La coppia in gravidanza
Dall'intervento sulla malattia all'intervento sulla salute

 

Gabriella Guidi - Tesi di laurea, 1992

INTRODUZIONE

 

La mia storia: dall'intervento sulla malattia all'intervento sulla salute. Una storia alla rovescia.

 

Durante gli anni di studi universitari presso questa facoltà, ho lavorato come Assistente Sociale presso ilSSN, in Servizi diversi nel corso degli anni.

Prima ancora dell'emanazione della Legge di riforma sanitaria, durante la frequenza della Scuola di servizio sociale sono entrata in contatto con il mondo della sofferenza mentale, frequentando varie realtà dove essa si esprimeva e varie esperienze che si ponevano come risposte a tutta quella problematica che quel mondo portava con sé.

Ho frequentato l'allora Ospedale psichiatrico di Ancona per più di un anno recandomi lì tutti i giorni, vivendo un contatto diretto con i ricoverati che, più giustamente potremmo chiamare reclusi, dato che per la gran parte di essi l'ospedale era diventato ormai la loro casa, senza prospettive di remissione, data la diagnosticata irreversibilità del loro stato.

Per sei mesi ho anche frequentato, nell'ordine, gli Ospedali di Gorizia e di Trieste dove allora l’équipe diretta da F. Basaglia stava introducendo una prospettiva assai innovativa che si sarebbe poi rivelata come portatrice di un pensiero rivoluzionario rispetto alla sofferenza mentale e al suo mondo. Ho avuto così modo di partecipare anche alla creazione del movimento di psichiatria democratica.

Incontri particolarmente significativi ho potuto vivere, tra gli altri ho incontrato Cooper e Laing che allora avevano già dato inizio alla formazione ci comunità terapeutiche in Inghilterra.

Nel 1975 ho iniziato poi a lavorare presso un servizio per handicappati che stava mettendo in piedi il comune di Jesi, in provincia di Ancona. È questa una realtà di 40.000 abitanti, con una economia retta dalla piccola industria in un rapporto abbastanza equilibrato con la realtà della campagna che si stava comunque trasformando verso la costituzione di aziende dalle dimensioni più familiari.

Questo lavoro mi ha messo a contatto con un altro aspetto della sofferenza umana che pure presentava (e presenta) aree di condivisione e aree di contiguità con quella che più propriamente viene definita come malattia mentale.

Per sei anni ho continuato il mio intervento in questo settore.

Il comune aveva già decretato il superamento della scuola speciale che operava nel suo territorio e che raccoglieva alunni provenienti da tutta l'area della Vallesina (un'area con un bacino di utenza di 10 comuni, con circa 100.000 abitanti): nel giugno del '75 (prima ancora della promulgazione della L. 417/76) la scuola veniva chiusa e si decideva per l'inserimento dei portatori di handicap nella scuola di tutti. È a sostegno di questo progetto che il Comune istituisce il Servizio medico-psico­pedagogico in cui entro a lavorare come assistente sociale.

In quegli anni, sempre nel territorio della Vallesina, contemporaneamente alla promulgazione della Legge 180, inizia una trasformazione dei servizi psichiatrici e si avvia il processo di dimissione dei ricoverati con il parallelo reinserimento nel mondo sociale e lavorativo di queste persone che ne erano state in precedenza espulse. Il nostro servizio si inserisce in questo processo ed allarga la sua sfera di intervento dai minori in età scolare agli adulti ex degenti dell'O.P.

Questo lavoro nel mondo della patologia psico-fisica, inteso al recupero delle potenzialità e al reinserimento dei soggetti che vivono già in una situazione di menomazione, più o meno grave e più o meno ricuperabile, mi aiuta a far riemergere tutte quelle contraddizioni che negli anni si venivano accumulando nella mia mente e che lasciavano ancora senza una risposta quella domanda di fondo che poi stava anche maturando nel contesto sociale. Era la domanda sulla possibilità di operare in un'ottica preventiva: in quale area si doveva insistere e con quale tipo di intervento, per evitare o, per lo meno, limitare l'insorgere di tanta patologia?

Tutto questo cammino, nelle sue varie fasi di passaggio più o meno lineari nel tempo, ma comunque sempre in movimento costante, mi porta dunque nel mondo affascinante della nascita. Entro così, con il mio lavoro e con il mio pensiero, dentro una nuova dimensione: quella della salute.

E1 vero che certa medicina tende a rapportarsi alla nascita come ad un momento di patologia - riprenderemo in seguito questo discorso -, ma ormai nessuno può più ignorare il movimento avviato e riconosciuto perfino dai documenti dell'O.M.S. che esprime la necessità di considerare la nascita come un momento fisiologico da rispettare nei suoi ritmi e nelle sue modalità.

Per completare il quadro, debbo comunque prendere in considerazione un altro settore di interesse e di studio che per me è stato determinante.

In Italia un nuovo pensiero è ormai entrato nell’area della psicologia. Dalla scuola di Palo Alto, dall’Ackermann Institute, attraverso i gruppi di Roma e di Milano, il pensiero sistemico ha introdotto preziosi elementi di rottura rispetto ad un’ottica situazioni di ‘salute’, l’area della cosiddetta psicoprofilassi ostetrica. La confluenza dei due settori ha portato me e i colleghi con cui ho svolto questa attività a porre un’attenzione particolare a questo momento del ciclo vitale della famiglia per una migliore comprensione delle dinamiche presenti nella relazione di coppia e per una riflessione critica sull’intervento dei servizi (SSN) ancora troppo orientati verso un modello di salute inteso soltanto come “assenza di malattia (organica)”.

Per l’area clinica, particolarmente stimolante è stato, da una parte, il lavoro fatto con quelle coppie che durante la loro terapia sono rimaste incinte e hanno poi avuto un bambino: la ricchezza del materiale che queste portavano in seduta era chiaramente indicativa della profondità dei mutamenti che stavano accadendo nel loro mondo interno e nella relazione di coppia; dall’altra, croce e delizia nella clinica psicoterapeutica (soprattutto familiare), l’incontro, molto frequente, per la verità, con i figli-sintomo-dei-propri-genitori (bambini, adolescenti, o anche in età cronologica più avanzata).

La fatica e il costo dell’intervento terapeutico, oltre che l’incognita di una riuscita non così facile verso il recupero della salute, mi hanno messa davanti ad una domanda: perché non pensare ad un lavoro di prevenzione almeno con quelle persone che già si rivolgono ai servizi in uno stato di ‘salute’ e non di ‘malattia’? Come dare un servizio alle coppie in gravidanza, affinché siano in grado di affrontare questa tappa del processo evolutivo con le energie interne di cui dispongono, ma che difficoltà non adeguatamente affrontate nelle fasi precedenti, riattualizzate ora dalla ‘crisi di gravidanza’, tengono bloccate?

La necessità per i servizi (pubblici e privati) di porsi il problema di ripensare l’intervento nasce anche dalla peculiarità del momento: l’andamento e l’esito della crisi, riflettendosi sulle relazioni con il bambino, diventa significativo e determinante per la crescita di un ‘nuovo’ individuo.

Un aiuto adeguato, che risponda ai bisogni profondi dei due co­niugi che stanno diventando genitori, crediamo sia una valida forma di prevenzione verso la salute (nella sua accezione più completa di “benessere fisico, psichico e sociale” (OMS)): a) salute di loro stessi, perché lo spazio figlio/genitori non invada, in una sorta di annessione forzata, lo spazio della coppia; b) salute del bambino, perché non si veda costretto nella rigidità di una relazione triangolare senza vie di progressione verso la sua individuazione.

 

 

PARTE I
LA FAMIGLIA

 

1.1. La famiglia come matrice e modello di pensiero

Oltre ad essere studiata come organizzazione complessa con specifiche modalità di funzionamento, la famiglia viene studiata anche come contesto di apprendimento e matrice di pensiero.

