Famiglia d'origine e gruppo di formazione nel percorso formativo dello psicoterapeuta
Un'ipotesi di lavoro

 

F. Cardinali e G. Guidi, LA FAMIGLIA D'ORIGINE NELLA TERAPIA FAMILIARE - Todi, 23-25 giugno 2000

PREMESSE

 

La prima: le radici del fare.

 

Una domanda che accompagna sempre l’inizio – non solo l’inizio! - di un Corso di formazione è “come fare?” o “cosa fare in una data situazione?”. L’ipotesi da cui partiamo è che il FARE (F) è sempre e comunque risultato dell'interazione tra il PENSARE (P) e il SENTIRE (S): esso ne è l'aspetto evidente e rivelatore, potremmo dire l'aspetto "sintomatico". Il pensiero e il mondo emozionale, cioè, ne sono le radici.

Se F, il fare terapeutico, nasce da un buon processo di integrazione tra le due aree P e S, diventa comportamento consapevole e, come tale, contenitore e sicuro alleato della spinta evolutiva che appartiene ad ogni individuo e ad ogni gruppo familiare.
Quando le aree P e S non accedono ai livelli di consapevolezza, come forze propulsive esse spingono ad una azione (F) cui poi vengono attribuiti significati che in realtà non le appartengono. L'azione diventa, allora, non più intervento terapeutico, ma agito (acting out) inconsapevole e, come tale, ad alto rischio di collusione con elementi e spinte involutive (pure esse presenti in ogni individuo e in ogni gruppo familiare).
Pur con tutti i rischi di fare un'operazione riduzionistica, riteniamo di poter collocare il tema di questo intervento sulle interazioni tra famiglia d’origine e gruppo di formazione nell'area del SENTIRE, l'area della formazione personale.

 


La seconda:
 la terapia dell'allievo-terapeuta familiare

 

E' un tema del tutto aperto quello della terapia personale dell'aspirante psicoterapeuta.
Alcune scuole rendono "obbligatoria" la psicoterapia dei loro allievi, magari con gli stessi didatti della scuola, pur consapevoli del rischio che un'esperienza, che per definizione può essere vissuta pienamente solo in quanto "scelta" (fondata cioè su una motivazione al cambiamento), rischia di essere affrontata quasi come un corso da frequentare o un esame da sostenere, pena il non conseguimento del titolo di studio.
Altre, invece, più orientate verso la risoluzione del sintomo che non verso la comprensione e correzione dei processi che contribuiscono alla sua genesi, mettono in discussione perfino l'opportunità di considerare una psicoterapia come parte integrante del percorso di formazione di uno psicoterapeuta. 
Altre ancora - qui, sostanzialmente, si colloca per ora la nostra scuola - lasciano agli allievi la libertà di scegliere quando e dove intraprendere questo cammino, consigliandolo caldamente e lavorandoci perché il "consiglio" possa diventare, nel tempo, scelta personale.

Ma quale psicoterapia? Le diverse scuole tendono a dare agli allievi l'opportunità di percorrere quello stesso processo terapeutico lungo il quale dovranno poi fungere da guida ai pazienti che chiederanno il loro intervento. Le scuole di terapia familiare faticano ancora ad offrire un'esperienza di terapia familiare ai loro allievi: quell'esperienza dalla quale poter apprendere il significato di un percorso terapeutico che veda coinvolti tutti i membri del proprio mondo familiare. (In un’altra occasione – se non sbaglio dovrebbe essere stato nel primo convegno dei didatti dell’Accademia cinque anni fa – Maurizio notava che come terapeuti familiari siamo ancora “troppo giovani” per una proposta di questo genere. Sarà sicuramente un discorso da riprendere...)

 

L'APPRENDIMENTO FAMILIARE:

famiglia d'origine e gruppo di formazione

 

Venendo, così, a mancare un percorso terapeutico con la propria famiglia, il processo formativo di un terapeuta familiare si avvia, si costruisce e si sviluppa prevalentemente, quando non esclusivamente, all'interno di un gruppo di formazione. (Che la scuola “Accademia” si caratterizza per il lavoro di formazione rispetto alla famiglia d’origine degli allievi è un fatto noto a tutti e da tutti riconosciuto).

