Interazioni tra famiglia d'origine e gruppo di formazione

 

di F. Cardinali e G. Guidi - in Andolfi M. e Cigoli V. (a cura di), La Famiglia d'origine, F. Angeli, Milano 2003

Come commiato, che non fu un commiato,
il maestro mi porse il suo migliore arco.
“Quando tirerai con questo arco
sentirai che la maestria del maestro è presente.
Ma non darlo in mano a curiosi!
E quando ne sarai padrone,
non conservarlo per ricordo!
Distruggilo, che non ne resti che un mucchietto di cenere!”.
[…]

Noi maestri d’arco diciamo:
“Con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo,
all’estremità inferiore è appesa la terra,
fissata con un filo di seta.
Se il colpo parte con una forte scossa,

c’è il pericolo che il filo si spezzi.
Per il volitivo e il violento
l’uomo resta irrimediabilmente
nello spazio intermedio tra il cielo e la terra”.
(12)

 

PREMESSA

 

Questo lavoro consta di due parti: una prima che abbiamo chiamato “considerazioni preliminari” e una seconda che entra nel merito di alcuni degli elementi che, a nostro parere, sono più significativi nel connotare il processo di interazione tra la famiglia d’origine dell’allievo e il gruppo di formazione durante gli anni del Corso di specializzazione. Riteniamo importante sottolineare che le due parti sono strettamente interdipendenti e che quei pensieri che sono delineati nella prima sono necessari per comprendere e contestualizzare l’ipotesi di fondo che sottostà a questo lavoro: se la famiglia d’origine è il luogo del primo apprendimento familiare, il gruppo di formazione, come luogo del secondo apprendimento familiare, attiva un processo di elaborazione/correzione, quindi di integrazione, rispetto al modello appreso nella propria famiglia.

  

I.
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

 

  1. Le radici del fare

 

Una domanda che accompagna sempre l’inizio – non solo l’inizio, per la verità - di un corso di formazione è “come fare?” o “cosa fare in una data situazione?”. L’ipo­tesi da cui partiamo è che il FARE (F) è sempre e comunque risultato dell'interazione tra il PENSARE (P) e il SENTIRE (S): esso ne è l'aspetto evidente e rivelatore, potremmo dire l'aspetto “sintomatico”. Il pensiero e il mondo emozionale, cioè, ne sono le radici. Con una distinzione un po’ generica possiamo dire che P è l’area dello studio, delle conoscenze, delle ipotesi di ricerca, in una parola, l’area dell’epistemologia di riferimento, mentre S è l’area delle emozioni, del recupero e della valorizzazione delle esperienze emozionali, in altre parole, l’area della formazione personale.

Se F, il fare terapeutico, nasce da un buon processo di integrazione tra le due aree P e S, esso diventa comportamento consapevole e, come tale, contenitore e sicuro alleato della spinta evolutiva che appartiene ad ogni individuo e ad ogni gruppo familiare.

Quando le aree P e S non accedono ai livelli di consapevolezza, come forze propulsive esse spingono ad un’azione (F) cui poi vengono attribuiti significati che in realtà non le appartengono. L'azione diventa, allora, non più intervento terapeutico, ma “agito” inconsapevole (acting out) e, come tale, ad alto rischio di collusione con elementi e spinte involutive (pure esse presenti in ogni individuo e in ogni gruppo familiare).

 

Potremmo riprendere, come una possibile indicazione/ipotesi di approfondimento, alcune affermazioni di Bion a proposito della funzione alfa (5, passim).

“Perché possano essere utilizzati dai pensieri del sogno, le percezioni di un’esperienza emotiva debbono essere preventivamente elaborate dalla funzione alfa”. Non lasciamoci ingannare dall’attenzione al sogno, perché Bion subito dopo aggiunge: “un’esperienza emotiva verificantesi nel sonno non differisce da un’esperienza emotiva di veglia”.

“La funzione alfa esegue le sue operazioni su tutte le impressioni sensoriali, quali che siano, e su tutte le emozioni, di qualsiasi genere, che vengono alla coscienza del paziente. Se l’attività della funzione alfa è stata espletata, si producono elementi alfa; (…) se invece la funzione alfa è alterata, quindi inefficiente, le impressioni sensoriali coscienti e le emozioni provate restano immodificate [2]: chiamerò questi elementi beta”. Continua poi dicendo: “Pur non essendo utilizzabili da parte dei pensieri onirici [e, abbiamo visto sopra, anche da parte dei pensieri di veglia] gli elementi beta sono disponibili per le operazioni dell’identificazione proiettiva: essi esercitano perciò la loro influenza nel prodursi degli acting out.  (…) Infatti “anche gli elementi beta vengono immagazzinati: si differenziano, però, dagli elementi alfa, perché sono conservati non già come ricordi, bensì come fatti indigeriti; viceversa gli elementi alfa, essendo stati digeriti dalla funzione alfa, sono diventati adatti alle operazioni del pensiero”.

(…) “Ecco la formulazione più generale della mia teoria: perché si possa apprendere dall’esperienza, la funzione alfa deve operare sulla consapevolezza di un’esperienza emotiva; dalle impressioni di tale esperienza scaturiscono elementi alfa; tali elementi vengono resi immagazzinabili affinché i pensieri del sogno e il pensiero inconscio di veglia li possano utilizzare”. Dopo aver portato come esempio di operazione della funzione alfa l’esperienza emotiva di un bambino che impara a camminare, continua dicendo: “La funzione alfa è necessaria per ragionare e pensare consapevolmente e per devolvere il pensare all’inconscio quando, nell’apprendere un’attitudine, è necessario liberare la coscienza dal peso del pensiero”.

