Supervisione e terapia, due processi paralleli
La relazione di supervisione, analisi delle collusività

 

di Federico Cardinali e Gabriella Guidi (Terapia Familiare n. 26/1988)

(Riassunto)

Gli autori propongono in questo lavoro una lettura della relazione di supervisione, vista come relazione parallela alla stessa relazione terapeutica, attraverso un'analisi delle collusività (relazioni collusive) presenti nel rapporto terapeuta-supervisore (T-S).  Sono indicate alcune delle modalità pi frequenti di contratti collusivi, potenzialmente rigidi, che i due possono in qualche modo 'sottoscrivere'; la capacita del supervisore a sapersi porre in una posizione 'meta' rispetto alla coppia S-T, viene individuata come potenziale via di risoluzione. 
La necessità di tale risoluzione è sottolineata dal fatto che "se da una parte quegli stessi meccanismi (relazioni collusive) che regolano le dinamiche all'interno di un sistema familiare sono da questo riproposti nella relazione con il terapeuta, in pari tempo questi stessi processi agiscono anche nella relazione di supervisione; e nella misura in cui vengono sciolti, man mano, i nodi di rigidità presenti in quest'ultima, anche la terapia procede verso livelli maturativi più evoluti"

(Summary)

In this paper the authors propose a reading of supervision relation, viewed as parallel to the therapeutic relation, by the analysis of Therapist-Supervisor (T-S) collusion.  A few of the most frequent  potentially rigid collusive contracts between Therapist and Supervisor are analysed, and a way of resolution is shown in the ability of the Supervisor to put himself in the 'meta'-position as regards S-T couple.
The thesis of this paper is that if on one hand the same processes (collusive relations) inside a family system are re-proposed [from family] in the relation with the Therapist, in the same way those processes work as well in the supervision relation, and as those rigid knots in the S-T relation are untied, both supervision and therapy can really progress.


 

PREMESSA

 

Nell'ambito della maggior parte delle scuole di psicoterapia, parlare di supervisione significa prevalentemente, se non esclusivamente, parlare di 'supervisione didattica', di quella supervisione, cioè, che ha luogo in quel periodo definito da un contesto di insegnamento/apprendimento tra un didatta e un allievo. La Terapia relazionale si presenta, da questo punto di vista, con una struttura propria per l'inclusione, all'interno del sistema terapeutico, della relazione di supervisione come componente abituale. 
Presentiamo in queste pagine alcune osservazioni per una lettura della relazione di supervisione vista come relazione parallela alla stessa relazione terapeutica. Particolare attenzione sarà posta alla supervisione didattica: questa infatti è la prima esperienza di una relazione del tutto particolare e come tale tende a 'segnare' con la propria impronta ogni altra situazione analoga successiva. 

L'ipotesi che vorremmo discutere è che, se da una parte quegli stessi meccanismi (relazioni collusive) che regolano le dinamiche all'interno di un sistema familiare sono da questo riproposti nella relazione con il terapeuta, in pari tempo questi stessi processi agiscono anche nella relazione di supervisione; e nella misura in cui vengono sciolti, man mano, i nodi di rigidità presenti in quest'ultima, anche la terapia procede verso livelli maturativi più evoluti.

  

1.  SUL CONCETTO DI COLLUSIONE

 

L'identificazione proiettiva

Perché un sistema interpersonale si costituisca come tale deve esistere un certo grado di integrazione tra i suoi membri: il meccanismo che sta alla base di essa è lo scambio di parti di sé che ciascun membro attua con l'altro. 
Questo scambio, che M. Klein chiama "identificazione proiettiva", è un meccanismo estremamente primitivo e funziona alla sua massima espressione nei primi istanti di vita, ponendosi alla base delle prime relazioni oggettuali. Nei primi mesi di vita nel bambino esiste la fantasia onnipotente per cui parti non desiderate della personalità e degli oggetti interni possono essere: a) scisse, b) proiettate e c) controllate nell'oggetto in cui sono state proiettate1
Ciò che in un primo tempo viene considerato e studiato soltanto come un processo dalle sole caratteristiche di patologia, viene poi analizzato e indicato come un processo normale della vita psichica che fonda il vincolo di empatia con l'oggetto.  Ciò che si attua dunque, è la proiezione non solo di parti non desiderate, ma anche di parti buone del sé verso gli oggetti esterni: l'identificazione proiettiva assume così un ruolo essenziale anche nello sviluppo ulteriore delle buone relazioni d’oggetto (11, 12). Essa si rivela utile e necessaria non solo per riconoscere gli oggetti, ma anche per cercare nuovi oggetti con cui stabilire legami significativi. In altri termini possiamo dire che essa è alla base della comunicazione normale di empatia: è assolutamente necessario che uno si ponga nei panni dell'altro per capirne sentimenti, comportamenti, atteggiamenti, reazioni, ecc. Scrive Grinberg (10): "E' ciò che noi facciamo nel nostro lavoro di terapeuti e ciò che accade in ogni relazione umana". 
Rosenfeld (24) parlando di identificazione proiettiva ne distingue due qualità: 1) un'i.p. usata per la comunicazione e 2) un'i.p. usata per liberare il sé da parti non desiderate. Le parti buone o cattive del sé si dissociano dall'io e vengono proiettate con amore e con odio sugli oggetti esterni. 
Il meccanismo in una relazione a due è reciproco: ciò che avviene è uno scambio di parti di sé che ciascun partner attua con l'altro. "In condizioni normali l'i.p. determina la relazione di empatia con l'oggetto, non soltanto perché permette di situarsi nel luogo dell'altro e meglio comprendere i suoi sentimenti, ma anche per ciò che nell'altro evoca. Il soggetto produce sempre qualche risonanza emozionale nell'oggetto, per l'atteggiamento con cui gli si presenta dinanzi, la forma con cui lo guarda o gli parla, per il contenuto di ciò che dice o dei suoi gesti, ecc. Vuol dire che stanno sempre funzionando identificazioni proiettive emanate dalle diverse forme che originano e che ridestano le risposte emozionali corrispondenti: simpatia, pena, ostilità, fastidio, ecc. Ciò accade solitamente, all'interno di certi limiti, in ogni relazione umana e crea la base della comunicazione. L'oggetto, a sua volta, funziona anch'esso con le sue rispettive identificazioni e si produce così uno scambio in entrambe le direzioni" (10). 
Secondo Meltzer (18) l'identificazione proiettiva svolge un ruolo anche nella comunicazione verbale quando trascende i meccanismi sintattici per trasmettere informazioni: ciò che questo meccanismo trasmette è lo stato d'animo del soggetto che proietta. 
In una relazione si può dunque osservare un gioco continuo di proiezioni e introiezioni sia per l'uno che per l'altro partner. Nella dinamica di una coppia, ogni partner considera l'altro sia una parte esternalizzata di se stesso che un oggetto nuovo con cui rapportarsi.  Cerca così di indurre l'altro a diventare l'incarnazione della persona complementare e necessaria per la sua identità (19).