Il primo apprendimento familiare (l'organizzazione reale e mentale della famiglia, i significati emozionali, ...) avviene nella FAMIGLIA DI ORIGINE. E' qui che apprendiamo il modello di famiglia: cosa significhi essere figlio, cosa significhi essere padre o madre; qui apprendiamo pure cosa significhi essere coniuge e genitore.
E' nella famiglia che l'individuo, secondo modalità proprie alle diverse fasi di crescita, costruisce la sua identità: nell'immagine che i genitori gli riflettono egli impara a riconoscere sé stesso, a modellarsi nel costante confronto con lo specchio che essi gli mettono davanti. Vivendo l'appartenenza e sperimentando la possibilità di separarsi, procede per la strada dell'individuazione, con tutte le potenzialità e i limiti che la sua famiglia gli può offrire.
La famiglia si pone anche come il luogo dove ciascuno apprende la capacità di porsi in relazione con il mondo esterno e, in pari tempo, come la "scuola" dove costruire i valori di riferimento per le scelte che la vita chiamerà a fare lungo l'arco dell'esistenza.
E' un apprendimento arricchente e nello stesso tempo condizionante. La famiglia - diciamo - è "matrice di pensiero".

Il GRUPPO DI FORMAZIONE diventa, per il futuro terapeuta familiare, il luogo del secondo apprendimento familiare.

Questo avviene, a mio parere, in due tempi: successivi l'uno all'altro sul piano logico, contemporanei nel loro divenire sul piano cronologico.
In un primo tempo l'allievo all'interno del gruppo, attraverso il lavoro che fa sulla propria famiglia, procede per ritrovare la sua famiglia e le sue regole; per ri-vederla e ri-conoscerla fino a portare a livelli di consapevolezza il modello interiorizzato, con la sua struttura e le sue regole.
In un secondo tempo egli viene stimolato a procedere per la ri-costruzione di un modello familiare interno che possa integrare quello già acquisito negli anni come proprio. Integrarlo, non sostituirlo. Significa che la propria famiglia rimane comunque la base del suo modello familiare interno; l'esperienza nel gruppo di apprendimento permette di costruire nuove relazioni significative e quindi di fondare nuovi modelli relazionali [1].

Ciò avviene
a) al livello della generazione dei figli/fratelli (= la generazione cui appartiene nella sua famiglia di origine), attraverso le relazioni che è chiamato a giocare con gli altri allievi;
b) al livello della generazione dei genitori/coniugi (= dei propri genitori, reali e interni), attraverso le relazioni che giocano i didatti tra loro;
c) al livello delle relazioni intergenerazionali: il gruppo e i singoli allievi sono in relazione con i didatti, con ciascuno di essi e con loro in quanto coppia.

 

* * *

 

Collocandoli all’interno di quelli che abbiamo indicato come i due tempi che caratterizzano il percorso formativo, vogliamo accennarvi a due strumenti particolari, come specifici della nostra esperienza dell’ITF di Ancona, che riteniamo significativi per favorire e promuovere il percorso formativo degli allievi. 

1. Il primo si colloca in quello che abbiamo indicato come il tempo del ri-conoscimento del proprio modello familiare d’origine: esso è un lavoro scritto sulla famiglia d'origine che ciascun allievo fa a conclusione del 2° dei cinque anni di formazione;
2. Il secondo va collocato, invece, in quello che abbiamo chiamato il tempo della ri-costruzione di un modello familiare diverso: esso è la conduzione del gruppo di formazione da parte della coppia dei didatti in compresenza.