Sempre nell’intento di voler offrire delle indicazioni/ipotesi di approfondimento, possiamo immaginare un’analogia tra il processo di apprendimento del bambino che impara a camminare e il terapeuta che impara il fare terapia (F) [3].

L’incontro con i pazienti è per il terapeuta fonte di impressioni sensoriali e di esperienze emotive; queste comunque occupano lo spazio mentale/emozionale del terapeuta richiamando esperienze già sentite e vissute nel tempo. Vedremo in seguito come l’apprendimento familiare/relazionale costruito nella propria famiglia d’origine diventa una mappa sulla quale sono collocate le esperienze successive, che acquistano, così, significati emozionali del tutto personali a seconda delle coordinate che la griglia/mappa è in grado di fornire. Se la mappa di riferimento (= il modello familiare/relazionale) non è sufficientemente conosciuta, se, in altre parole, non si è avviato quel processo di digestione delle esperienze emozionali significative, meno ancora le nuove esperienze possono diventare utilizzabili per le operazioni del pensiero, con il rischio che il tutto debba venire evacuato attraverso l’identificazione proiettiva e la produzione di acting out[4].

Un’obiezione che a volte ci viene fatta è che alcuni (molti?) ritengono di non lasciarsi guidare da un’epistemologia (= da un pensiero teorico di riferimento), tanto meno dalle loro emozioni, nei loro interventi professionali.

Quando dovessimo trovarci di fronte ad un’obiezione di questo genere dobbiamo allertare tutti i nostri sensi, quelli del corpo e quelli della mente: ci troviamo di fronte ad una dichiarazione di inconsapevolezza assoluta, dovremmo dire di incoscienza assoluta, restituendo a questa parola il suo pieno e duplice significato di non-coscienza (= non consapevolezza) nel senso del linguaggio psicologico e di incoscienza nel senso del linguaggio quotidiano, di assenza di rispetto, cioè, di una qualsiasi norma di etica [professionale].

Ogni nostro intervento[5] nasce da un’interazione costante tra l’idea che ci facciamo di quella determinata situazione e le emozioni che questa ci provoca. Che siamo consapevoli o no, è così. Se, ad esempio, facciamo un’osservazione ad un signore in seduta su come si sta relazionando con suo figlio o con sua moglie, essa è guidata dall’idea/immagine che noi abbiamo di “padre” o di “marito”; nella scelta di cosa prendere o non prendere tra i mille stimoli che un paziente ci porta, è la significatività che una determinata cosa (situazione, parola, messaggio non verbale, ecc.) ha per noi che ci guida nella scelta. E’ solo l’attivazione di un processo di conoscenza (= consapevolizzazione) dei nostri modelli interiorizzati che ci restituisce la possibilità di agire con sufficiente libertà dai nostri condizionamenti, quindi con una maggiore adeguatezza e rispetto per la problematica delle persone con cui stiamo lavorando.

Lasciando per ora l’approfondimento di queste riflessioni e riprendendo il pensiero iniziale sul pensare e sentire come radici del fare, vogliamo dire che, pur con tutti i rischi di fare un'operazione riduzionistica, riteniamo di poter collocare il tema di questo intervento, sulle interazioni tra famiglia d’origine e gruppo di formazione, prevalentemente nell'area del SENTIRE, l'area delle emozioni, quella, quindi, che abbiamo indicato come l’area della formazione personale.

 

 

  1. La terapia dell'allievo terapeuta familiare

 

E' un tema del tutto aperto quello della terapia personale dell'aspirante psicoterapeuta.

Alcune scuole rendono obbligatoria la psicoterapia dei loro allievi, magari con gli stessi didatti della scuola, pur consapevoli del rischio che un'esperienza, che per definizione può essere vissuta pienamente solo in quanto “scelta”, fondata cioè su una motivazione al cambiamento, rischia di essere affrontata quasi come un corso da frequentare o un esame da sostenere, pena il non conseguimento del titolo di studio.

Altre, invece, più orientate verso la risoluzione del sintomo che non verso la comprensione e correzione dei processi che contribuiscono alla sua genesi, mettono in discussione perfino l'opportunità di considerare una psicoterapia come parte integrante del percorso di formazione di uno psicoterapeuta.

Altre ancora - qui, sostanzialmente, si colloca per ora la nostra scuola - lasciano agli allievi la libertà di scegliere quando e dove intraprendere questo cammino, consigliandolo caldamente e lavorandoci perché il “consiglio” possa diventare, nel tempo, scelta personale.

Ma quale psicoterapia? Le diverse scuole tendono a dare agli allievi l'opportunità di percorrere quello stesso processo terapeutico lungo il quale dovranno poi fungere da guida ai pazienti che chiederanno il loro intervento. Le scuole di terapia familiare faticano ancora ad offrire un'esperienza di terapia familiare ai loro allievi: quell'esperienza dalla quale poter apprendere il significato di un percorso terapeutico che veda coinvolti tutti i membri del proprio mondo familiare. Non lontana dal vero ci pare l’ipotesi che all’origine di questa difficoltà due concause potrebbero essere presenti: la prima andrebbe collegata al fatto che la terapia familiare è ancora “troppo giovane” – almeno in Italia – e non dispone di terapeuti “anziani”, di terza/quarta generazione, disponibili a farsi carico di un lavoro di tanta mole (si consideri l’alto numero di allievi) e di altrettanta complessità; l’altra andrebbe ricercata, a nostro parere, in una non ancora sufficiente riflessione su possibili condizionamenti dovuti alle origini del movimento di terapia familiare che ha cercato la propria legittimazione come cura di fronte a patologie gravi e pesanti per le quali altri orientamenti clinici stavano fallendo. Una riflessione che ci aiuti a cogliere l’evoluzione della terapia familiare e la complessità del movimento permetterebbe una maggiore attenzione alla profondità del processo terapeutico che un buon lavoro con la famiglia d’origine può assicurare, non solo per i pazienti, più o meno “gravi”, ma anche per gli apprendisti-terapeuti.