 

L'altro

L'altro reagisce di fronte alle identificazioni proiettive del soggetto come se realmente e concretamente avesse acquisito, assimilandoli, gli aspetti che gli sono stati proiettati. E' come se smettesse di essere sé stesso per trasformarsi in ciò che il partner ha voluto, al di là dei livelli di coscienza, farlo trasformare.  E' questa una risposta specifica dell'altro che si vede portato a svolgere il ruolo che, "in forma attiva anche se inconscia", il primo ha forzato in lui. 
E' evidente che "l'altro deve avere un suo proprio interesse personale a svolgere questa funzione" (21).  La sua risposta cioè è direttamente legata alla risonanza emozionale che nasce in lui per i bisogni, i conflitti o le ansie riattivati, o acutizzati, dalla 'proposta' fattagli (dal messaggio che gli è pervenuto). 
A titolo di esempio, semplificando in modo molto elementare, potremmo dire che un uomo che è ancora legato in maniera infantile con la propria madre, cercherà di perpetuare nel corso del tempo quella relazione madre-bambino che egli non ha accettato di ridefinire o perdere; la donna che accetterà questa relazione, d'altra parte, non può essere che una donna incapace a sua volta di sostenere un ruolo adulto e paritario con il marito.

 

Il rapporto collusivo

A questo accordo reciproco, a questa modalità di funzionamento interpersonale viene dato il nome di 'collusione'.  Essa determina un rapporto complementare nel quale ciascuno accetta di sviluppare quelle parti di sé che sono rispondenti ai bisogni dell'altro, rinunciando invece a svilupparne altre che sull'altro vengono proiettate  . 
Il processo collusivo appare in tutta la sua pregnanza nelle dinamiche di coppia 2 . Esso si configura come un gioco reciproco tra i due, una sorta di accordo tacito, inconscio, che essi stabiliscono tra loro, in cui decide ciascuno di giocare il gioco dell'altro. I partner hanno alle spalle spesso una storia [familiare] simile, in relazione al rapporto tra i genitori e con l'uno e/o l'altro di essi, ai ruoli che hanno dovuto svolgere nella loro famiglia di origine, e presentano di conseguenza aspettative (reciproche) che inizialmente portano a vedere nell'altro, e a chiedergli, l'esatto opposto e complementare in grado di rispondere a quei bisogni del proprio sé che sente frustrati nella sua esperienza.

 

L'intervento terapeutico

Nella terapia di coppia è proprio questo accordo, questo incastro dei due mondi interiori, questo gioco che, seppur condiviso, rimane però sconosciuto ai partner, il punto focale dell'intervento terapeutico. Esso mira non soltanto alle relazioni che intercorrono tra i due partner o alla dinamica psicopatologica di ciascuno: l'intervento è focalizzato su ciò che Dicks (6) chiama l'"incastro tra i due mondi interiori". 
In tutte le coppie osservate appare un profondo senso di appartenenza reciproco che sembra sopravvivere al di là di ogni comportamento apparentemente distruttivo del rapporto: come se la coppia fosse "un sistema a due in cui ciascun partner sente l'altro come parte di sé" (6). Nell'ambito del processo terapeutico ciascuno dei membri della coppia è portato a riappropriarsi di quelle parti del proprio sé che sono proiettate sull'altro e di cui l'altro si fa carico, così da utilizzare l'energia, finora impiegata nel rinforzare la collusività, in una nuova direzione: verso la ricerca di una risposta ai propri bisogni reali (21).