Nella famiglia, attraverso l'esperienza che quotidianamente fa di modalità relazionali specifiche nelle quali è inserito e che contribuisce a formare (feedback), il bambino struttura non solo specifici patterns relazionali, ma soprattutto apprende come si apprende. Il bambino, cioè, nella famiglia impara come e secondo quali parametri si decodifica ogni nuova esperienza: egli ap­prende il processo attraverso cui si struttura la "conoscenza".

La mente stessa - se possiamo rifarci al modello Kleiniano- Bioniano - si sviluppa all'interno di relazioni emotivamente si­gnificative e la crescita dell'individuo viene colta come una ere- scita delle capacità di pensare. La famiglia, dunque, è modello di pensiero.

Un altro aspetto, inoltre, dovremmo prendere in considera­zione. Lo stesso processo di costruzione dell'identità individuale evolve lungo un continuum tra l'appartenenza al gruppo [familiare] e la differenziazione da esso. È questo uno degli aspetti che ci permette di cogliere come il nostro pensare sia un pensare "familiare": mentre parliamo di individui, li pensiamo e li immaginiamo in termini familiari. Noi stessi ci pensiamo in ter­mini di membri di una famiglia: la nostra famiglia di origine è il nostro modello di pensiero e il fondamento della nostra identità. Io, mio padre, mia madre: sono queste le nostre coordinate. Da bambini, da giovani, da adulti e da vecchi, continuiamo a rap­presentarci e a sentirci in relazione con i nostri genitori, reali e interiorizzati (interni).

Questo modello di identità psicologica lo abbiamo poi tra­dotto perfino in identità anagrafica: il cognome e il nome che portiamo, che ci identificano in ogni momento e in ogni luogo, nella società, ci sono stati dati dalla nostra famiglia (fino a non molti anni fa perfino nei documenti venivamo indicati come "figlio di... e di...").

 

Un pensare "a tre generazioni"

La memoria diretta di un individuo, quella segnata attra­verso l'esperienza personale, è una memoria familiare che coin­volge, ad un alto livello di significatività, almeno tre genera­zioni. Nonni, genitori, nipoti/figli: ognuno di noi ha un posto all'interno di questo mondo relazionale.

Tutti gli studiosi della famiglia sono d'accordo nel sostenere che la buona salute mentale di un individuo viene costruita in un contesto trigenerazionale "sufficientemente buono". Così come una patologia psichica può essere compresa nella sua complessità di significato, quindi seriamente affrontata sul piano terapeu­tico, solo allargando il campo di osservazione e di intervento ad almeno tre generazioni: i nonni, i genitori, i figli.

Andolfi (5) propone questa definizione di famiglia trigene­razionale: "[Essa è] la mappa familiare allargata ottenuta utiliz­zando una rappresentazione spaziale che si dispone lungo un piano verticale, attraversato da almeno tre piani orizzontali. Su ciascun piano vengono collocati tutti coloro che appartengono allo stesso livello generazionale, per cui, dall'alto in basso, tro­veremo rispettivamente la generazione dei nonni, quella dei figli e quella dei nipoti". Continuando, poi, questa analisi, egli sot­tolinea come queste generazioni sono "unite in vario modo tra loro da triangoli relazionali e triangoli trigenerazionali, identifi­cati spazialmente da una sorta di coordinate familiari che indi­cano le persone coinvolte e il loro piano di appartenenza".

Whitaker, uno dei pionieri della terapia familiare, so­stiene che lui non riesce a pensare ad un individuo se non col­locandolo nella sua storia familiare (comunicazione personale, 1989).

 

1.2. La famiglia come sistema

Provando ora ad entrare nel mondo interno della famiglia, la prima caratteristica che ne possiamo cogliere è il suo porsi come un organismo. Come ogni organismo vivente, anche la fa­miglia è capace di svolgere quelle funzioni necessarie alla sua sopravvivenza ed è in grado di procedere, lungo il tempo, verso la sua maturazione, attraversando certe tappe evolutive.

Volendo usare una parola più tecnica, dovremmo parlare di "sistema" (10) ed esprimere la nostra idea dicendo che "la fami­glia è un sistema attivo in costante trasformazione", cioè un or­ganismo complesso che si modifica nel tempo, con lo scopo di as­sicurare continuità e crescita [psicosociale] ai membri che lo compongono.

I membri di questo sistema, gli elementi costitutivi di que­sto insieme sono le persone; non la casa, gli oggetti, le cose in genere: questi possono solo definirne alcune caratteristiche esteriori, di superficie, potremmo dire; in qualche modo "colorano" la facciata della famiglia. Gli atomi costitutivi di que­sta molecola, le parti costitutive di questa macchina sono gli in­dividui. Ogni famiglia è fatta da individui; ogni individuo è parte di una famiglia. Come non è pensabile un individuo senza famiglia, ovviamente non è pensabile una famiglia senza indivi­dui. Nell'avvicinarsi allo studio della famiglia, due aspetti sono importanti da considerare: la continuità di questo organismo che si conserva nel tempo - la famiglia, cioè, con il passare del tempo, non scompare, non muore - e la sua capacità di evol­vere, cioè di accettare al suo interno dei cambiamenti: quei cambiamenti che gli permettono di sopravvivere adattandosi ai mutamenti dell'ambiente interno ed esterno, sviluppando così la capacità di rispondere ai bisogni, propri e di ciascuno dei suoi membri, che mutano con il procedere del tempo.

Tale processo evolutivo si muove attraverso l'interazione di due forze, in apparente opposizione tra loro: da una parte il bi­sogno di stabilità (omeostasi), dall'altra il desiderio di trasfor­mazione. È questa interazione che mantiene la famiglia in buona salute, garantendone sia l'evoluzione che la stabilità.

 

1.3. La famiglia come sistema in trasformazione

Ogni fase di passaggio comporta un momento di riequilibra­mento delle dinamiche interne e delle regole dell'insieme.

Perché si possa procedere da un punto ad un altro è ne­cessario che l'equilibrio precedente venga abbandonato così da lasciare il posto al nuovo.

Ogni movimento comporta in sé la necessità della crisi. Essa è fisiologica, come stimolo alla crescita, ma nello stesso tempo ha in sé delle potenzialità involutive.

Come ogni sistema in evoluzione, quindi, anche la famiglia può trovarsi nelle condizioni di non riuscire ad oltrepassare la linea di confine tra^ una fase e l'altra, e quindi vedersi bloccata nel suo processo di crescita. Noi diremmo che una famiglia svi­luppa una patologia quando non ha la capacità o i mezzi per as­similare il cambiamento: in altre parole, quando la rigidità delle sue regole le impedisce di adattarsi al proprio ciclo vitale e a quello dei suoi membri.

Nella realtà, infatti, viene a svilupparsi una interazione co­stante tra l'evoluzione dei singoli membri (padre, madre, figli) e l'evoluzione della famiglia nel suo insieme.

Per indicare questo processo evolutivo, noi parliamo di CI­CLO VITALE della famiglia.

Il concetto di ciclo vitale, ricorda M. Malagoli Togliatti (39) "trae la sua origine storica dal campo della ricerca sociologica, dove venne utilizzato per lo studio di vari fattori (economici, demografici, di crescita e sviluppo dell'individuo) riguardanti la famiglia considerata in una prospettiva evolutiva".

È con J. Haley (30) che questo concetto entra nel settore della psicologia e psicoterapia della famiglia. Il processo evolu­tivo che la famiglia compie nel corso degli anni, attraverso il passaggio da una fase all'altra, viene visto come un processo di continua ristrutturazione della trama dei rapporti tra i membri di una famiglia.

Molti studiosi hanno cercato di indicare le varie fasi del ci­clo vitale di una famiglia nella società occidentale, osservando come queste siano caratterizzate da eventi naturali che necessa­riamente apportano cambiamenti nell'organizzazione di tutto il si­stema familiare.

Tutti questi studi sottolineano come gli uomini hanno in co­mune con gli altri esseri viventi molti momenti del loro ciclo evolutivo: la fase del corteggiamento, dell'accoppiamento, della costruzione del nido (la casa, la tana), della procreazione, dell'allevamento della prole, del conseguimento della vita auto­noma da parte dei figli, dell'invecchiamento, ecc., ma anche come a causa dell'organizzazione più complessa dei rapporti so­ciali dell'uomo, certi problemi che si presentano lungo l'arco del ciclo vitale della famiglia siano patrimonio esclusivo della nostra specie (Cfr. 30).