 


1° tempo
IL RI-CONOSCIMENTO DEL PROPRIO MODELLO FAMILIARE D’ORIGINE

 

Un viaggio in famiglia

 Sono diversi gli strumenti attraverso cui abitualmente lavoriamo, nella nostra scuola, con la famiglia di origine degli allievi terapeuti. Tra questi, naturalmente, vanno evidenziati:
a) il recupero della storia della propria famiglia (racconto, fotografie, documenti, ...); il genogramma; la scultura di alcuni momenti più significativi;
c) il riferimento costante alla famiglia di origine nella clinica (= ciò che il terapeuta coglie/non coglie nell'incontro clinico viene costantemente ricondotto al suo modello interno di famiglia) [2].
b) Intermedio a questi due momenti, cioè come un elemento che favorisce l'incontro e l'integrazione tra la propria storia e la clinica, noi collochiamo, al punto b), un lavoro scritto, come tesi conclusiva del 2° anno di formazione, cui diamo per titolo "Viaggio all'interno della mia famiglia".
Il lavoro prende in considerazione la dimensione storica, almeno fino alla generazione dei nonni (nel senso della ricostruzione dei fatti e degli avvenimenti), e le dimensioni affettiva e relazionale intra e intergenerazionali (nei vari sottosistemi: della coppia, di questa con le rispettive famiglie di origine, dei fratelli).
Nei primi mesi del 3° anno il lavoro di ciascuno viene consegnato, oltre che ai didatti, a tutti gli allievi del gruppo di formazione. Ciascuno ha così a sua disposizione anche i lavori degli altri: dovrà leggerli e farci le sue considerazioni (scritte). Nel corso dell'anno, poi, alcune giornate intere, cui partecipano in compresenza anche i due didatti, sono dedicate all'analisi dei lavori e allo scambio delle osservazioni [3].

Sulle motivazioni che sottendono a questa nostra scelta nella costruzione e conduzione del percorso formativo, voglio dare ora tre indicazioni.
1. Sul "perché un lavoro sulla propria famiglia" non mi fermo: credo non ci sia molto da aggiungere, almeno per ora, a quanto già abbiamo maturato nella nostra scuola (ITF prima a APF poi) in tutti questi anni di lavoro e a quanto ci siamo detti in questi giornate di studio.
2. Sul "perché un lavoro scritto sulla propria famiglia" faccio due considerazioni.
La prima. Credo sia esperienza condivisa come il dover scrivere costringe a pensare - e a sentire -, più di quanto non faccia il solo dover parlare. Scrivere spinge a cercare, a trovare quello che credevi perduto; fa fissare pensieri e sentimenti che altrimenti corrono e sfuggono; fa incontrare tante parole e tante sensazioni... E tra tutto questo devi scegliere: è significativo? perché? perché scrivo di questo momento e non di un altro? a quali parole affidare un ricordo, un pensiero, un'emozione? Ti accorgi del limite delle parole e nello stesso tempo della forza che possiedono. E la parola scritta diventa un punto fermo: un punto in cui senti di essere arrivato e un punto da cui senti che puoi ripartire. Allora senti, una volta che ne hai incontrato la forza, tutto il limite dello scrivere: ti accorgi che appena scritto, da lì devi ripartire, perché la vita continua, così come la storia, personale e familiare.
La seconda. Dover scrivere sulla famiglia d'origine diventa un invito a ri-entrarci: a prendere le tue cose e fare un viaggio nella tua storia, per scoprirla e riviverla. A trent'anni, quaranta, provi a ritrovare parti di te che credevi perdute. Ti dà il permesso di "interrogare" i tuoi parenti sulla storia condivisa, di ricucire, così, momenti e relazioni sfumati o anche scuciti, quando non anche sospesi o addirittura strappati
3. Sul perché un lavoro scritto in questo momento del percorso formativo.
Nella costituzione di un gruppo di formazione e nel suo percorso evolutivo possiamo cogliere alcuni momenti particolarmente significativi che ne cadenzano il ciclo vitale. Proprio nel modo in cui, parallelamente, possiamo guardare il processo evolutivo di una famiglia. Il corteggiamento, il matrimonio, la nascita dei figli / nascita dei genitori, il periodo centrale del matrimonio / adolescenza dei figli, l'emancipazione dei genitori dai figli e di questi dai genitori, il pensionamento, la vecchiaia e la morte sono fasi che costituiscono la storia anche di un gruppo di formazione.