 

2.   IL RAPPORTO COLLUSIVO CON IL TERAPEUTA E LA SUPERVISIONE

 

La collusività con il terapeuta

Quel rapporto collusivo che si verifica nella coppia (e nella famiglia) viene riproposto dalla stessa nel rapporto terapeutico. Anche nella relazione paziente-terapeuta opera lo stesso bisogno di disappropriazione e proiezione, di scissione e collusione.  Il paziente (singolo, coppia, famiglia) cerca di collocare il terapeuta nello spazio funzionale ai suoi bisogni. E viceversa. 
Si pensi, per fare un esempio, alle possibilità di incastro che offrono l'impotenza che la famiglia porta al momento in cui "non ce la fa più ad andare avanti così" e il desiderio di onnipotenza del terapeuta che, specie se ancora giovane terapeuta, deve rinforzare il suo Io professionale.  E' piuttosto facile immaginare la sterilità di questo gioco in una prospettiva di cambiamento e, nel contempo, la funzionalità dello stesso per il mantenimento, all'infinito, della relazione [omeostatica]. 
Bion (2), parlando dell’identificazione proiettiva, ha elaborato un modello: la relazione contenitore-contenuto. Secondo questo modello il bambino proietta parti di sé, soprattutto quelle emozioni che per lui risultano incontrollabili [il contenuto], nel seno-buono [il contenitore] per poterle poi ricevere indietro disintossicate e quindi tollerabili. E' in base alla capacità della madre di metabolizzare o meno le proiezioni del bambino che si attuerà l'una o l'altra di queste possibilità: 
a. al bambino potrà ritornare ciò che è suo, ma con una connotazione affettiva tollerabile; 
b. al bambino potrà tornare indietro il suo timore, ma ancora con la stessa tonalità e intensità originaria: l'ansia e l'incomprensione non hanno permesso alla madre di metabolizzare le proiezioni del bambino; 
c. il turbamento della madre ritornerà al bambino con una connotazione di ancora maggior pericolo per lui: la madre, oggetto cattivo, gli restituisce un 'terrore senza nome'. 

Nella relazione terapeutica il paziente (famiglia, coppia, singolo) con le sue tensioni non è in grado di tollerare quelle parti di sé che non ha potuto elaborare e trasformare. Queste parti che non sono appropriate al pensare, al sognare, al ricordare (= gli elementi a di Bion) sono vissute come cose-in-sé e possono essere solo evacuate dentro un oggetto esterno.  Il terapeuta funge da oggetto esterno contenitore, e nel momento in cui pone in atto la sua capacità di ricevere, contenere e modificare le proiezioni del paziente, può elaborarle e restituirle come parti che gli appartengono e che egli può ora vivere non più come minacciose, quindi solo da evacuare. Il terapeuta dà contenimento. 
Si dà anche il caso, però, in cui il terapeuta non è in grado di accettare e di contenere le proiezioni dei pazienti che con la loro intensità riacutizzano o fanno riemergere problematiche non risolte del terapeuta stesso; né egli è in grado di riconoscere nelle sue reazioni la componente di retroazione alle proiezioni della famiglia... 
"Lo studente allora farà sentire al supervisore la stessa qualità di reazione emozionale che il paziente ha fatto sentire a lui" (10).  A questo punto "solo se il supervisore riesce a prendere coscienza della genesi della sua ripercussione affettiva può con maggiore capacità, oggettività ed esperienza, mostrare al terapeuta l'origine della reazione emozionale che questi ha sperimentato nella seduta con il proprio paziente" (10).

 

Il luogo del supervisore

Ma questo significa, per il supervisore, potersi collocare come contenitore per il terapeuta, per quei vissuti emozionali che non può e/o non sa gestire. 
Il terapeuta ha difficoltà a volgere la sua attenzione al mondo interno dei pazienti (e proprio), non riesce cioè a lasciarsi andare a quella 'attenzione fluttuante' tra il piano del reale e quello del mentale, tra la dimensione di contenuto e quella di relazione nel processo comunicativo tra i componenti la famiglia e tra questi e lui stesso. 
Il supervisore si pone, in questo contesto, come colui che può ascoltare ed esplicitare i bisogni dei pazienti, inviando così al terapeuta il messaggio che dare contenimento è possibile, senza per questo 'morire'. Il supervisore diventa così anche il luogo della "sofferenza di una continua problematizzazione" (14), il luogo cioè dove ha la possibilità di emergere ciò che è nuovo, quindi non previsto e non contemplato. 
In questa relazione particolare, che è la relazione di supervisione, operano ovviamente quegli stessi meccanismi che regolano ogni relazione significativa tra esseri umani. Anche il supervisore, cioè, si trova ad essere collocato, da parte del terapeuta, nello spazio funzionale ai suoi (del terapeuta) bisogni; allo stesso modo in cui il paziente (singolo, coppia o famiglia) cerca di collocare il suo terapeuta nello spazio funzionale ai propri (20, 21).