La specie-uomo appare come l’unica capace di vivere una relazione di parentela che coinvolga più di due generazioni. Nessuna specie animale - allo stato attuale delle nostre cono­scenze - vive una relazione nonni-nipoti: tutte si fermano alle due generazioni, genitori e figli. (Ciò, inoltre, per un tempo li­mitato al periodo della dipendenza e non autonomia di questi ul­timi; non risulta di animali adulti che vadano a trovare i loro genitori, magari portando con sé i propri cuccioli!).

Alcune fasi di questo ciclo vitale che sono particolarmente significative per il processo evolutivo della famiglia nel suo in­sieme e dei singoli individui come persone sono oggetto di parti­colare attenzione da parte degli studiosi del comportamento umano e dei clinici. Ne enumeriamo alcune: il corteggiamento, il matrimonio, la nascita dei figli, il periodo centrale del matrimo­nio e l'adolescenza dei figli, l'emancipazione dei genitori dai fi­gli, il pensionamento e la vecchiaia, la morte.

 

Le generazioni e i confini

Queste osservazioni ci portano a chiarire alcuni concetti: le generazioni, la famiglia nucleare, la famiglia estesa. Sono con­cetti d'uso comune nel linguaggio quotidiano. Tutti parliamo di generazione dei figli, di generazione dei genitori, di generazione dei nonni... e così facendo utilizziamo, implicitamente, alcune categorie per definirle (età, ruoli, funzioni, compiti) operando contemporaneamente anche una differenziazione tra di esse in una dimensione spazio-tempo-funzioni. Costruiamo, cioè, nella nostra mente una definizione di "confine" tra una generazione e l'altra, collocandole, nella no­stra mappa conoscitiva, come aree geografiche, o regioni confi­nanti e appartenenti ad uno stesso stato.

La famiglia, quindi, si presenta come un insieme non solo di individui, ma anche di generazioni. In una rappresentazione grafica:

 

la generazione dei nonni
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la generazione dei genitori
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la generazione dei figli/nipoti

Abbiamo detto sopra come il passaggio tra una fase e l'altra del ciclo vitale sia una necessità fisiologica per la famiglia, e come l'intoppo in un qualsiasi momento evolutivo possa manife­starsi come momento di crisi; allargando ora questo concetto, dobbiamo dire che non solo la famiglia nel suo insieme, ma anche

ogni individuo che ne è parte, così come ogni generazione all'interno del suo spazio vitale, vivono la necessità fisiologica di procedere lungo un cammino evolutivo percorrendo le varie tappe di crescita.

La salute della famiglia, la salute dei singoli individui e la salute di ogni generazione sono strettamente interdipendenti in un rapporto di causalità circolare che potremmo rappresentare, graficamente, in questo modo:

famiglia -  individuo -  generazione

Concludendo queste osservazioni, vorrei sottolineare come non è l'assenza di problemi a distinguere una famiglia "normale" da una "anormale", ma la sua capacità di affrontare e adattarsi a situazioni nuove che richiedono modelli nuovi e alternativi di funzionamento rispetto a quelli posti in essere e funzionali nelle fasi precedenti.

 

 

PARTE II

IL PROCESSO DELLA NASCITA

 

II.1. La nascita della coppia

La coppia nel nostro contesto culturale è una struttura che si pone come risposta valida per assolvere sia a funzioni psico­biologiche (sessualità, riproduzione), che psicosociali (crescita dei suoi membri e loro reciproco adattamento in un sistema più valido). Ciascuno dei componenti la coppia svolge nei confronti dell'altro funzioni complesse e reciproche.

La coppia si presenta come un sistema e, come tale, risulta dotato di caratteristiche e regole peculiari e nuove che sono qualcosa di diverso dalla somma delle caratteristiche e delle re­gole di ciascuno dei membri che la compongono.

Numerosi studiosi, che si rifanno a discipline diverse quali l'antropologia, la sociologia, la psicologia, hanno individuato nella famiglia l’esistenza di spazi generazionali differenti che contemporaneamente ne definiscono la struttura e ne permettono il funzionamento. Assai stimolante ci pare l’idea che ipotizza l’esistenza di un confine, di una membrana (24) che da una parte definisce l’esistenza della coppia, dall’altra garantisce, con la sua resistenza e flessibilità, il funzionamento fisiologico della famiglia. All’interno di questo confine esistono molteplici e con­temporanei livelli relazionali tra i due partners che vanno “da gradini indifferenziati e primitivi a quelli più differenziati e maturi” (5).

 

La collusione

Ciò che fa sì che una coppia si costituisca come tale è l'esistenza di un certo grado di integrazione tra i suoi membri, da cui deriva poi l'integrazione della famiglia. Il meccanismo che sta alla base di essa è lo scambio di parti di sé che ciascun membro attua con l'altro: è questo scambio che determina la tra­sformazione funzionale della coppia ai fini dell'adattamento.

 

Nella dinamica di coppia ogni partner considera l'altro sia un nuovo oggetto con cui rapportarsi che,contemporaneamente, una parte esternalizzata di sé stesso. Cerca così, in qualche modo, di indurre l'altro a diventare l'incarnazione complementare e necessaria della sua identità. Il partner, per certi aspetti, è come se smettesse di essere sé stesso, acquisendo quegli aspetti che gli sono stati proiettati, per trasformarsi in ciò che l'altro ha voluto, al di là dei livelli di coscienza, farlo trasformare.

È evidente che nella misura in cui ciascuno scinde delle parti di sé e le proietta sull'altro ne rimane privo, ma è proprio tale processo che conduce alla fusione e alla identificazione delle parti proiettate del sé con l'oggetto esterno.

Questo meccanismo, elaborato dalla Klein e definito come "identificazione proiettiva", sembra costituire la base non solo delle prime relazioni oggettuali, ma anche delle relazioni succes­sive di un individuo, dunque anche delle relazioni basilari di coppia. Perché tutto ciò si verifichi è evidente che l'altro deve avere un suo interesse personale a svolgere questa funzione, deve cioè essa rispondere a dei suoi bisogni. È necessario che "a certi bisogni dell'uno corrispondano bisogni analoghi e complementari dell'altro" (5). Jean J. Lemaire (38) scrive che "non soltanto colui che induce un ruolo ne trae un beneficio, ma an­che colui nel quale il ruolo è stato indotto, dato che non è pos­sibile indurre un ruolo, un comportamento, un tratto del carat­tere, un sintomo, in un soggetto che non sia affatto disposto a questo e nel quale non esistano già le tendenze latenti corri­spondenti" .

Questo accordo reciproco, questa modalità di funzionamento interpersonale viene definito 'collusione' (Laing 1969).

Come la mente è uno spazio dove avvengono processi, si collocano pensieri, idee, emozioni, allo stesso modo possiamo pensare "la coppia (e quindi la famiglia) come uno spazio ove avvengono trasformazioni tra i singoli membri" (43) attraverso processi di comunicazione reciproci e differenti. Possiamo in qualche modo ipotizzare l'esistenza di un sé di coppia ché con­tribuisce in parte al costituirsi nel tempo del sé personale di ciascuno dei membri che partecipano alla relazione.

La coppia, come l'individuo, subisce un processo evolutivo: l'esito di tale processo è strettamente legato alla possibilità di scambiare e mutare, nel tempo e a seconda delle necessità della vita reale, queste parti che ciascuno ha proiettato e/o introiettato.

 

La scelta del partner

Già al momento della scelta del partner (questo può essere considerato il momento di inizio, la nascita di una coppia) opera questa reciprocità di richieste, aspettative e proiezioni.