L'insieme di questi momenti può essere considerato, a mio parere, come appartenenti a due fasi, successive l'una all'altra.
In un primo tempo il bisogno di appartenere (appartenere alla scuola, appartenere al gruppo e, in senso più propriamente affettivo, sentirsi accolti, accettati) viene sentito come prioritario. Sostenuto all'inizio da tutta una ritualità (la domanda di iscrizione, la selezione, i documenti, le presentazioni) si sviluppa poi attraverso la costruzione delle relazioni che permettono il conoscere e il farsi conoscere. In questo periodo il gruppo si costituisce e costruisce una propria identità che è il risultato dell'apporto di ciascuno, allievi e didatti. Questa fase del ciclo vitale diventa fondamentale nell'evoluzione di un gruppo: se "sufficientemente buona", il gruppo potrà diventare il luogo di contenimento per l'allievo in formazione.
In un secondo tempo, una volta consolidata l'appartenenza, il gruppo diventa la "base sicura" (Bowlby) a) dalla quale partire per incontrare la propria famiglia senza il timore di potercisi "perdere" e b) alla quale poter ritornare con quanto si è ri-trovato e ri-preso della propria storia.

La condivisione del lavoro con gli altri allievi, anche essi reduci dal medesimo viaggio, e con i didatti come "genitori affidatari" permette di potenziare quel processo di trasformazione di ciò che prima poteva essere non-pensabile e non-dicibile e che ora può essere pensato e detto, quindi, in quanto consapevole, metabolizzato (Bion). La famiglia d'origine del futuro terapeuta familiare, in quanto modello di riferimento con il quale egli si dovrà sempre e comunque misurare, può consolidare quel processo di trasformazione degli elementi-zavorra in elementi-àncora, procedere, cioè, verso la trasformazione da famiglia-handicap a famiglia-risorsa (Andolfi).

 

2° tempo
RI-COSTRUZIONE DI UN MODELLO FAMILIARE INTERNO


La compresenza della coppia dei didatti [4]


Il modello interiorizzato di coppia

La conduzione di un gruppo di formazione in compresenza da parte della coppia di didatti si pone l'obiettivo di proporre all'allievo come un modello di funzionamento. L'allievo è chiamato ad entrare in una contesto relazionale in grado di operare una sorta di medicazione di conflitti e ferite accumulate nel tempo e di costituire un luogo dove accedere alla possibilità di fantasmatizzare e di pensare (rendere pensabile) il proprio modello di coppia genitoriale (e di coppia coniugale).
La compresenza dei didatti attiva un sistema relazionale di apprendimento assai più potente rispetto alla sola presenza dell'uno o dell'altro che si alternano.

Il piccolo dell'uomo, relazionandosi ai genitori come individui - cioè come padre e come madre - spinto dalla sua normale curiosità, non riconosce il legame tra i genitori: lui si muove nell'idea di un possesso unico e totale sia del padre che della madre. Solo successivamente egli inizia ad avvertire che c'è una relazione tra i genitori e delle differenze tra questa e la relazione tra il singolo genitore e lui.
Le difficoltà del bambino di accettare nel suo mondo interno che i genitori vivano una relazione privilegiata e significativa con lui e in pari tempo condividano uno spazio privilegiato di coppia dal quale egli è escluso (al quale non appartiene) si misura, nel gruppo di apprendimento, con la realtà nuova che porta la presenza di una coppia (coniugale / genitoriale), quella dei didatti, che gioca relazioni proprie.

In queste relazioni l'allievo sente che non è chiamato ad entrare, perché non gli appartengono. Contemporaneamente, però, si sente assicurato perché questa coppia, che pure lo esclude da spazi propri, si prende cura di lui sia come coppia che come singoli "genitori".
In questo contesto appaiono, a nostro parere, assai significative le dinamiche relazionali che operano all'interno della coppia dei didatti.

