel nostro organismo non dovesse coincidere con quello del nostro desiderio. Confusione e discronia. Alimentate anche dalle attuali conquiste della medicina che se da una parte sa prolungare il tempo della vita biologica, dall’altra non riesce sempre a sostenere le energie e le risorse necessarie per viverlo in pienezza. E nel dibattito che si aprirà, mio timore è che cadremo nella facile contrapposizione di favorevoli o contrari, senza neppure chiederci il senso di una posizione o dell’altra. Senza, soprattutto, aprire con noi stessi quelle domande che la vita e la morte portano scritte nel loro libro.
Racconta Jung di un incontro con alcuni indiani del Nuovo Messico. “Che cosa cercano i bianchi? Vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo che cosa vogliono, non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi”. Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi. “Dicono di pensare con la testa” rispose. “Ma certamente. Tu con cosa pensi?” gli chiesi sorpreso. “Noi pensiamo qui” disse, indicando il cuore. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole, svelato una verità alla quale siamo ciechi.[2] Pensare, sì. Perché parole senza pensieri mai giungono in cielo. Ma pensare con il cuore.
E quando ci scontriamo tra noi gettandoci addosso parole roboanti, rigide affermazioni di princìpi non negoziabili, di presunte verità che si tramutano in strumenti di squalifica dell’altro, siamo di fronte a parole senza pensieri. A parole utili solo per scagliarcele addosso, per alimentare contrapposizioni e conflitti. Parole che non nascono dal cuore.
Sapěre aude, ricorda Kant. Osa essere saggio, assennato. Sii avveduto. Prudente. Abbi il coraggio di conoscere. Di servirti della tua intelligenza. D’un’intelligenza che nasce nell’incontro e nel dialogo tra mente e cuore. Dove conoscere e sentire si tengono per mano, dove cognitivo ed emozionale sanno ascoltarsi e integrarsi. In sana e serena complicità.
Ma il latino sapěre significa anche aver sapore, non essere insipido. Sono insipido quando cado nella massa. Indifferenziato. Quando mi riduco ad un numero. Da sommare con altri, giusto per dare peso ad una posizione. Nella piccola logica della contrapposizione.
Tre parole ha l’antica lingua greca per dire vita. Bìos (da cui biologia). Indica la vita di un individuo. È la vita del singolo, persona o animale o altro vivente, che si concretizza in un tempo definito, dalla nascita alla morte. Zoè. Anch’essa significa vita, ma si riferisce all’essenza della vita, alla vita come principio vitale. Ne indica l’aspetto più profondo, universale. Potremmo dire la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo. La terza è psyché (da cui psicologia). In essa è racchiusa l’essenza dell’umano. Indica l’anima, lo spirito. La pienezza. Quando diciamo con tutta l’anima, con tutto il cuore, questo indica la parola psyché.
Cosa c’entra tutto questo col fine-vita? Temo sia difficile guardare il fine-vita se non siamo capaci di guardare la vita. Nel momento in cui lo sguardo si posa sul termine, sarei cieco se non cogliessi, da una parte il tempo in cui essa si svolge e lo spazio dentro cui cammina, e dall’altra la profondità e l’essenza di ciò che chiamiamo vita.
Un pittore e un falegname entrano in un bosco: gli alberi che vedono i loro occhi sono gli stessi. Ma il senso di quegli alberi è diverso. Il pittore coglie la luce che li accarezza, il falegname vede mobili e sedie.
[1] Shakespeare, Amleto, III
[2] Jung, Ricordi, sogni, riflessioni
*
V'invitiamo a leggere: Scapperete anche stavolta? 2025