 

 

II.
L'APPRENDIMENTO FAMILIARE
Famiglia d'origine e Gruppo di formazione: modelli a confronto

 

 

Venendo, così, a mancare un percorso terapeutico con la propria famiglia, il processo formativo di un terapeuta familiare si avvia, si costruisce e si sviluppa prevalentemente, quando non esclusivamente, all'interno di un gruppo di formazione.

Il primo apprendimento familiare (l'organizzazione reale e mentale della famiglia, i significati emozionali, ecc.) avviene nella FAMIGLIA D’ORIGINE. E' qui che apprendiamo il modello di famiglia: cosa significhi essere figlio ed essere fratello, cosa significhi essere padre o madre; qui apprendiamo pure cosa significhi essere coniuge e genitore.

E' nella famiglia che l'individuo, secondo modalità proprie alle diverse fasi di crescita, costruisce la sua identità: nell'immagine che i genitori gli riflettono egli impara a riconoscere sé stesso, a modellarsi nel costante confronto con lo specchio che essi gli mettono davanti. Vivendo l'appartenenza e sperimentando la possibilità di separarsi, procede per la strada dell'individuazione, con tutte le potenzialità e i limiti che la sua famiglia gli può offrire.

La famiglia si pone anche come il luogo dove ciascuno apprende la capacità di porsi in relazione con il mondo esterno e, in pari tempo, come “la scuola” dove costruire i valori di riferimento per le scelte che la vita chiamerà a fare lungo l'arco dell'esistenza.

E' un apprendimento arricchente e nello stesso tempo condizionante. La famiglia - diciamo - è “matrice di pensiero”.

E’ nella famiglia d’origine che ciascuno costruisce il modello di riferimento emozionale per ogni esperienza successiva sia sul piano personale che professionale. Sul piano personale è al modello appreso nella sua famiglia che l’individuo fa riferimento per le scelte significative della vita: nella scelta del partner, nella costruzione del proprio ruolo di marito/moglie, di genitore, ecc. (9). Sul piano professionale dobbiamo affermare che è quello stesso modello, quello appreso nella sua famiglia d’origine, che il terapeuta porta con sé quando entra in seduta ed è su questo e attraverso questo che guarda e sente la famiglia che gli è di fronte.

Il GRUPPO DI FORMAZIONE diventa, per il futuro terapeuta familiare, il luogo del secondo apprendimento familiare.

Questo avviene, a nostro parere, in due tempi, successivi l'uno all'altro sul piano logico, contemporanei, nel loro divenire, sul piano cronologico.

In un primo tempo l'allievo all'interno del gruppo, attraverso il lavoro che fa sulla propria famiglia, procede per ritrovare la sua famiglia e le sue regole; per ri-vederla e ri-conoscerla fino a portare a livelli di consapevolezza il modello interiorizzato, con la sua struttura e le sue regole.

In un secondo tempo egli viene stimolato a procedere per la ri-costruzio­ne di un modello familiare interno che possa integrare quello già acquisito negli anni come proprio. Integrarlo, non sostituirlo. Significa che la propria famiglia rimane comunque la base del suo modello familiare interno; l'esperienza nel gruppo di apprendimento permette di costruire nuove relazioni significative e quindi di fondare nuovi modelli relazionali [6].

Ciò avviene lungo i tre assi relazionali che definiscono la struttura familiare: quello dell’essere fratelli (asse 2°) - questa è la generazione cui l’allievo appartiene nella sua famiglia di origine -, attraverso le relazioni che è chiamato a giocare con gli altri allievi; quello dell’essere coppia (asse 1°) - l’immagine dei propri genitori, reali e interni -, attraverso le relazioni che giocano i didatti tra loro; il terzo è l’asse delle relazioni intergenerazionali: l’essere genitori / essere figli (asse 3°): il gruppo e i singoli allievi sono in relazione con i didatti, con ciascuno di loro e con loro in quanto coppia [7].

 

* * *

 

Collocandoli all’interno di quelli che abbiamo indicato come i due tempi che caratterizzano il percorso formativo, vogliamo accennarvi a tre strumenti particolari, come propri della nostra esperienza dell’ITF di Ancona, che riteniamo significativi per favorire e promuovere il percorso formativo degli allievi. Il primo (un lavoro scritto sulla famiglia d'origine che ciascun allievo fa a conclusione del 2° dei cinque anni di formazione) e il secondo (l’incontro diretto con la famiglia d’origine dell’allievo) si collocano in quello che abbiamo indicato come il tempo del ri-conoscimento del proprio modello familiare d’origine (1° tempo); il terzo, invece, va collocato in quello che abbiamo chiamato il tempo della ri-costruzione di un modello familiare diverso (2° tempo): esso fa riferimento alla conduzione del gruppo di formazione da parte della coppia dei didatti in compresenza.