In altra occasione (21) abbiamo usato questo modello  F (------) T (------) S per rappresentare l'intero sistema terapeutico comprendente la famiglia (F), il terapeuta (T) e il supervisore (S) in reciproca relazione collusiva. 
Vorremmo far notare come il concetto di 'collusione' non è di per sé un concetto negativo: colludere significa 'giocare insieme' (cum-ludere = giocare con), fare insieme lo stesso gioco. Come ogni altra modalità di comunicazione, però, assume un valore negativo nel momento in cui si colloca su un piano di rigidità e non evolve verso livelli relazionali e personali più maturi e più dinamici.  (E' questo il senso in cui ne parliamo in queste pagine). 
Crediamo che anche a proposito della relazione di supervisione si possa affermare, così come per la relazione terapeutica, che in ogni 'buona' relazione di supervisione si realizza "un incontro di bisogni reciproci in evoluzione" (20).

 

Alcuni modelli di contratto

Vorremmo presentare ora, a titolo di esempio, alcuni modelli di contratti collusivi potenzialmente rigidi che hanno la possibilità di venire sottoscritti all'interno di una relazione di supervisione. Essi sono soltanto alcuni, tra i tanti possibili...

 

Come noi non c’è nessuno

Il supervisore e il terapeuta decidono di uscire dall’impasse dello scontro sottoscrivendo un accordo che suona presso a poco così: "Se tu trovi che io sono un supervisore straordinario, io troverò che tu sei un terapeuta straordinario" e viceversa. 
Ma il narcisismo reciproco, così soddisfatto, può anche richiedere una vittima per la sua alimentazione: il terzo. Questi di volta in volta può essere: 
a) la famiglia: specie se è una famiglia che osa abbandonare questa coppia così straordinaria di genitori... Ad alcune coppie terapeuta-supervisore capita più spesso che ad altre di 'perdere' famiglie; come si fa, del resto, ad essere figli all'altezza di così bravi genitori! 
b) l'Istituto, la Società scientifica di appartenenza, con le sue regole (e la sua rigidità) che costringono magari a interrompere dopo un tempo prefissato un matrimonio così felice; con la sua dottrina che non ammette eresie né di pensiero né di azione; 
c) altri colleghi del supervisore o del terapeuta che, "poverini, non sono certo così bravi come il nostro!"; a patto, ovviamente, che anche lui riconosca che "non ci sono altri terapeuti all'infuori di te"; questo, specialmente all'avvicinarsi della dovuta separazione (al termine di un ciclo di supervisione, per es.).

 

Il creatore e la sua creatura

Il terapeuta 'decide' che non potrà mai rapportarsi al suo supervisore se non sacrificandogli qualcosa di sé stesso. 'Decide' anche che solo così lui può sopravvivere alla temuta richiesta di differenziazione (e quindi di separazione). Fa allora continue richieste di rassicurazione ("dimmi cosa debbo fare", "ho fatto bene a fare così?", ecc.) fino a chiedergli un 'modello di terapeuta' da inglobare e porre dentro di sé. Si pensi che bella esca per il narcisismo del supervisore avere la possibilità di creare tanti terapeuti 'a propria immagine e somiglianza' sparsi per il mondo.

 

Il persecutore e la vittima 

Anche la famiglia può 'decidere' di colludere col narcisismo del terapeuta: "Lei dottore è veramente molto bravo, ha capito subito il problema; non come il dr. X che non ci diceva mai niente, o come il dr. Y che ci trattava sempre male e non ci guardava neppure in faccia... non parliamo poi del dr.  Z che se la prendeva sempre con questo povero ragazzo che sta tanto male". E' certo un'esca allettante per il terapeuta, tanto più se il supervisore, invece, gli fa richieste di cambiamento e di crescita, scoprendogli magari, e quindi interrompendo, una relazione collusiva così gratificante (ma altrettanto sterile). 
Il terapeuta vive nella scissione: il supervisore diventa il luogo di proiezione delle sue parti persecutorie, le accoglie e le fa crescere ponendole in atto; mentre il paziente, dall'altra parte, è il luogo di proiezione delle sue parti idealizzanti.

 

O con me o contro di me 

In risposta all’esclusione che il terapeuta con la 'sua' famiglia pone in atto nei confronti del supervisore, questi può anche reagire con tentativi di riappropriazione sia del terapeuta, sottraendolo così alla famiglia, come pure della famiglia stessa, sottraendola in questo modo al terapeuta. Certi interventi del supervisore (alcune invasioni di campo oltre i confini dello specchio equivalgono a dire: "Io sono più bravo del vostro terapeuta"), come anche certi suoi non interventi (= non trasmette il suo sapere, non interviene in modo correttivo sulla relazione terapeuta-famiglia, lasciando questa coppia nel suo rapporto collusivo sterile e impotente) sono un chiaro messaggio per il terapeuta: "O con me o contro di me".  A quest'ultimo non rimane che dover scegliere: o i pazienti o il supervisore.