L'allievo apprende (nel senso Bioniano di "apprendere dall'esperienza", non nel senso di apprendimento scolastico-concettuale) che la "coppia genitoriale" può vivere una relazione fatta di accordi e disaccordi, di conferme e contestazioni, di funzioni e capacità di apporto differenziate rispetto agli obiettivi del sistema (in questo caso: la formazione di psicoterapeuti), ma nel contempo reciprocamente integrantesi. Apprende soprattutto - sempre che le relazioni di questa coppia lo permettano! - che può appartenere senza per questo dover pagare il biglietto della triangolazione, necessaria alla sopravvivenza della coppia, che nella famiglia di origine, con buona probabilità, si è sentito chiamato a giocare.

 


La relazione coppia dei didatti - allievi 

 Se è vero che l'essere umano può procedere verso la propria individuazione attraversando le aree della appartenenza e della separazione, anche nella sua dimensione professionale, credo, possiamo ipotizzare un percorso analogo.

In una famiglia "sufficientemente sana" ogni soggetto, nel suo percorso evolutivo di bambino, di adolescente e di giovane adulto, costruisce la propria individualità rispetto alla massa indifferenziata dell'io familiare (Bowen) cui appartiene all'inizio della sua storia, attraverso l'interazione costante tra queste due istanze. La funzione dei genitori, nella fattispecie, è quella di supportare, differenziandosi, queste due forze propulsive: diciamo, in genere, che propria della funzione materna è l'istanza di appartenenza e propria della funzione paterna è l'istanza di separazione [5]. I genitori possono giocare queste funzioni in modo "sufficientemente sano" se possono dirsi che la loro sopravvivenza come individui non dipende dalla presenza dei figli: se, cioè, nel nostro linguaggio, accanto alla dimensione genitoriale essi sono in grado di condividere anche una dimensione coniugale.

Noi ipotizziamo che la funzione del gruppo di formazione sia analoga, con in più il compito di permettere l'apprendimento di una modalità relazionale riparatoria rispetto alla quella "appresa" nella famiglia di origine.

Sul piano relazionale, il processo di appartenenza si gioca attraverso la messa in campo delle dinamiche identificatorie (identificazione e controidentificazione proiettiva) e delle potenzialità se-duttive che ciascuno ha acquisito e sviluppato nel corso della sua storia. I didatti diventano il luogo di proiezione del "genitore ideale", come avviene nella relazione terapeutica. I didatti sono buoni e bravi, i migliori sul mercato... (e i didatti, da parte loro, ce la mettono tutta per sostenere questo processo; ciascuno con le modalità che gli sono proprie: da chi si propone sfoderando tutte le sue abilità da primadonna a chi si presenta con tutta le riservatezza e modestia che fa tanto richiamo verso la scoperta) così come gli allievi diventano i più belli e i più bravi per i loro didatti!

Diciamo questo, senza perdere di vista, tuttavia, che nella realtà non tutti riescono a fare facilmente questa parte del percorso. C'è sempre qualcuno che vive l'appartenenza come perdita di sé. La sua esperienza di figlio gli ha insegnato che se appartiene non può più uscirne o, d'altro canto, che per lui non c'è posto nel gruppo di appartenenza. I conti sospesi con un padre deludente, perché troppo assente o poco attento ai suoi richiami di figlio/a, per esempio, o con una madre poco affettiva, quindi scarsamente contenitiva, diventano un grosso ostacolo a potersi dare il permesso di entrare nel gruppo; un ostacolo a potersi affidare al didatta nel lavoro di gruppo o al didatta-supervisore quando, come terapeuta-allievo, incontra una famiglia...

E' necessario appartenere dunque; ma appartenere per poi separarsi. E' in questo gioco di relazioni che si può costruire la propria identità professionale.

QUI crediamo debba giocare la sua funzione la COPPIA dei didatti. Nella duplice dimensione a) di coppia "genitoriale" nella relazione con gli allievi (relazione inter-generazionale) e b) di coppia "coniugale" nella relazione al proprio interno (relazione intra-generazionale).