 

 

1° tempo
IL RI-CONOSCIMENTO 
DEL PROPRIO MODELLO FAMILIARE D’ORIGINE

  

Sono diversi gli strumenti attraverso cui abitualmente lavoriamo, nella scuola Accademia, con la famiglia di origine degli allievi terapeuti. Tra questi, naturalmente, vanno evidenziati:

  1. a) il recupero della storia della propria famiglia (attraverso il racconto, le fotografie, i documenti vari, ecc.), il genogramma, la scultura di alcuni momenti più significativi;
  2. b) il riferimento costante alla famiglia d’origine dell’allievo nella clinica (= l’esperienza e l’intervento del terapeuta nell'incontro clinico vengono costantemente ricondotti al e confrontati con il suo modello interno di famiglia);
  3. c) intermedio a questi due momenti, cioè come un elemento che favorisce l'incontro e l'integrazione tra la propria storia e la clinica, noi collochiamo una duplice proposta che facciamo agli allievi: 1) un lavoro scritto, come tesi conclusiva del 2° anno di formazione, cui diamo per titolo “Un viaggio in famiglia” e 2) un incontro “reale” con la famiglia d’origine all’interno del percorso di formazione.

Proviamo ad illustrare brevemente queste due proposte.

 

 

  1. Un viaggio in famiglia

 

Il lavoro prende in considerazione la dimensione storica, almeno fino alla generazione dei nonni (nel senso della ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti), e le dimensioni affettiva e relazionale intra e intergenerazionali (nei vari sottosistemi: della coppia, di questa con le rispettive famiglie di origine, dei fratelli).

Il lavoro di ciascuno viene consegnato, oltre che ai didatti, a tutti gli allievi del gruppo di formazione. Ciascuno ha così a sua disposizione anche i lavori degli altri: dovrà leggerli e farci le sue considerazioni (scritte).

All’inizio del terzo anno, poi, alcune giornate intere, cui partecipano in compresenza anche i due didatti, sono dedicate all'analisi dei lavori e allo scambio delle osservazioni[8].

Sulle motivazioni che sottendono a questa nostra scelta nella costruzione e conduzione del percorso formativo, vogliamo dare ora tre indicazioni.

  1. Sul perché un lavoro sulla propria famiglia non intendiamo, in questa sede, aggiungere altro a quanto già detto sia sulla famiglia d’origine come modello di riferimento interno, sia sulla problematica di quale terapia per l’allievo terapeuta familiare.
  2. Sul perché un lavoro scritto sulla propria famiglia facciamo due considerazioni.

La prima. Crediamo sia esperienza condivisa come il dover scrivere costringe a pensare - e a sentire -, più di quanto non faccia il solo dover parlare. Scrivere spinge a cercare, a trovare quello che credevi perduto; fa fissare pensieri e sentimenti che altrimenti corrono e sfuggono; fa incontrare tante parole e tante sensazioni... E tra tutto questo devi scegliere: è significativo? perché? perché scrivo di questo momento e non di un altro? a quali parole affidare un ricordo, un pensiero, un'emozione? Ti accorgi del limite delle parole e nello stesso tempo della forza che possiedono. E la parola scritta diventa un punto fermo: un punto in cui senti di essere arrivato e un punto da cui senti che puoi ripartire. Allora senti, una volta che ne hai incontrato la forza, tutto il limite dello scrivere: ti accorgi che appena scritto, da lì devi ripartire, perché la vita continua, così come la storia, personale e familiare.

La seconda. Dover scrivere sulla famiglia d'origine diventa un invito a ri-entrarci: a prendere le tue cose e fare un viaggio nella tua storia, per scoprirla e riviverla. A trent'anni, quaranta, provi a ritrovare parti di te che credevi perdute. Ti dà il permesso di “interrogare” i tuoi parenti sulla storia condivisa, di ricucire, così, momenti e relazioni sfumati o anche scuciti, quando non anche sospesi o addirittura strappati.

  1. Sul perché un lavoro scritto in questo momento del percorso formativo.

Nella costituzione di un gruppo di formazione e nel suo percorso evolutivo possiamo cogliere alcuni momenti particolarmente significativi che ne cadenzano il ciclo vitale. Proprio nel modo in cui, parallelamente, possiamo guardare il processo evolutivo di una famiglia. Il corteggiamento, il matrimonio, la nascita dei figli / nascita dei genitori, il periodo centrale del matrimonio / adolescenza dei figli, l'emancipazione dei genitori dai figli e di questi dai genitori, il pensionamento, la vecchiaia e la morte sono fasi che costituiscono la storia anche di un gruppo di formazione.

L'insieme di questi momenti può essere considerato, a nostro parere, come appartenenti a due fasi, successive l'una all'altra.

In un primo tempo il bisogno di appartenere (appartenere alla scuola, appartenere al gruppo e, in senso più propriamente affettivo, sentirsi accolti, accettati) viene sentito come prioritario. Sostenuto all'inizio da tutta una ritualità (la domanda di iscrizione, la selezione, i documenti, le presentazioni) si sviluppa poi attraverso la costruzione delle relazioni che permettono il conoscere e il farsi conoscere. In questo periodo il gruppo si costituisce e costruisce una propria identità che è il risultato dell'apporto di ciascuno, allievi e didatti. Questa fase del ciclo vitale diventa fondamentale nell'evoluzione di un gruppo: se sufficientemente buona, il gruppo potrà diventare il luogo di contenimento per l'allievo in formazione.

In un secondo tempo, una volta consolidata l'appartenenza, il gruppo diventa la base sicura (8) a) dalla quale partire per incontrare la propria famiglia senza il timore di potercisi “perdere” e b) alla quale poter ritornare con quanto si è ri-trovato e ri-preso della propria storia.