Molteplici sono i fattori che interagiscono nel dare origine a quel complesso di fantasie e aspettative che ognuno ha su come dovrebbe essere il suo partner ideale e nel determinare poi come queste si concretizzeranno al momento della scelta. Valori cultu­rali, retroterra economico, situazioni contingenti della vita reale, etc. fanno sentire il loro peso; almeno altrettanto presente ap­pare, però, tutto un insieme di motivazioni che al momento in cui la scelta si concretizza rimangono inaccessibili al soggetto. Tra queste, un ruolo determinante sembrano giocare le re­lazioni con le figure genitoriali che ciascuno ha introiettato. Al momento della scelta è come se in qualche modo il soggetto do­vesse rifare i propri conti con le prime relazioni oggettuali della sua storia. L'uomo si trova a cercare una donna che, per le sue caratteristiche (somatiche, psichiche, culturali, etc.), gli ripro­ponga in qualche modo sua madre, o ne rappresenti l'esatto op­posto e complementare in grado di assicurargli quanto ritiene di non aver avuto. La donna, a sua volta, cercherà un partner che le ripresenti suo padre o, al contrario, tutto ciò che in lui non ha saputo o potuto trovare. Dicks (24) parla di scelte "per complementarità" o scelte "per contrasto".

Nell'uno e nell'altro caso ciò che qui vogliamo sottolineare è che il modello di riferimento è l'immagine interna del genitore dell'altro sesso (sia esso da ricercare o da rifuggire).

È evidente che quanto più questa richiesta reciproca che ciascuno fa all'altro (di impersonare quell'ideale di partner che è in grado di rispondere ai suoi bisogni) è rigida, tanto più l'altro si trova a giocare ruoli che non sono suoi, vedendosi co­stretto a sviluppare in sé parti che l'altro vi sta proiettando e contemporaneamente a rinunciare a ciò che invece gli appartiene come costitutivo del proprio sé. La constatazione di quanto un processo di questo tipo impoverisca una relazione di coppia e ostacoli la crescita dei due partners è esperienza quotidiana nella clinica psicoterapeutica.

 

Un caso clinico

Luigi e Lucia sono i partners di una coppia che se­guiamo in terapia da circa due anni. Hanno, lui 37 anni e lei 33; sono sposati da 9 anni.

Sono venuti in terapia per un grave stato d'ansia di lei che in certi periodi si trova perfino impedita a con­durre una vita autonoma sia sul piano personale che professionale (non riesce ad uscire di casa da sola, a guidare la macchina, ecc.). Lei lavora come geometra nello studio che ha con il marito che è ingegnere. Vor­rebbero inoltre avere un figlio che però non viene, nono­stante gli innumerevoli esami clinici effettuati escludano una sterilità organica. Nel loro lavoro sono ambedue com­petenti e stimati. Luigi è figlio unico ed è molto legato alla propria madre. Questa vive sola in un paesino ad alcune decine di km dalla residenza del figlio. I genitori di Luigi erano contadini che però sono riusciti a far studiare il figlio che si è allontanato da casa per l'università e si è laure­ato con ottimi risultati. Il padre di Luigi viene descritto come piuttosto assente in famiglia e poco significativo; negli ultimi anni di vita una grave malattia (sclerosi a placche) lo rende assolutamente inabile. È morto due anni fa.

Lucia è la 2a di cinque figli (il primo è un maschio). I suoi genitori sono piuttosto benestanti, sua madre è stata sempre in casa mentre suo padre faceva l'insegnante, ora in pensione. Nella sua famiglia è il pa­dre a dirigere e la madre vive un ruolo completamente subalterno e periferico. Il padre è il suo modello, non a caso sceglie una professione piuttosto maschile.

Alcuni elementi collusivi che hanno guidato la loro scelta reciproca e stanno ora tenendo in piedi questa re­lazione balzano agli occhi con una certa evidenza. Pro­viamo ad accennarli.

Luigi rifiuta il padre come modello di identificazione e non sa sciogliere il legame con sua madre: il padre non ha saputo (potuto/voluto) esercitare la sua funzione di separazione all'interno della coppia madre-figlio. Nella vita di Luigi non c'è posto per un'altra donna a meno che questa non neghi le sue parti femminili (dolcezza, sen­sualità, capacità di generare figli) e non esiga di avere al suo fianco un uomo che abbia superato il legame in­fantile con la propria madre.

Lucia, da parte sua, vive con grande intensità il le­game con il padre e nonostante la sua indipendenza este­riore (non ancora ventenne va addirittura a lavorare come geometra in Germania; ora vive ad alcune centinaia di km di distanza: dai genitori), continua ancora a parlare di lui come di un uomo meraviglioso e a presentarlo come un modello di confronto per il marito. Anche per lei la madre è stata assente e non ha saputo (potuto/voluto) svolgere la funzione di separazione nella relazione seduttiva che padre e figlia reciprocamente si proponevano. Ciò le ha impedito di sviluppare le sue parti femminili adulte dato che il modello di donna che sua madre le proponeva non era desiderabile.

Anche nella vita di lei, dunque, non c'è posto per un altro uomo che non sia suo padre, a meno che questi non rinunci alle sue parti maschili (forza, potenza, capa­cità di generare) e non voglia come sua compagna una donna che abbia superato il suo legame infantile con il padre; a suo marito, di fatto, lei chiede di farle da com­pagno/fratello.

In una delle ultime sedute Luigi racconta un sogno. Erano a casa dei genitori della moglie, lui e Lucia sta­vano a letto. In fondo al letto, steso sopra, c'era il pa­dre di Lucia, completamente nudo; disteso al fianco di Luigi c'era un altro che poi scopre essere il fratello mag­giore della moglie. A un certo punto Lucia si alza e va in fondo al letto, dal padre, e si mette a giocare con le mani con il sesso di lui. Luigi vorrebbe alzarsi, ma non ci riesce, perché è come legato dalle coperte che gli stanno rimboccate intorno. Grida, ma il fratello di Lucia, che pure gli sta a fianco, neanche lo sente e continua a dormire come se niente fosse; Lucia continua il suo gioco.

Questi tre uomini che stanno sullo stesso letto con Lucia sono in qualche modo un'immagine delle funzioni che Luigi sta svolgendo nei confronti della moglie e che lei gli richiede: come marito vede, ma rimane impotente dentro le coperte; come fratello/compagno può dormire tranquillo anche se il marito urla, non c'è problema di sorta; come padre può avere un rapporto con Lucia, ma solo attraverso una sessualità infantile (fa dei giochi ses­suali, come i bambini), non può avere un rapporto da adulto.

(Su un piano clinico dovremmo dire che aver realiz­zato, in una dimensione onirica - i cui significati sono naturalmente ancora più ricchi e a più livelli di profon­dità -, il tipo di relazione che lo lega a sua moglie è una importante passo verso la presa di coscienza degli ele­menti infantili che fondano il loro legame di coppia... Si pensi che è il secondo sogno che Luigi riesce a portare - il primo nella seduta precedente, la prima dopo l'interruzione estiva - da quando è iniziata la terapia!).

 

II.2. La crisi di gravidanza: la nascita di un bambino

La complessità delle dinamiche che la accompagnano ci fa dire che la nascita di un figlio non coincide con la sua appari­zione nel mondo del reale. Essa inizia, di norma, molto prima del concepimento e del parto, altre volte invece perfino molto tempo dopo; un figlio, in realtà, può nascere solo quando nello spazio mentale dei suoi genitori trova un luogo per vivere.

In molti casi il bambino viene vissuto come un estraneo e le modificazioni fisiche della donna, indotte dalla gravidanza, come un evento sgradevole oltre che incontrollabile.

Nella coppia il figlio che entra è, in parte, l'altro da sé, il diverso, l'imprevedibile: come tale può essere o accettato o rifiutato. L'esito di tale risposta è strettamente legato al lavoro di accettazione (o rifiuto) che ciascuno dei due partners ha fi­nora condotto, attraverso il gioco collusivo di coppia, verso quelle parti di sé che l'altro continuamente vi apporta: l'accettazione di queste permetterà di scoprire un nuovo modo di essere in relazione, creando così un modello che va oltre a quello appreso nella famiglia di origine, mettendo in evidenza quella energia trasformativa che nasce dalla relazione con l'altro.