 

Il terapeuta del terapeuta 

In un rapporto di supervisione nel campo della psicoterapia, in un settore cioè dove le componenti emozionali hanno un peso di gran lunga maggiore di quello che hanno le tecniche, lo scivolamento verso il terapeutico è sempre in agguato. Il Supervisore considera l'allievo, e questi si pone, come se lui e il paziente avessero bisogno di aiuto allo stesso modo. 
Dicevamo sopra di come il mondo emozionale del terapeuta e quello della famiglia entrino in contatto e di come, sia l'uno che l'altro, contribuiscano alla formazione del clima emotivo della singola seduta così come della stessa relazione terapeutica; il terapeuta, continuamente stimolato ad entrare 'in contatto con il proprio sé' durante il suo lavoro, è facilmente portato a chiedere al supervisore quel supporto che lui in seduta deve offrire al paziente. 
Vogliamo sottolineare qui che ciò avviene tanto più se egli non ha fatto, o non sta facendo, la sua terapia personale e non ha quindi già trovato un proprio 'luogo' personale dove poter "assimilare l'esperienza della propria ansia, depressione, invidia e di tutte le emozioni relative a quell'insieme di conflitti che fondano la sua stessa vocazione, in modo da poterle tollerare" (14) sia nel suo quotidiano che nel rapporto con i pazienti, che, proprio per le sue peculiarità, agisce riattivando o riacutizzando certe sue problematiche non risolte, né accettate.

 

3.  DISCUSSIONE

 

Terapia o supervisione? 

Il supervisore nel suo lavoro, in base all’esperienza acquisita, arriva a capire delle ‘verità’ non solo sul paziente, ma anche sul terapeuta: e ciò anche attraverso l'ascolto attento di quanto dicono gli stessi pazienti i quali, spesso, arrivano a capire cose sul terapeuta prima ancora del supervisore e del terapeuta stesso. 
Se il supervisore non accetta la richiesta di un sostegno terapeutico dello studente, quest'ultimo si sentirà facilmente tra due fuochi  S -----> T <----- P senza che nessuno lo soccorra. 
Se il supervisore accetta però una relazione terapeutica, o se è lui stesso in qualche modo a proporla, raggela l'allievo in una situazione di dipendenza e di rinuncia al suo processo di crescita. Ciò che prende via è invece un processo d’intrusione reciproca da parte dell'uno nella mente dell'altro. 
Obiettivo del contratto di supervisione è, per lo studente terapeuta, quello di consolidarsi nella sua posizione di terapeuta affinando le capacità e sviluppando le proprie doti e  la propria individualità irripetibile attraverso lo scambio di esperienze con un collega 'più esperto'. Compito del supervisore  è quello di "evidenziare le simmetrie, le complementarietà, le dissonanze delle angosce e delle difese, senza dimenticare, però, che nella coppia terapeutica il terapeuta ha un ruolo funzionale diverso e che il supervisore si rivolge alle parti più adulte del terapeuta" (14).

 

Intrusione o comunicazione? 

Abbiamo parlato, all'inizio di queste pagine, di identificazione proiettiva, e siamo arrivati a parlare di 'intrusione' nello spazio e nella mente dell'altro, sia nella relazione famiglia-terapeuta che in quella terapeuta-supervisore (in ambedue le direzioni, ovviamente):

F -------> T         S -------> T
<-------                 <-------

Abbiamo già detto di una i.p. per comunicare e di una i.p. per intrudere, che poi è lo stesso che parlare di un processo di comunicazione e di un processo di intrusione all'interno di una relazione significativa: 

identificazione proiettiva ------>  comunicazione
identificazione intrusiva  ------>  intrusione 

Il problema nasce quando, in certe situazioni, comunicazione e intrusione si scambiano tra loro prendendole l'una per l'altra. 
Sulla base del modello di Bion, già citato, possiamo ora dire che se in un processo comunicativo all’identificazione proiettiva corrisponde una "madre" [terapeuta, supervisore] che contiene, in una relazione intrusiva al processo di identificazione corrisponde una "madre" [terapeuta, supervisore] che soffoca, che chiude, che perseguita in qualche modo, che intrude cioè nello spazio mentale dell'altro. 
E’ il terapeuta che può intrudere nella mente del supervisore ponendolo rigidamente nel ruolo funzionale al soddisfacimento dei suoi bisogni; ma può anche il supervisore porre in atto un comportamento altrettanto intrusivo verso il terapeuta che, in una tale situazione, non ha altra possibilità che chiudere verso i messaggi che gli sono inviati. 

In una situazione così strutturata il superamento della collusività può avvenire solo nel momento in cui il supervisore riesce a porsi ad un livello "meta" rispetto alla coppia (S-T) e a portarvi il terapeuta stesso: i due possono iniziare da quel momento a ‘comunicare’ e quindi a porsi in una relazione reciprocamente trasformativa. 
Comunicazione e intrusione non possono marciare insieme. La comunicazione avviene solo quando l'altro può accettare quello che gli viene detto: lo può prendere e trasformare (= metabolizzare). Solo una comunicazione non intrusiva porta alla trasformazione. E questo, ovviamente, in ambedue le direzioni. La trasformazione del messaggio e la trasformazione dell'altro (dell'emittente e del ricevente) non sono che due aspetti dello stesso processo.

 

Sulla posizione 'meta' del supervisore (nota) 

(A titolo di esempio riportiamo un frammento di supervisione che  ci mostra il momento il cui il supervisore ha potuto fare questo 'passaggio di livello' di cui abbiamo parlato).