La condivisione del lavoro con gli altri allievi, anche essi reduci dal medesimo viaggio, e con i didatti come “genitori affidatari” permette di potenziare quel processo di trasformazione di ciò che prima poteva essere non-pensabile e non-dicibile e che ora può essere pensato e detto, quindi, in quanto consapevole, metabolizzato (5). La famiglia d'origine del futuro terapeuta familiare, in quanto modello di riferimento con il quale egli si dovrà sempre e comunque misurare, può consolidare quel processo di trasformazione degli elementi-zavorra in elementi-àncora, procedere, cioè, verso la trasformazione da famiglia-handicap a famiglia-risorsa (1).

 

 

  1. L’incontro con la famiglia d’origine

 

E’ questa una novità piuttosto recente che abbiamo introdotto nei gruppi di formazione: il primo gruppo con il quale abbiamo iniziato ha cominciato il suo training nel 1997. E’ partita come una sfida con noi stessi: ci dicevamo che sarebbe stato bello, ma soprattutto un’esperienza forte, poter offrire agli allievi l’opportunità di incontrare la propria famiglia in una situazione contenitiva, diciamo “protetta”. Alcuni allievi sono stati più coraggiosi di noi e l’hanno presa sul serio! L’allieva che prima in assoluto ha accolto la nostra proposta ci ha portato solo i fratelli: portare i genitori sarebbe stato troppo per lei… poi hanno cominciato ad osare sempre di più ed ora nei gruppi c’è un calendario che gli allievi usano per prenotare l’incontro con la propria famiglia.

Una cosa da dire è che a differenza della tesina sul Viaggio in famiglia, che è parte integrante del percorso formativo, al momento l’incontro con la famiglia non è “obbligatorio”: non ci convince l’idea di costringere un allievo a portare la sua famiglia se non sente che questa è un’opportunità che può offrire a sé stesso prima e, nello stesso tempo, ai suoi familiari.

La struttura organizzativa dell’incontro prevede tre momenti. Questi vanno visti all’interno di quel pensiero, già indicato, che guida il nostro lavoro: il processo formativo è anche un incontro tra le due famiglie dell’allievo[9]: la famiglia d’origine (che abbiamo indicato sopra come il luogo del primo apprendimento familiare) e il gruppo di formazione (il luogo del secondo apprendimento familiare).

Il primo momento. Prima dell’orario fissato per l’appuntamento l’allievo è invitato a dire ai didatti (questi sono ambedue presenti) e al gruppo quali sono le sue aspettative per questa occasione e cosa gli piacerebbe trovarci, per sé e per i suoi.

Il secondo. All’ora dell’appuntamento la famiglia viene invitata ad entrare nella stanza di lavoro del gruppo: qui gruppo e famiglia si incontrano per una rapida presentazione; i didatti spiegano il setting dicendo alla famiglia che gli allievi che vedono, che sono i compagni di corso del/la loro figlio/a, seguiranno l’incontro dietro lo specchio unidirezionale; facciamo loro vedere la stanza di osservazione poi iniziamo la “seduta”. Dopo la seduta, la cui durata va tra un’ora e un’ora e mezza, famiglia e gruppo si incontrano di nuovo per scambiarsi delle osservazioni, quando ce ne sono, e per salutarsi.

Una volta salutata la famiglia, il gruppo lavora sulla seduta (terzo momento): ciascuno è invitato a restituire al/la proprio/a compagno/a di corso quelle osservazioni, considerazioni ed emozioni che ritiene di poter condividere in quel momento.

 

Alcune considerazioni importanti.

La prima in assoluto è che, pur avendo chiamato l’incontro con la famiglia “seduta”, questa viene condotta con un assunto di base: la famiglia che incontriamo è “una famiglia normale” e questa percezione di normalità deve essere rispettata. Certo, il lavoro che ciascuno di noi fa nel ri-pensare la propria storia familiare ci aiuta a cogliere anche quegli aspetti disfunzionali dai quali neanche le famiglie dei terapeuti familiari sono, per una qualche grazia del cielo, esentate! Ma questo è un lavoro che fa l’allievo con sé stesso e non può coinvolgere, a meno di una richiesta esplicita e condivisa in tal senso, gli altri membri della sua famiglia; tanto meno è lecito farlo se questo dovesse avvenire alle spalle di altri non consapevoli (genitori, fratelli, nonni…). Qui è la competenza dei didatti a dover garantire l’etica dell’incontro. Può sembrare paradossale l’osservazione: da una parte è proprio la competenza professionale che affina la capacità di cogliere quegli elementi disfunzionanti che sono alla base della sofferenza personale e familiare delle persone; quindi anche nell’incontro con la famiglia dell’allievo il didatta porta quello sguardo che gli permette di vedere oltre le apparenze e di cogliere anche sofferenze non dette. Ma è proprio a questa competenza che il didatta deve attingere per rispettare l’immagine di sé che la famiglia e i suoi membri si sono costruita e che non chiedono affatto di essere aiutati – peggio ancora “costretti” – a cambiare. Questo ci pare un punto fondamentale: se non venisse rispettato, saremmo fuori dalla nostra etica professionale [e personale].