L'accettazione o il rifiuto del bambino risulteranno stretta­mente legati al grado di accettazione che ciascuno ha saputo co­struire verso le parti infantili e impreviste proprie e del partner (42).

Complessa dunque è la situazione in cui preesistenti pro­blematiche non risolte costituiscono il terreno di innesto per il bambino che sta arrivando. Il bambino ultima àncora di salvezza di un matrimonio per altro in fin di vita, il bambino chiamalo a riempire il vuoto affettivo in cui vivono i due partners, il bam­bino sostituto del proprio sé ideale... sarà un bambino che non può venire accettato se non nella misura in cui risulterà funzio­nale alle richieste dei genitori. Tutti i terapeuti della famiglia fanno notare come in una relazione disfunzionale il figlio diviene il tramite della comunicazione tra i partners, soprattutto per quei problemi che riguardano aspetti che non possono essere affrontati direttamente perché aree di tensione.

Se è vero che una relazione triangolare è alla base di ogni sistema emotivo (15) e come tale permette di affrontare in modo più funzionale le tensioni all'interno di un sistema familiare, è altrettanto vero però che la letteratura clinica sulla famiglia si presenta piena di situazioni in cui i bambini sono usati come ca­pro espiatorio, come coloro che esprimono i disagi e le tensioni dei genitori, come coloro cioè che sono il sintomo dei loro geni­tori.

Quando invece in una coppia i due coniugi hanno un rap­porto soddisfacente e un sufficiente grado di differenziazione del sé, la loro relazione permetterà al bambino un inserimento nel nucleo familiare "sufficientemente buono": il figlio non sarà vis­suto come un'estensione della coppia, ma avrà riconosciuto il suo ruolo di persona autonoma con desideri e bisogni propri e rice­verà (e potrà dare) amore per quello che è (e non per ciò che altri vorrebbero che fosse).

Il figlio, è vero, rimane comunque in parte il luogo delle proiezioni e dei desideri dei suoi genitori. La misura di ciò sarà data però da quanto essi si vivono, a loro volta, deludenti di fronte ai desideri introiettati dei loro genitori. Il lavoro che at­tende la giovane coppia è quello di avvicinare sempre più il fi­glio fantastico e il figlio reale: ciò sarà possibile in misura pro­porzionale alla riuscita del loro processo di differenziazione e autonomizzazione dai genitori interni.

Il diventare genitori induce nell'area della coppia l'elaborazione di tutta una serie di cambiamenti, di perdite, di ristrutturazioni. Esso rappresenta un momento di crisi significa­tiva che, se inserita in un processo maturativo, esita in senso evolutivo e di crescita; in caso contrario facilmente produce rotture, distorsioni del rapporto, sintomatologia psichica, ecc.

Il periodo della gravidanza è importante per costruire lo spazio affettivo che accoglierà il bambino; lo è pure per la ela­borazione delle crisi e dei conflitti che accompagnano questo pe­riodo e che si rivelano necessari per la ristrutturazione della relazione di coppia e per la preparazione dei coniugi al ruolo di genitori.

 

Molte coppie nel momento di cominciare il lavoro di genitori 'dimenticano' di costruire e alimentare con pari intensità lo spa­zio per i coniugi; il modello appreso nelle famiglie di origine e i messaggi culturali secondo cui "tutto va fatto per i figli" (ma "tutto" che cosa?) rischiano di non far cogliere che, se la cop­pia dei coniugi muore, la coppia dei genitori non può costruire una famiglia sana. Lo spazio per il bambino e io spazio per la coppia, in una relazione funzionale, si alimentano a vicenda e sono strettamente collegati e interdipendenti.

 

 

II.3. La crisi di gravidanza: la nascita di due genitori

Proviamo ad approfondire, guardando diversi versanti, al­cuni dei cambiamenti più significativi che una coppia in gravi­danza deve produrre al proprio interno e nelle sue relazioni più significative.

Tutti gli studiosi della famiglia riconoscono che la nascita del primo figlio (e la sua attesa) costituisce unaimportante fase

di passaggio nel ciclo vitale di una famiglia, allo stesso modo in cui la maternità o la paternità costituiscono, in una dimensione personale, una fase significativa nel processo evolutivo di un individuo.

La nascita di un figlio altera tutta una serie di equilibri che la coppia si è costruita nel tempo e richiede una nuova ri­definizione di regole e di spazi all'interno del rapporto.

L'arrivo del figlio trasforma la situazione di coppia in una situazione triangolare[1]. I due coniugi devono far posto al bam­bino nel sistema familiare, preparandogli uno spazio fisico ed emotivo: questo processo implica una profonda ristrutturazione della relazione coniugale. Il diventare genitori comporta l'elaborazione, all'interno della coppia, di tutta una serie di cambiamenti, di perdite, di ristrutturazioni sia della realtà esterna che del proprio mondo interno.

Il periodo della gravidanza e il lavoro per diventare geni­tori è un momento di crisi, sia per la coppia che per i singoli partners, e in quanto tale offre delle potenzialità di crescita e di sviluppo; come d'altra parte può favorire aree di incompren­sioni e di rottura.

I processi di crescita individuale e di coppia, già avviati in precedenza, vengono stimolati, nel loro progredire, dalla nuova situazione. La presenza del bambino, anche già durante la gra­vidanza, impone "la defusione di certi livelli nella coppia, nuovi investimenti libidici e lo spostamento di cariche dal sé o dal partner al nuovo nato che viene così a rappresentare, per cia­scuno dei membri, una parte del loro sé, una parte del partner, una parte dei genitori (di origine)", ma contemporaneamente an­che "un elemento nuovo e imprevedibile che nessuno sa quanto si adatterà allo spazio e alle aspettative che gli sono state pre­parate e predeterminate" (38).

 

 

I partners e i loro genitori interni

Con la gravidanza la coppia si trova di fronte ad una nuova realtà: la riattualizzazione delle relazioni parentali che ciascuno dei membri ha vissuto nelle proprie famiglie di origine in riferimento alla coppia dei genitori. Entrambi rivivono ora sentimenti molto primitivi e regressivi che richiamano aspetta­tive, desideri e bisogni del proprio sé infantile: è come se in qualche modo essi si consentissero di ri-vi vere, attraverso il fi­glio, la propria infanzia, ripetendola e risanandola, in un certo senso 'riparando' a quelle privazioni che sentono di aver subite a loro volta da parte dei propri genitori.

Per ciascuno dei partners essa innesca un momento di crisi nel processo evolutivo personale. A ciascuno si impone un rima­neggiamento dei processi di identificazione e, tramite la riattualizzazione di conflitti arcaici, la necessità di giungere come ad una identificazione rinnovata, della donna con la propria madre e dell'uomo con il proprio padre.

Se al momento della scelta del partner e della costruzione della propria coppia ciascuno dei coniugi ha dovuto rivedere la propria relazione con il genitore interno dell'altro sesso come modello di confronto per un partner ideale, ora è con l'altro ge­nitore che va saldato il conto: il modello di padre per l'uomo è il proprio padre, così come per la donna è sua madre l'oggetto del raffronto e dell'identificazione. (Ovviamente in ambedue i casi il processo avviene all'interno di un continuum dalla doppia pola­rità: modello-da-ripetere/modello-da-negare).

In questo modo, ponendosi come 'nuovi' genitori verso il nuovo nato, essi ricostruiscono dentro di sé una relazione più matura con i propri genitori: è il processo di differenziazione che continua. "Vorrei non fargli mancare niente, come ha fatto mio padre con me", oppure "Io non voglio ripetere gli errori di mio padre" è quanto ci sentiamo dire continuamente da parte dei giovani genitori.

È una situazione nuova quella in cui si vengono a trovare. Il lavoro di costruzione del ruolo di padre e di madre porta i futuri genitori a vivere un'esperienza di perdita e di lutto: essi dovranno rinunciare al privilegio di poter essere esclusivamente figli, con tutti i vantaggi che questo ruolo comporta. Diventare genitori, inoltre, significa entrare in competizione con le figure parentali interne, sostituirsi ad esse e in qualche modo spode­starle: vissuti che possono evocare sensi di colpa e timore di abbandono da parte dei genitori reali, ma soprattutto da parte dei genitori interni.