Anche il didatta porta con sé la sua storia familiare, anche egli viene da una famiglia presumibilmente non così ideale... anche in considerazione della scelta professionale doppiamente riparatoria (si può dire così?), come terapeuta prima e come didatta poi (magari anche per riparare la relazione allievo-didatta vissuta come non sufficientemente buona). Nulla gli garantisce l'immunità dall'entrare nel gioco collusivo delle seduzioni o delle esclusioni che l'uno o l'altro degli allievi gli propongono.

In un lavoro fatto per un convegno sul padre qualche tempo fa, ho avuto l'occasione di riflettere sulla funzione che questi deve svolgere come partner verso la "sua" donna: il compito di richiamarla all'appartenenza di coppia, perché non si perda nel legame materno [6]. Con un parallelismo, sia pure semplificatorio ma utile per il contributo di chiarezza che può dare, possiamo ricordare qui come al compito "paterno" corrisponda un compito "materno" che è quello di richiamare il "suo" uomo all'appartenenza di coppia nella duplice dimensione, questa volta, di coniuge e di genitore.

Continuando nel parallelismo: la funzione di vigilanza (= controllo) di un didatta nei confronti dell'altro, accanto a quella di stimolo (= aiuto) pure da giocare nella reciprocità, appaiono sostanziali per favorire la costruzione di un gruppo (sistema) di apprendimento sufficientemente aperto. I due didatti, come coppia "coniugale" hanno il compito di favorire la fluidità della dinamica appartenenza-separazione, per evitare che gli allievi, o qualche allievo, rimangano congelati sull'uscio, senza potersi permettere di entrare e trovare nel gruppo di formazione un luogo di contenimento atto a favorire il processo di formazione, o per evitare, più frequentemente, che restino intrappolati nelle maglie della appartenenza.
Come nelle relazioni familiari le funzioni paterna e materna richiedono ad ambedue i genitori la capacità di accoglierle ed esercitarle, anche al di là dell'identità di genere, così nelle relazioni del sistema coppia-di-didatti-e-allievi ambedue i didatti dovranno sviluppare la capacità di permettere il processo di appartenenza e il processo di separazione, sostenendosi reciprocamente nel costruire una membrana di coppia (Dicks) e una membrana gruppale con livelli di permeabilità sufficientemente elastici, tali da permettere agli allievi di entrarvi  (per sentirsi accolti e contenuti) e di uscirne (per individuare un'identità professionale propria).

Noi riteniamo che questo processo sia molto più forte se i didatti possono permettersi di giocarlo attraverso la compresenza nel gruppo, parallelamente alla maggiore forza che porta la presenza di due coterapeuti in un processo terapeutico (soprattutto con le coppie).

 

 

Una rielaborazione di questo lavoro è pubblicata sul libro M. Andolfi e V. Cigoli (a cura di), LA FAMIGLIA D'ORIGINE, F. Angeli ed., 2003 

 

[1] Per completare il parallelismo: il gruppo di formazione è anche il luogo della prima costruzione dell'"identità professionale" del futuro terapeuta.

[3] Questa modalità è in realtà una costante che seguiamo per i lavori scritti (tesina) che facciamo fare a conclusione di ogni anno di corso.

[4] Se il suono in italiano con fosse tanto male, userei la parola co-didattica per rendere il parallelo con la parola coterapia, perché sostanzialmente di questo si tratta. In pratica la conduzione dei gruppi viene fatta in compresenza dai due didatti per un buon 80 % degli incontri; per il rimanente 20 % ciascun didatta lavora con il gruppo da solo.

[5] Parlo di "funzione" paterna e materna, non di padre o madre semplicemente, in quanto sia l'uno che l'altro possono svolgere, in tempi e modalità differenti, sia l'una che l'altra funzione in una relazione complementare e non rigida.

[6] F. Cardinali, "Ruolo del padre in situazioni di gravi difficoltà", in Atti del Convegno ESSERE PADRE OGGI, Senigallia, 1993. Questa funzione, in realtà, altro non è che, sul versante della relazione di coppia, quella che, come genitore, svolge in quanto luogo privilegiato dell'istanza di separazione. Specifico della funzione paterna è il compito di portare la legge nelle relazioni familiari: la legge della proibizione dell'incesto.