Un’altra considerazione. L’incontro con l’allievo e la sua famiglia è condotto in compresenza da ambedue i didatti. Questo aspetto sarà meglio affrontato nelle pagine che seguono quando parleremo della conduzione del gruppo; per ora ci pare importante sottolineare che la presenza di tutti e due i didatti che curano la formazione sta a significare, anche sul piano della pragmatica della comunicazione, che è “come se” i genitori reali – quelli che hanno curato la nascita/crescita di questo figlio – ora possono riconoscere una sorta di “affidamento” di questo figlio ad altri “genitori” che ne cureranno la nascita/crescita professionale. Per i due didatti l’essere presenti insieme significa, anche per loro stessi, vedersi riconosciuti e riconoscersi reciprocamente in una relazione di “coppia genitoriale” dove, quindi, anche le relazioni che giocano tra loro sono significative per la crescita/formazione dell’allievo.

Abbiamo parlato sopra dell’ipotesi di offrire agli allievi in formazione la possibilità di fare essi stessi una terapia con la propria famiglia; attenzione: un incontro di questo genere non è proprio da vedere come un tentativo o un inizio di terapia familiare! La questione che ci siamo posti sopra rimane, quindi, assolutamente tutta aperta.

Un’ultima osservazione. Usufruire di questa opportunità è per l’allievo un’occasione per ri-trovare la sua famiglia - e sé stesso all’interno di essa - in un contesto nuovo, dove può vedere e sentire l’immagine che i suoi hanno di lui; la presenza dei didatti [e del gruppo di formazione] facilita il fluire di immagini e di emozioni che la famiglia da sola potrebbe non essere in grado di contenere.

La videoregistrazione dell’incontro è a disposizione dell’allievo. Il tempo dell’incontro è scelto dall’allievo: dal primo al quinto anno il tempo opportuno è quello che l’allievo sente buono per sé.

 

 

2° tempo
RI-COSTRUZIONE DI UN MODELLO FAMILIARE INTERNO

La compresenza della coppia dei didatti[10]

 

 

Il modello interiorizzato di coppia

 

La conduzione di un gruppo di formazione in compresenza da parte della coppia di didatti si pone l'obiettivo di proporre all'allievo come un modello di funzionamento. L'allievo è chiamato ad entrare in una contesto relazionale in grado di operare una sorta di medicazione di conflitti e ferite accumulate nel tempo e di costituire un luogo dove accedere alla possibilità di fantasmatizzare e di pensare (= rendere pensabile) il proprio modello di famiglia e di coppia genitoriale/coniugale.

La compresenza dei didatti attiva un sistema relazionale di apprendimento assai più potente rispetto alla sola presenza dell'uno o dell'altro che si alternano.

Il piccolo dell'uomo, relazionandosi ai genitori come individui - cioè come padre e come madre - spinto dalla sua normale curiosità, non riconosce il legame tra i genitori: lui si muove nell'idea di un possesso unico e totale sia del padre che della madre. Solo successivamente egli inizia ad avvertire che c'è una relazione tra i genitori e che ci sono delle differenze tra questa e la relazione tra il singolo genitore e lui.

Le difficoltà del bambino di accettare nel suo mondo interno che i genitori vivano una relazione privilegiata e significativa con lui e in pari tempo condividano uno spazio privilegiato di coppia dal quale egli è escluso (= al quale non appartiene) si misura, nel gruppo di apprendimento, con la realtà nuova che porta la presenza di una coppia, quella dei didatti, che gioca relazioni proprie.

In queste relazioni l'allievo sente che non è chiamato ad entrare, perché non gli appartengono. Contemporaneamente, però, si sente rassicurato perché questa coppia, che pure lo esclude da spazi propri, si prende cura di lui sia come coppia che come singoli “genitori”.

In questo contesto appaiono, a nostro parere, assai significative le dinamiche relazionali che operano all'interno della coppia dei didatti.

L'allievo apprende (nel senso Bioniano di apprendere dall'esperien­za, non nel senso di apprendimento scolastico-concettuale) che la “coppia genitoriale” può vivere una relazione fatta di accordi e disaccordi, di conferme e contestazioni, di funzioni e capacità di apporto differenziate rispetto agli obiettivi del sistema (in questo caso: la formazione di psicoterapeuti), ma nel contempo reciprocamente integrantisi. Apprende soprattutto - sempre che le relazioni di questa coppia lo permettano (!) - che può appartenere senza per questo dover pagare il biglietto della triangolazione, necessaria alla sopravvivenza della coppia, che nella famiglia di origine, con buona probabilità, si è sentito chiamato a giocare.

 

 

La relazione coppia-dei-didatti / allievi

 

Se è vero che l'essere umano può procedere verso la propria individuazione attraversando le aree della appartenenza e della separazione, anche nella sua dimensione professionale possiamo ipotizzare un percorso analogo.

In una famiglia sufficientemente sana ogni soggetto, nel suo percorso evolutivo di bambino, di adolescente e di giovane adulto, costruisce la propria individualità rispetto alla massa indifferenziata dell'io familiare (6) cui appartiene all'inizio della sua storia, attraverso l'interazione costante tra queste due istanze. La funzione dei genitori, nella fattispecie, è quella di supportare, differenziandosi, queste due forze propulsive: diciamo, in genere, che propria della funzione materna è l'istanza di appartenenza e propria della funzione paterna è l'istanza di separazione [11]. I genitori possono giocare queste funzioni in modo “sano” se possono dirsi che la loro sopravvivenza come individui non dipende dalla presenza dei figli: se, cioè, nel nostro linguaggio, accanto alla dimensione genitoriale essi sono in grado di condividere anche una dimensione coniugale.

Noi ipotizziamo che la funzione del gruppo di formazione sia analoga, con in più il compito di permettere l'apprendimento di una modalità relazionale riparatoria rispetto a quella appresa nella famiglia d’origine.