 
Una coppia in terapia: Mario sulla sessantina, Luisa, sua moglie, è dieci anni più giovane. Non hanno figli. Da oltre cinque anni non hanno più rapporti sessuali e, pur vivendo nella stessa casa, si sono organizzati come se questa fosse fatta di due sub appartamenti. Sono inviati per una terapia di coppia da parte di un’analista cui si era rivolta la moglie dopo aver sentito, per caso, una telefonata molto 'affettuosa' tra Mario e la sua (di lui) analista: lui era in terapia individuale da parecchi mesi con una terapeuta molti anni più giovane di lui. 
Mario si comporta in seduta come un uomo che sa solo prendersi sul serio, senza il minimo senso di humour, è noioso; parla, fa discorsi, chiacchiera, tiene conferenze su tutto, anche su sé stesso, il sesso e il rapporto con la moglie. Si presenta sempre sul grigio-scuro quasi fosse un impresario di pompe funebri. Lei scalcia, si ribella, dice che se ne andrà... poi, però, rimane sempre lì e fa le bizze come una bambina insoddisfatta. Veste e si atteggia come se fosse una bambolina da guardare, ma non toccare. 
Quanto più lui si presenta come testa, tanto più lei come corpo; e viceversa. Il loro gioco collusivo si rivela di un così perfetto equilibrio che l'uno e l'altra possono continuare a spingere, ciascuno nella sua direzione, tanto sanno perfettamente che non si toccheranno mai e che nessuno dei due lascerà la presa. L'intrusione di una donna (l'analista di lui) che aveva portato un corpo sessuato rischiava di far naufragare questo gioco e tutti e due, in perfetto accordo, hanno deciso di scaricarla: dopo la scenata della moglie, Mario chiude la sua terapia e non far più neanche una sola seduta (!): "io per mia moglie sono disposto a tutto, le voglio molto bene". 
Ora l'altra coppia: il terapeuta e il supervisore sono al loro primo incontro, non avevano mai lavorato insieme in precedenza: questa è la prima terapia che fanno insieme. Il contesto è quello di una supervisione didattica. La terapia (con relativa supervisione) va ormai avanti da due mesi. Il supervisore sta diventando sempre più attivo e propositivo e il terapeuta, da parte sua, si pone come un buon esecutore delle direttive che gli vengono da oltre lo specchio, ma appare sempre più evidente che non si sta prendendo in carico la terapia, ...tanto c’è il supervisore! L'uno e l'altro, però, vivono una situazione di disagio che li porta piano piano ad aumentare, irrigidendola, questa loro reciproca attribuzione di funzioni: il supervisore fa sempre meno il supervisore e sempre più il terapeuta mentre  quest'ultimo è sempre meno terapeuta e sempre più portavoce del supervisore. 
La terapia non procede (anche se le sedute continuano) e ognuno dei membri di questo sistema terapeutico è incastrato nella sua funzione che, per altro, si rivela perfettamente 'funzionale' a quella del partner: questo, sia all'interno della coppia dei pazienti che nella coppia S-T, così come nella stessa relazione tra le due coppie: l'una e l'altra, in perfetto accordo, si aiutano a non cambiare. 
Finché un bel giorno... 
Si era deciso (= il supervisore aveva deciso) di fare le due sedute successive, ciascuna con uno soltanto dei partner. La seduta con Luisa è già stata fatta, ora è la volta del marito. L'incontro sta proprio diventando noioso, Mario fa una delle solite conferenze sui suoi sensi di colpa e sui condizionamenti della rigida educazione cattolica che ha ricevuto nella sua infanzia e giovinezza; il terapeuta ha abboccato all'amo e suoi interventi servono solo... a migliorare lo stile del conferenziere. Dietro lo specchio il supervisore sente crescere il disagio, sbuffa, si agita, non ne può più e chiama fuori il terapeuta: 
S (... fa un lungo intervento su come sta andando la seduta. Poi continua:) Divorato dai sensi di colpa! dico io: pure Gesù Cristo per quaranta giorni è stato divorato... lui vada nel deserto se è divorato di più: perché viene a spendere i soldi qua? paga di meno ad andare a Tamarasset, no?, a fare esperienza nel deserto! 
T (... si sente bloccato e paralizzato, quasi in trance; ora poi è particolarmente colpito dalla fantasia creativa  del supervisore. Gli dice:) Sei proprio bravo! [... altre parole incomprensibili, pronunciate con tono sempre più flebile] 
S Certo che so' bravo! Il problema però è che non sono bravo con te. Ho più difficoltà con te che con lui: capisci qual’è il dramma? Questo (il paziente) è una specie di enciclopedia ambulante, noioso: e tu sei serio! Ogni tanto ci provi... (... il supervisore fa ancora delle osservazioni sulla relazione del terapeuta con il paziente e gli propone una diversa modalità di intervento. Il terapeuta è sempre più serio e preoccupato: ciò che gli pesa di più è quel "non riesco a lavorare con te" che proprio non si aspettava ...). Non partire preoccupato di te. Parti, come dire... Be', fa' una cosa: se non ci riesci, dici: "non ci riesco, viene il mio supervisore". T'accorgi che non ci riesci, fa' una cosa: dici: "io con lei non ci riesco e mando qui il mio supervisore!" . O.k.? ti dimetti! o.k.? 
Il terapeuta si trova spiazzato e 'abbandonato' dal suo supervisore e si vede costretto a prendersi in carico il paziente oppure sa che dovrà lasciare il campo, perché il supervisore 'non ci sta più' al gioco della loro coppia. La seduta continua, ma il clima cambia velocemente, e, ciò che più conta, prende avvio un profondo cambiamento nelle relazioni che legano i due.  Ulteriori tentativi di riproposizione del vecchio gioco saranno fatti ancora in seguito,  ma ormai ambedue se ne rendono conto e il cambiamento innescato può procedere fino a coinvolgere - e questo è un punto altrettanto significativo - l'intero sistema terapeutico, permettendo anche alla coppia dei pazienti di uscire dalla loro impasse collusiva. 
Il supervisore aveva portato in questo momento la sua attenzione sulla coppia che lo vedeva partner del terapeuta ponendosi, appunto, in posizione meta rispetto ad essa. Da questa posizione ha potuto osservare il gioco che ambedue stavano facendo. 