Tali timori sono legati anche al progetto che il futuro ge­nitore sta elaborando: quello cioè di riparare, attraverso la nuova esperienza, a quelle deprivazioni che egli ritiene di aver subito nella sua infanzia. In questo contesto, la richiesta di accettazione del nuovo nato che viene rivolta ai nonni assume la connotazione di una rinnovata richiesta di accettazione di sé all'interno della famiglia di origine. E se il confine che la cop­pia si è costruito non è sufficientemente definito e stabile ri­spetto alle famiglie di origine, il nuovo nato rischia di assumere il ruolo di "nuovo fratellino per i genitori che abdicano così alla loro funzione in favore dei nonni" (42).

Grazia e Andrea hanno 27 anni. Sono laureati, lavo­rano, anche se svolgono un'attività piuttosto precaria.

Lui è il più grande di tre figli, il fratello e la so­rella sono rispettivamente di 4 e di 9 anni più piccoli. A 17 anni gli muore il padre e subito gli dicono che ora è lui a doverne assumere il ruolo e le funzioni in casa. Lei è la 2a di quattro figli: ha una sorella, più grande di un anno, e due fratelli di 4 e 5 anni più piccoli. Suo padre è uno stimato professionista, piuttosto assente da casa e la madre è colei che ha portato avanti la famiglia. In casa dei genitori oltre ai due fratelli - la sorella più grande è già sposata e ha una bambina - vive anche la nonna paterna che "anche se ha 90 anni, fa ancora ri­gare diritto tutti quanti!".

In seconda seduta (5 mesi e 1/2 di gravidanza) Gra­zia racconta un sogno fatto circa 20 giorni prima. È in montagna con altra gente e c'è anche suo fratello, "il più piccolo"; a un certo punto questi cade dalla montagna e muore. "Mi sono svegliata dalla paura e ho pensato: per fortuna non era vero!". Un'altra volta dice - ho sognato il mare, l'acqua... dentro il mare c'erano i fratelli, l'acqua era molto alta, ci copriva; c'era un senso di paura.

Anche Andrea porta un sogno. C'è la guerra, loro sono in campagna, c'è un laghetto con l'acqua; stanno fuggendo e Grazia deve partorire. Lei ha partorito vi­cino ad una fontana: "è stata una cosa molto tranquilla e dolce, anche se tutt'intorno c'era la guerra". Quando viene fuori il bambino lui non lo vede, "non aveva una forma, né un'identità" e corre subito a dare la notizia ai genitori, suoi e della moglie.

Questi sogni e le associazioni che li accompagnano ci dicono che il bambino che Grazia porta dentro di sé è come se non fosse ancora suo figlio, la vera mamma non è lei, ma sua madre, e lei si sente in realtà come una so­rella che sta rivivendo la sua relazione con i fratelli-figli-di-sua-madre con i quali si sente ancora in parte 'dentro l'acqua'. Gli attacchi al bambino - poco dopo parlerà anche del suo timore che possa nascere handicap­pato e di come questo pensiero la tormenti - sono in re­altà attacchi al figlio della mamma, al fratellino piccolo nei confronti del quale lei continua ad essere la sorella più grande.

Anche per Andrea questo bambino è in parte dei genitori, (suoi o della moglie, non ha importanza): va subito da loro infatti per dare la notizia della nascita del figlio "abbandonando - noterà poi Grazia - sia la moglie che il bambino".

Questo bambino è portatore di una forte carica am­bivalente. Da una parte è per loro uno stimolo a diventare una coppia adulta e matura, dall'altra li ripone nella an­tica funzione di figli. Andrea deve offrire il figlio alla propria madre per farsi perdonare di essere uscito di casa e di averla abbandonata per un'altra donna; Grazia, facendo un figlio per sua madre, riattualizza a sé stessa la nascita dei fratelli, perciò non può fare a meno di at­taccare questo 'fratellino' che cresce nel grembo della madre. Solo che questo 'fratello' ora è impiantato nel suo utero: in parte egli è un fratello e in parte un bambino suo; ma nel momento in cui l'accetta come figlio lei si vede costretta a collocarsi come donna adulta e separata di fronte a sua madre. In questo suo processo di cre­scita/separazione lei vorrebbe l'aiuto del marito (marito/madre contenitore di questa nuova coppia madre- figlio) che però non ha avuto nella sua vita un modello paterno con cui identificarsi, se non un padre 'che ab­bandona’ (suo padre muore che lui è ancora un adole­scente).

Andrea anche lui deve scegliere se assumersi la re­sponsabilità di avere un figlio, o se restare figlio, rifug­gendo da questa nuova situazione di marito/padre e pre­cipitarsi a portare il bambino, appena nasce, a casa di sua madre come un nuovo fratellino (quando Grazia par­torisce lui 'scappa' lasciando li sua moglie da sola con il figlio per correre dai genitori a 'portare la notizia').

Questo bambino si pone dunque come a metà, spin­gendo la coppia in una potenziale duplice direzione in cui essa dovrà fare la sua scelta: se verso una linea patolo­gica regressiva (il bambino come figlio appartenente alla mamma e al papà, l'attacco al bambino-fratello, in un at­teggiamento dimissionario rispetto alla prospettiva di cop­pia genitoriale), oppure nella direzione di una faticosa crescita che porterà verso la separazione dai propri ge­nitori e la creazione di una nuova coppia che non potràaver luogo se non attraverso l'elaborazione del lutto che accompagna la morte di sé stessi come figli rispetto ai propri genitori interni.

 

L'uomo e la donna di fronte alla gravidanza: similitudini e diffe­renze

La crisi legata al cambiamento che la nascita di un figlio produce richiede un'ampia riorganizzazione, non solo degli spazi esterni, ma anche e soprattutto, degli spazi interni. I genitori dovranno creare nella loro mente lo spazio necessario a conte­nere sia l'idea di un bambino come figlio, che l'idea di loro stessi come genitori. In un certo senso potremmo dire che già il desiderio di avere un figlio è l'inizio della creazione di questo spazio.

Questo momento della storia personale di ciascuno dei due partners - crisi/cambiamento/crescita - rappresenta un'area "i cui confini si confondono con quelli di aree assai più antiche" (38). L'immagine di sé come bambino, l'immagine interiorizzata dei propri genitori e l'immagine dei rapporti tra il sé bambino e i propri genitori vengono ora inevitabilmente rivisitate. Il la­voro di maternità/paternità comporta una destrutturazione che, mentre richiama vissuti molto arcaici, rimanda a nuovi possibili equilibri. Così come, del resto, ogni altra crisi nel processo evolutivo di un individuo rappresenta in pari tempo un momento ricco di innumerevoli potenzialità e carico di molteplici rischi involutivi[2].

I due partners presentano comunque, oltre a questi aspetti che li accomunano, anche dei momenti che li differenziano nei loro vissuti personali in relazione alla nuova situazione. Ne indi­chiamo alcuni.

 

La donna

 

Le modificazioni del sé corporeo consentono alla donna una partecipazione e una conoscenza dell'evento molto più diretta di quanto non avvenga invece per l'uomo.

"Per la prima volta da quando è venuta al mondo la donna non è più sola" e anche se non esiste una gravidanza priva di conflitti, "normalmente essa è accompagnata da una grande sen­timento di felicità" (45).