Sul piano relazionale, il processo di appartenenza si gioca attraverso la messa in campo delle dinamiche identificatorie (identificazione e controidentificazione proiettiva) e delle potenzialità sé-duttive che ciascuno ha acquisito e sviluppato nel corso della sua storia. I didatti diventano il luogo di proiezione del “genitore ideale”, un po’ come avviene nella relazione terapeutica. I didatti sono buoni e bravi, i migliori sul mercato... (e i didatti, da parte loro, ce la mettono tutta per sostenere questo processo, ciascuno con le modalità che gli sono proprie: da chi si propone sfoderando tutte le sue abilità da primadonna a chi si presenta con tutta le riservatezza e modestia che fa tanto richiamo verso la scoperta) così come gli allievi diventano i più belli e i più bravi per i loro didatti! (8)

Diciamo questo, senza perdere di vista, tuttavia, che nella realtà non tutti riescono a fare facilmente questa parte del percorso. C'è sempre qualcuno che vive l'appartenenza come perdita di sé. La sua esperienza di figlio gli ha insegnato che se appartiene non può più uscirne o, d'altro canto, che per lui non c'è posto nel gruppo di appartenenza. I conti sospesi con un padre deludente, perché troppo assente o poco attento ai suoi richiami di figlio/a, per esempio, o con una madre poco affettiva, quindi scarsamente contenitiva, diventano un grosso ostacolo a potersi dare il permesso di entrare nel gruppo; un ostacolo a potersi affidare al didatta nel lavoro di gruppo o al didatta-supervisore quando, come terapeuta-allievo, incontra una famiglia...

E' necessario appartenere dunque; ma appartenere per poi separarsi. E' in questo gioco di relazioni che si può costruire la propria identità professionale.

QUI crediamo debba giocare la sua funzione la COPPIA dei didatti. Nella duplice dimensione a) di coppia “genitoriale” nella relazione con gli allievi (relazione inter-generazionale – asse 3°) e b) di coppia “coniugale” nella relazione al proprio interno (relazione intra-generazionale – asse 1°).

Anche il didatta porta con sé la sua storia familiare; anche egli viene da una famiglia presumibilmente non così ideale... anche in considerazione della scelta professionale doppiamente riparatoria (si può dire così?), come terapeuta prima e come didatta poi (magari anche per riparare la relazione allievo-didatta vissuta come non sufficientemente buona). Nulla gli garantisce l'immunità dall'entrare nel gioco collusivo delle seduzioni, o delle esclusioni, che l'uno o l'altro degli allievi gli propongono.

In un lavoro fatto per un convegno sul padre qualche tempo fa (10), abbiamo avuto l'occasione di riflettere sulla funzione che questi deve svolgere come partner verso la sua donna: il compito di richiamarla all'appartenenza di coppia, perché non si perda nel legame materno [12]. Con un parallelismo, sia pure semplificatorio, ma utile per il contributo di chiarezza che può dare, possiamo ricordare qui come al compito paterno corrisponda un compito materno che è quello di richiamare il suo uomo all'appartenenza di coppia nella duplice dimensione, questa volta, di coniuge e di genitore.

Continuando nel parallelismo: la funzione di vigilanza (= controllo) di un didatta nei confronti dell'altro, accanto a quella di stimolo (= aiuto) pure da giocare nella reciprocità, appaiono sostanziali per favorire la costruzione di un gruppo (sistema) di apprendimento sufficientemente aperto. I due didatti, come coppia “coniugale” hanno il compito di favorire la fluidità della dinamica appartenenza-separazione, per evitare che gli allievi, o qualche allievo, rimangano congelati sull'uscio, senza potersi permettere di entrare e trovare nel gruppo di formazione un luogo di contenimento atto a favorire il processo di formazione, o per evitare, più frequentemente, che restino intrappolati nelle maglie dell’appartenenza.

Come nelle relazioni familiari le funzioni paterna e materna richiedono ad ambedue i genitori la capacità di accoglierle ed esercitarle, anche al di là dell'identità di genere, così nelle relazioni del sistema coppia-di-didatti-e-allievi ambedue i didatti dovranno sviluppare la capacità di permettere il processo di appartenenza e il processo di separazione, sostenendosi reciprocamente nel costruire una membrana di coppia (11) e una membrana gruppale con livelli di permeabilità sufficientemente elastici, tali da permettere agli allievi di entrarvi (per sentirsi accolti e contenuti) e di uscirne (per individuare un'identità professionale propria).

Noi riteniamo che questo processo sia molto più forte se i didatti possono permettersi di giocarlo attraverso la compresenza nel gruppo, parallelamente alla maggiore forza che porta la presenza di due coterapeuti in un processo terapeutico (con le famiglie e, soprattutto, con le coppie).

 

CONCLUSIONI

 

Abbiamo provato a delineare alcuni pensieri che sottostanno all’ipotesi di fondo che ci guida nel nostro lavoro di didatti. L’incontro tra la famiglia interna dell’allievo e il gruppo di formazione è un incontro tra modelli familiari/relazionali, incontro che, man mano, diventa confronto e attiva, in pari tempo, un processo di integrazione. La consapevolezza di partecipare ad un’esperienza formativa che entri così in profondità nel mondo interno delle persone ci fa sentire la responsabilità e il fascino di questo lavoro. E’ un’esperienza alla cui costruzione didatti e allievi portano il loro contributo: come ogni famiglia costruisce sé stessa attraverso l’incontro e – se il processo evolutivo prevale sulle spinte involutive – attraverso l’integrazione dei modelli che ciascun partner porta con sé e propone all’altro, così nel gruppo di formazione il risultato finale è dato dalla maggiore o minore integrazione tra i modelli che allievi e didatti reciprocamente si propongono… è questo che fa sì che ogni gruppo ha la sua storia che diventa unica rispetto a quella di ogni altro. In questo processo di apprendimento dall’esperienza il maggior livello di consapevolezza che i didatti “per definizione” portano, riteniamo debba diventare richiamo e spinta evolutiva per la capacità elaborativa (funzione alfa?) degli allievi.