Da due versanti, crediamo, è venuta al supervisore la spinta necessaria per 'salire', e non solo rispetto alla relazione tra terapeuta e paziente, ma proprio rispetto alla stessa coppia S-T: a) la paralisi dell'intero sistema terapeutico che non faceva procedere in nessun modo la terapia, e b) il disagio (la sofferenza) con cui lui stesso e il terapeuta vivevano la loro relazione. 

Compito del supervisore, crediamo, è proprio quello di essere in grado di tenere costantemente presenti ambedue questi canali. La sola percezione e osservazione dell’eventuale stasi nel processo terapeutico (a) porterebbe facilmente all'attribuzione di responsabilità - incapacità, non volontà - verso il paziente (singolo, coppia o famiglia) in una logica totalmente lineare. Nell'altro versante, la sola osservazione del terapeuta (b) potrebbe facilmente sfociare verso designazioni di capacità/incapacità come attributi personali del terapeuta stesso - ancora in una logica di linearità. E' solo l'osservazione del (e l'intervento sul) funzionamento della coppia S-T che permette ai due di superare i momenti d’impasse e al supervisore di svolgere la sua funzione di super-visione [che in un contesto didattico, poi, comprende anche quella di formazione del terapeuta-allievo]. 'Buon supervisore' è colui che sa entrare ed uscire nella/dalla relazione con il terapeuta: 'entrare' per esserci e sentire il loro legame di coppia, 'uscire' per osservarne gli aspetti collusivi (le modalità comunicative) e apportarvi le opportune correzioni di rotta; dovrà essere in grado di comprendere sé stesso come parte del suo campo di osservazione [e di intervento].

 

Formare: de-formare o trans-formare? 

Potremmo dire dunque che una relazione terapeutica e/o di supervisione funziona quando avviene la comunicazione, quando cioè è situata in un contesto trasformativo. Diversamente dovremmo parlare di intrusione, che però né modifica né trasforma, può solo deformare. 
'De-formare' significa togliere all'oggetto la sua forma; 'trans-formare' significa consentire all'oggetto di mettere in atto le sue potenzialità.  Esemplificando in modo molto semplice, possiamo dire che un bambino che cresce si trasforma; un bambino che, nonostante il passare degli anni, non cresce, si deforma. Uno studente che lasciando la relazione di supervisione imita il suo supervisore ne esce deformato, non trasformato; allo stesso modo, però, anche il supervisore che, lasciando la relazione di supervisione, rimane quello che era prima, ha bloccato il suo processo di crescita. 
La formazione del terapeuta viene normalmente considerata come il primo degli obiettivi di una supervisione didattica. 
'Formare', letteralmente, significa 'dare forma', e ciò in due sensi: ad un livello più di superficie significa modificare l'apparenza di un oggetto, la sua forma esteriore; ad un livello più profondo, però, la forma è l'anima di una cosa, ciò per cui una cosa è quello che è. In questo secondo senso, che abbiamo indicato come più profondo, formare e trans-formare sono due termini che esprimono lo stesso concetto.  La formazione (= liberare la propria forma-anima) e la trasformazione dello studente-terapeuta sono in realtà lo stesso processo di crescita.

 

Il luogo della teoria: una fede o un'ipotesi di lavoro? 

Abbiamo indicato, sopra, la supervisione come "il luogo della sofferenza di una continua problematizzazione" (14),   il luogo cioè dove il nuovo, il non compreso e anche il non previsto può emergere; ciò significa che se i momenti di apertura e di novità, sia dello studente-terapeuta che del supervisore, come pure della relazione emergente tra i due, non possono trovare il loro spazio nel processo di supervisione, questa diverrà invece il luogo in cui l'allievo va ad acquistare la sua protesi professionale. 
Il nuovo, il non compreso e il non previsto, però, va in qualche modo 'preventivato' non solo in riferimento alle dinamiche personali e relazionali dei soggetti coinvolti nel rapporto, ma anche verso una possibile trans-formazione di quei presupposti teorici che sottostanno allo stesso lavoro clinico e didattico. 
Si dice che l'ortodossia non è altro che un’eresia che ha ottenuto il consenso. Ma eretici di fronte a chi? Può lo studente essere eretico per il suo supervisore?  Può il supervisore ortodosso con-dividere l'eresia che porta lo studente?   L'istituzione poi, cioè l'Istituto o la Società scientifica di appartenenza, si mostrerà capace di favorire lo svezzamento (= formazione, trasformazione) dello studente, o vivrà come un rifiuto, e quindi rifiuterà a sua volta, ogni 'novità' non prevista che l'incontro tra due persone può far emergere?