Questo particolare stato di piacere, sostenuto dal senti­mento del ripristino di quell'unità originaria con il corpo ma­terno, è parallelo a un altro vissuto che si presenta, invece, come una potenziale minaccia per la propria individualità. La modifica della propria immagine, che la gravidanza man mano produce, comporta una perdita del proprio sé corporeo e la con­seguente necessaria acquisizione di una nuova immagine che, sia pure a livelli di vissuto meno profondo, si pone come antagoni­sta all'immagine erotica della donna. Essa viene così a trovarsi in una situazione di 'perdita' che, per essere adeguatamente metabolizzata, le richiede di "fare il lutto della precedente imma­gine di sé" (27). Lo stato di equilibrio del sé viene in qualche modo alterato dall'esperienza, che accompagna soprattutto l'inizio della gravidanza, di sentirsi crescere 'un corpo estraneo' che può essere vissuto come una minaccia per il proprio corpo. Tutto il lavoro di differenziazione, che aveva accompagnato la donna nel suo processo di crescita, si viene a scontrare con le fantasie di duplicato, col cedere una parte di sé per la nascita di qualcun altro. Tutto ciò genera "la paura e il presentimento di morte che ogni donna incinta prova; ciò che muta il dono della vita in una perdita della vita stessa" (ib). Una donna 32enne, venuta in terapia con il marito a causa di una sterilità psicogena della coppia, ci disse proprio in prima seduta che "non ci poteva pensare a sentirsi qualcosa che le poteva cre­scere dentro".

"Ma la donna porta con sé anche il doppio materno, la fi­gura cui deve ricongiungersi per poter generare: la gravidanza è il momento in cui tre generazioni coesistono in un corpo e si configurano in un tempo in cui il passato e il futuro si attualiz­zano nel presente" (ib).

La nascita di un figlio offre alla donna l'occasione di com­piere un cammino a ritroso estremamente importante per la sua crescita: lei rivive in qualche modo la propria nascita e attra­verso questa esperienza 'si prepara' ad essere una 'buona ma­dre'. Scrive Winnicott (55): "Noi osserviamo nella madre ge­stante una crescente identificazione con il bambino. Ella lo sente come un soggetto interno, un oggetto che immagina come forma­tosi dentro di lei ed ivi mantenutosi malgrado tutti gli elementi persecutori che pure vi si trovano. Egli assume nella fantasia inconscia della madre altri significati, ma la caratteristica prin­cipale sarà la sospensione, come pure la capacità, da parte della madre, di far defluire l'interesse dal suo proprio io verso il bambino. Ho indicato questo aspetto dell'atteggiamento della ma­dre come 'preoccupazione materna primaria'”.

Il ripercorrere il proprio iter gestazionale farà nascere la donna come madre nel momento in cui nascerà il bambino.

 

L'uomo

 

Per l'uomo la gravidanza è una 'cosa' molto più sconosciuta, vissuta, soprattutto all'inizio, prevalentemente attraverso le mo­dificazioni del suo rapporto con la moglie. La regressione della donna, funzionale all' acquisizione del suo ruolo di madre, lo pone spesso brutalmente nella necessità di doversi occupare in funzione quasi genitoriale della moglie, del suo (di lei) sé in­fantile. "Come la donna diventa mano a mano contenitore del fi­glio che si sta formando in grembo, egli deve divenire conteni­tore della nuova unità madre-bambino" (42). Questa esperienza contribuisce, insieme ad altre che con il procedere della gravi­danza gli si presentano, a rafforzarlo e sostenerlo nella costru­zione del suo ruolo di padre.

Anche per lui la nascita rappresenta una duplice nascita: del bambino che diventerà suo figlio e di sé stesso nel suo nuovo ruolo, quello di padre.

A livello fantasmatico il diventare padre assume una plura­lità di significati e risponde simbolicamente a diversi bisogni di un individuo.

Nella fase iniziale della paternità l'uomo attraversa un deli­cato momento di ristrutturazione psichica: si vede costretto a rielaborare, nella nuova veste di padre, sentimenti e reazioni molto intense e arcaiche vissute precedentemente come figlio.

La nascita imminente riattualizza anche nell'uomo l'esperienza della propria nascita. "Le esperienze di rebirth ci mostrano come, conservando nella nostra memoria inconscia il ri­cordo della nostra nascita, possiamo abreagire la carica emotiva di quella esperienza angosciosa: la couvade aveva questo effetto. Si insiste spesso sull'identificazione del padre con la donna, rifiutando di studiare l'identificazione con il bambino. La nascita fa rivivere al padre turbamenti arcaici che altrimenti potrebbero soltanto somatizzarsi" (27). Alcune volte, per la ve­rità, la somatizzazione accompagna comunque la nascita di un fi­glio.

In una delle coppie con cui recentemente abbiamo la­vorato, il marito, qualche giorno dopo la nascita della fi­glia, sviluppa una febbre, non molto alta (37-38°) ma persistente, che dura per un intero mese, accompagnata da "dolori sotto lo stomaco", che lo porta ad uno stato di debilitazione generale al punto da richiedere due ricoveri successivi in ospedale. Tutti gli esami clinici e di labo­ratorio risultano negativi e tutte e due le volte viene di­messo con diagnosi "febbre di origine sconosciuta". Al termine di questo mese la febbre se ne va "altrettanto misteriosamente di come se ne era venuta" ci racconte­ranno poi Franco e sua moglie.

L'evolversi del sentimento paterno è un processo complesso che impegna l'uomo ad una rielaborazione profonda la cui matu­razione appare spesso lunga e difficoltosa; essa ha inizio sin dal momento in cui il figlio comincia a vivere nella mente dei geni­tori. L'ascolto di queste reazioni emotive, dei timori profondi e dei dubbi che emergono nel futuro padre possono dare origine a sentimenti ambivalenti e a profondi conflitti.

Il rituale della couvade si configura in qualche modo come una risposta al desiderio dell'uomo. Coricandosi, lui esprime la propria paternità e contemporaneamente, prendendo sulle braccia il neonato, rassicura non solo quest'ultimo, che passa dal don­dolio del corpo materno al dondolio attraverso il corpo paterno, ma anche sé stesso nel momento in cui realizza il legame con il proprio figlio.

Perché anche l'uomo possa giungere alla condizione di poter svolgere la 'funzione paterna', è necessario che il periodo della gestazione, fantasmatica e biologica, all'interno della coppia venga utilizzato per la costruzione del suo nuovo sé.

L'uomo, a) attraverso il processo di identificazione con il figlio, ripercorre la propria storia personale come figlio; b) in pari tempo deve rielaborare l'immagine paterna, con riferimento a quella che lui ha vissuto in relazione a suo padre. La costru­zione di sé come padre è un processo complesso che si muove tra i due poli: essere padre 'come suo padre' o realizzare 'il contrario' dell'immagine paterna. (Per di più in questo processo non solo la sua coppia genitoriale interna diventa significativa, ma anche l'immagine paterna che la sua donna ha dentro di sé e che inevitabilmente gli propone come modello); c) rispetto alla costruzione di una coppia genitoriale che sta realizzando con sua moglie, deve confrontarsi con la coppia genitoriale interna (e 'combinarla', poi, con quella della sua compagna).

La possibilità di svolgere la sua funzione di padre è stret­tamente legata alla riuscita di questo complesso processo.

Il bambino vive in un rapporto simbiotico con la propria madre; che egli possa progressivamente uscirne, differenzian­dosi, è strettamente correlato alla capacità di suo padre di inne­scare, favorire e alimentare il processo di separazione. Questa è la funzione primaria, riteniamo, che un padre deve svolgere per favorire la salute del bambino, della madre e di sé stesso. È dall'equilibrio tra queste due forze, la separazione (propria della funzione paterna) e il mantenimento del legame (proprio della funzione materna) che nasce il benessere dell'individuo e della famiglia.

 

 

II.4. La crisi di gravidanza: la nascita dei nonni

 

Anche per i nonni l'arrivo del 'nuovo nato' comporta la ne­cessità di un passaggio ad un altro gradino del processo evolu­tivo.

Essi ora possono costruire un nuovo rapporto con i propri figli e con l'immagine di sé stessi. I figli stanno per diventare genitori: se da una parte questo li pone in un rapporto di com­plicità come appartenenti alla stessa classe/generazione, dall'altra però ne sentono tutto il rischio: quello di sentirsi esautorati nella loro funzione di genitori. I tentativi di intromis­sione nella nuova famiglia (consigli continui, suggerimenti, criti­che, visite molto più frequenti e prolungate, ecc.) sono un modo per dire a sé stessi che ancora la loro funzione di genitori non è esaurita e contemporaneamente un tentativo di risposta al loro desiderio di 'riparazione' verso il modo in cui sono stati ge­nitori, che si è senz'altro concretizzato con una certa distanza dal progetto ideale che essi, a loro volta, avevano elaborato al momento di costruire la loro famiglia.