Per concludere ci vengono in soccorso queste parole di Bion: “I metodi presentati in queste pagine non sono definitivi. Anche quando mi sono accorto che erano inadeguati, non sempre sono stato in grado di sostituirli con qualcosa di migliore. In questo mi sono trovato nella situazione dello scienziato che, consapevole che una teoria è sbagliata, seguita tuttavia a farvi ricorso perché non ne ha scoperta una più adeguata con cui sostituirla” (5).

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

  1. Andolfi M., “L’handicap dello studente come strumento di formazione”, in La formazione relazionale, ITF, Roma, 1985
  2. Andolfi M., “Accademia di psicoterapia della famiglia”, in Gurman A. e Kniskern D (a cura di), Manuale di terapia della famiglia, Bollati-Boringhieri, Torino, 1995
  3. Andolfi M., “Come restituire competenza alle famiglie: un itinerario formativo difficile”, Terapia Familiare n. 52/1996
  4. Bion W.R., Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971
  5. Bion W.R., Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972
  6. Bowen M., Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma, 1979
  7. Bowlby, Una base sicura, Cortina, Milano, 1989
  8. Cardinali F., Guidi G., “Supervisione e terapia. Due processi paralleli. La relazione di supervisione: analisi delle collusività”, Terapia familiare n. 26/1988
  9. Cardinali F., Guidi G., “La coppia in crisi di gravidanza. Sulla necessità di ripensare l’intervento istituzionale”, Terapia Familiare n. 38/92
  10. Cardinali F., "Ruolo del padre in situazioni di gravi difficoltà", in Atti del Convegno “Essere padre oggi”, Senigallia, 1993
  11. Dicks H.V., “Il matrimonio collusivo e i confini dell’ego” in Cigoli V. (a cura di). Terapia familiare. L’orientamento psicoanalitico, Angeli, Milano, 1983
  12. Herrigel E., Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi, Milano, 1975
  13. Nicolò Corigliano A.M., “Le emozioni del terapista nella relazione terapeutica ed in supervisione”, in Andolfi M., Piccone D. (a cura di), La formazione relazionale, ITF, Roma 1985
  14. Withaker C., Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia, Astrolabio, Roma, 1980

 

Questo lavoro è pubblicato in
M. Andolfi e V. Cigoli (a cura di), LA FAMIGLIA D'ORIGINE, L'incontro in psicoterapia e nella formazione, F. Angeli, 2003


 

[1] F. Cardinali, direttore; G. Guidi, direttrice della didattica - Istituto di Terapia Familiare, Ancona.

[2] I corsivi sono nostri.

[3] Usiamo qui genericamente l’espressione “fare terapia” senza voler considerare la distinzione di C. Withaker tra “fare terapia” e “essere terapeuta”.

[4] Ci rendiamo conto della stringatezza eccessiva con cui stiamo esprimendo questi pensieri; ma il voler approfondire in questa sede ci porterebbe troppo lontano dal tema principale di questo intervento.

[5] In realtà dovremmo dire “ogni nostra azione”, ma ci limitiamo qui al campo professionale.

[6] Per completare il parallelismo: se la famiglia d’origine è il luogo della prima costruzione della propria identità come individuo, il gruppo di formazione è anche il luogo della prima costruzione dell'identità professionale del futuro terapeuta.

[7] Nel modello che proponiamo il gruppo è condotto da una coppia di didatti in compresenza (V. sotto).

[8] Questa modalità è in realtà una costante che seguiamo per i lavori scritti (tesina) che facciamo fare a conclusione di ogni anno di corso.

[9] In queste pagine usiamo come una costante l’immagine della famiglia (struttura, ruoli, funzioni e relazioni) per parlare del gruppo di formazione. In altre occasioni abbiamo incontrato colleghi che arricciano il naso di fronte ad un tale uso, sia pure chiaramente metaforico, per descrivere le relazioni didattiche (e terapeutiche). Ricordandoci che la metafora è solo un’immagine che permette di avvicinarsi alla realtà per rappresentarne aspetti particolari, noi continuiamo ad usarle, dichiarando la nostra incapacità nel trovare immagini che veicolino con altrettanta intensità e chiarezza la forza emozionale che le metafore attinte al mondo della famiglia sono in grado di proporre.

[10] Se il suono in italiano non fosse tanto male, useremmo la parola co-didattica per rendere il parallelo con la parola coterapia, perché sostanzialmente di questo si tratta. In pratica la conduzione dei gruppi viene fatta in compresenza dai due didatti per un buon 80 % degli incontri; per il rimanente 20 % ciascun didatta lavora con il gruppo da solo.

[11] Parliamo di "funzione" paterna e materna, non di padre o madre semplicemente, in quanto sia l'uno che l'altro possono supportare, in tempi e modalità differenti, sia l'una che l'altra funzione in una relazione complementare e non rigida.

[12] Questa funzione, in realtà, altro non è che, sul versante della relazione di coppia, quella che, come genitore, svolge in quanto luogo privilegiato dell'istanza di separazione. Specifico della funzione paterna è il compito di portare la legge nelle relazioni familiari: la legge della proibizione dell'incesto.