 

4.   NOTA CONCLUSIVA

 

Più che trarre delle conclusioni su quanto sopra detto, vorremmo porre un problema sul quale crediamo si debba approfondire il confronto tra i terapeuti che ogni giorno si trovano faccia a faccia con la clinica. 
Le osservazioni fatte in questo lavoro riguardano, per molti aspetti, la relazione di supervisione in un contesto di apprendimento (supervisione didattica). 
Ciò tuttavia non toglie che, sia pure con certe differenze, ogni volta che si costituisce un sistema terapeutico e di supervisione si innescano gli stessi processi, che possono poi o evolvere verso il cambiamento delle persone coinvolte e delle loro relazioni, o contribuire a rinforzarne la rigidità. Tra i compiti del supervisore, sia esso didatta o collega, riteniamo prioritario quello di sapersi porre in una posizione 'meta' non soltanto rispetto al rapporto paziente-terapeuta, ma anche rispetto alla stessa relazione che lo vede coinvolto in prima persona con il terapeuta medesimo. E' a questa condizione che riuscirà a far sperimentare modalità più evolute di percezione di sé e dell'altro al terapeuta, al paziente e, di conseguenza, a sé stesso.

Un'osservazione vorremmo fare sulla supervisione 'non didattica'.  Il modello appreso durante gli anni di formazione viene spesso riproposto tale e quale in una supervisione 'tra colleghi' configurando così una situazione che, per rifarci a un modello familiare, potremmo definire di 'confusione generazionale'. Nella famiglia o si è genitori o si è figli: non esiste una generazione intermedia; e quando un membro fa confusione di ruoli, il figlio genitoriale o il partner figlio, per esempio, parliamo di funzionamento patologico.  Un analogo meccanismo perverso si innesca quando il collega-supervisore, riproponendo il modello 'appreso' durante gli anni di formazione, si attribuisce funzioni di maestro e/o il collega-terapeuta, riproponendo da parte sua lo stesso modello, si pone nei suoi confronti come allievo. 
Il didatta e l'allievo appartengono a due generazioni diverse sul piano delle funzioni attribuite e reciprocamente condivise; due terapeuti, colleghi di un Servizio, per esempio, appartengono alla medesima generazione e si trovano a dover apprendere una regola diversa e nuova: il supervisore non è il maestro, così come il terapeuta non è l'allievo; tuttavia il collega-supervisore non può non svolgere la sua funzione di 'contenitore' nei confronti non solo del terapeuta, ma dell'intero sistema terapeutico-e-di-supervisione che lo vede coinvolto. 
Se non è facile scegliersi un supervisore didatta al quale 'affidare', diciamo così, la propria formazione, meno ancora crediamo che lo sia trovare un collega al quale 'affidare' il proprio lavoro clinico. Due componenti vogliamo indicare che, dal nostro punto di vista, concorrono a fondare una tale difficoltà. 
Da una parte solo un reciproco rapporto di conoscenza e di stima può permettere una collaborazione così particolare tra due colleghi. Il fatto che tra i due ci si possa scambiare le funzioni di terapeuta e supervisore, l'uno dell'altro, nelle diverse situazioni, crediamo sia un 'segno' favorevole del buon funzionamento della coppia: la supervisione 'a senso unico' tra due colleghi ci richiama tanto certe rigidità collusive di quelle coppie con un membro sempre 'sano' e l'altro costantemente 'malato' che incontriamo nella nostra clinica... 
Dall'altra parte, però, crediamo che un altro aspetto della realtà dovremmo considerare. Nel lavoro che si svolge durante gli anni di formazione l'attenzione alla formazione del terapeuta è di gran lunga maggiore rispetto a quella che si presta alla 'formazione del terapeuta-supervisore-di-un-collega-terapeuta': troppo spesso, anzi, quest'ultima è trascurata completamente. 
Chi sa, se non sarà anche per questo che esistono in Italia così tanti didatti (con quasi altrettanti Istituti di formazione), così tanti allievi, e così pochi 'colleghi' terapeuti?!

 
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1 Il concetto di collusione appare  strettamente collegato a quello di identificazione proiettiva, pur non identificandosi con esso. Stuart e coll. (24) affermano che la collusione è parte integrante dell'i.p. in quanto il destinatario della parte scissa del partner non si disappropria della proiezione, ma agisce il messaggio che riceve. L'i.p. è alla base della collusione, ne è un meccanismo molto importante; non siamo però ancora in grado di definire tutte le componenti che determinano il processo collusivo. 
2 Limitiamo a queste le nostre osservazioni. In realtà in ogni sistema familiare, come pure in ogni situazione significativa, si giocano continuamente rapporti collusivi tra i membri.

 
BIBLIOGRAFIA

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Pubblicato su TERAPIA FAMILIARE n. 26, 1988