Nella famiglia B. Luciana, figlia unica, venticinquenne, rimane incinta e partorisce una bambina, Katia. Padre di Katia è un compagno di Luciana con cui lei sta vivendo in una città diversa da quella dei genitori, ma con la quale non forma una coppia stabile: sembra essere più l’eroina a tenerli uniti che un legame affettivo reale. I genitori di Luciana fanno del tutto per avere con sé la nipotina, interessandosi anche presso l’autorità giudiziaria. Mostrano preoccupazione per la figlia e interesse a riportarla con loro, insieme con la bambina. Luciana torna con i suoi e porta con sé la figlia. Una volta però ottenuto l’affidamento della nipotina, l’attenzione dei nonni è tutta per lei e la figlia diventa sempre più un’intrusa, tanto che quando un giorno Luciana se ne va (Katia ha solo pochi mesi), non si danno per niente la pena di aiutarla a ritornare, pur sapendo, su un piano di coscinza, de addirittura esplicitando che “la bambina ha bisogno di sua madre” e che “la cerca per tutta casa”.

Questi nonni sembrano non riuscire ad accettare una figlia ora diventata madre, come non riescono a vivere il legame con Katia come un sano rapporto nonni-nipote. La bambina rischia di diventare la 2a figlia con la quale ri­parare ai vissuti di colpa per non essere stati "bravi ge­nitori" (con Luciana).

Contemporaneamente gioca un ruolo importante la perce­zione, indotta dalla realtà di una terza generazione ormai pre­sente, della inesorabilità del naturale cammino verso la morte. La capacità di accettare questa come un processo naturale, o la fuga nella negazione, sono elementi determinanti e costitutivi dell'atteggiamento con cui iniziano e svolgono la loro funzione di nonni.

Da un punto di vista più propriamente sistemico, potremmo dire che la costruzione di confini chiari e definiti che la coppia (dei nonni) è venuta facendo nella sua lunga storia, ora racco­glie i frutti, permettendo loro di accettare il nuovo ruolo di nonni e di accogliere la nuova famiglia, senza sentire la capacità di vita autonoma di quest'ultima come un attentato alla loro pro­pria.

Accettare che i propri figli diventino genitori significa un po' riconoscerli sul loro stesso piano, farli entrare a pieno titolo nel mondo degli adulti, in quel mondo "misterioso" di cui ave­vano chi sa quante volte parlato "quando avrai i figli tu, allora potrai capire...!". Ora i figli ci sono, dunque non si può ri­mandare oltre.

Se i propri figli ora hanno i loro figli, ciò significa anche che essi sono diventati nonni. Essere nonni è una soddisfazione che dà anche un immenso piacere: è un po' come sentire che la propria vita continua e poterne cogliere tutta la grandezza e la potenza.

Significa anche sentire che ora la propria vita sta entrando in una dimensione nuova (di spazio, tempo e funzioni), diversa, da accettare e da costruire. Anche il loro processo evolutivo, dunque, continua.

Se durante il viaggio hanno saputo guardarsi ogni tanto e rivolgere gli occhi l'uno sull'altro, ora si conoscono bene e il nuovo incontro e il nuovo stare insieme, da soli, senza figli, è come un tesoro custodito e ritrovato. Se invece i loro occhi hanno guardato sempre e soltanto i figli, ora sarà difficile ritro­varsi e farsi compagnia... Non solo, ma sarà un bisogno di so­pravvivenza continuare a guardare i figli invadendo quello spa­zio familiare autonomo che essi si stanno costruendo.

Perché i nonni e i genitori possano incontrarsi è necessario costruire un terreno di accettazione: di sé e dell'altro.

Il nonno ha bisogno di fare amicizia con la nuova immagine di sé stesso come persona che ha raggiunto certi livelli evolu­tivi, legati all'età e alla esperienza, attraverso il superamento delle tappe precedenti. (Si pensi, ad es., a certi nonni che non vogliono essere chiamati "nonno" dai loro nipoti, perché così si sentono "vecchi": come se essere vecchi fosse una colpa o una disgrazia di cui vergognarsi!).

Accettarsi come nonno è una premessa indispensabile perché possa accettare il cambiamento nei suoi figli che ora sono di­ventati genitori.

Permettere ai propri figli di essere - quindi di fare - i ge­nitori è molto importante perché essi stessi possano darsi il permesso di entrare in questa nuova area (l'area genitoriale) che ha ospitato finora gli attuali nonni.

Il nuovo genitore ha bisogno di costruire questa nuova im­magine di sé: quella di adulto "capace" di trasmettere la vita e di prendersene cura. È per lui importante che possa sentire di avere il permesso dai propri genitori, che gli venga riconosciuta la capacità e la competenza (e il diritto ad esercitarla).

È questo un lavoro interno che porta avanti con il/la suo/a compagno/a.

La chiarezza di ruoli e il rispetto di essi permette ai nonni di fare i nonni e ai genitori di fare i genitori.

Il nonno, dicevamo sopra, è ora l’assistente di volo, il genitore è il pilota nella nuova famiglia. In caso d’emergenza il pilota va sostituito, non potendo restare vuoto il suo posto. Ma ciò non autorizza ‘assistente a lavorare per scalzarlo dalla sua sedia; né autorizza il pilota a scendere al primo ostacolo o alla prima critica. (Si pensi a quei nonni che continuamente fanno osservazioni e critiche ai propri figli in nome di un'esperienza che, in verità, si rivela tanto meno digerita quanto più dichia­rata; si pensi anche a quei genitori che subito scendono dal seggiolino di comando, alla prima osservazione o alla prima diffi­coltà, svendendo al primo venuto - un nonno, uno zio, un inse­gnante, un vicino di casa, ecc. - il loro compito di educatori e sostegno verso i figli).

C'è da osservare, infatti, che se c'è chi tenta di prendere il posto di un altro, questo comportamento è spesso accompa­gnato da un atteggiamento speculare che l'altro pone in atto: non fa niente, cioè, per conquistare il suo posto o per conser­varlo... (si riconsideri il concetto di causalità circolare[3] degli eventi).

I nonni restano sempre genitori per i propri figli; ma non sono genitori dei genitori. Questo è un punto importante per gli uni e per gli altri. Nonni e genitori possono incontrarsi sulla strada dell'ascolto reciproco e del confronto sulle esperienze e sulle scelte educative e di vita. Possono ospitarsi reciprocamente e sentirsi ospitati nel territorio altrui: ospitare ed essere ospite è tutt'altra cosa che attuare un'invasione.

Che il genitore sia rispettato come tale e si possa rispettare egli stesso è una necessità non solo sua, ma anche dei figli.

Il bambino ha bisogno di sentire che i suoi genitori hanno l'autorità (= l'autorevolezza) per essere genitori. Egli ha bisogno di avere in loro il suo punto di riferimento. Quei nonni che cor­reggono (o criticano) i propri figli di fronte ai nipoti o cercano di correggere sui nipoti stessi certi input educativi dei genitori, non solo non sono utili a nessuno, ma diventano dannosi ai bam­bini proprio in quanto tolgono loro la possibilità di avere un punto di riferimento stabile e sicuro. Non è pensabile, né ac­cettabile - salvo situazioni estreme - che i nonni possano sosti­tuirsi ai genitori.

 

Uno spazio per la coppia dei nonni

 

Nonni e genitori sono anche marito e moglie. È ovvio, ma non troppo!

Spesso, infatti, quando si diventa genitori si mandano in pensione i coniugi, come se avessero già esaurito il loro compito e finito il loro lavoro.

Quale spazio rimane per la coppia una volta nato il figlio? Provate a chiedere a una mamma (o a un padre) da quanto tempo non esce più con suo marito (con sua moglie), loro due, da soli. Vi diranno che da quando sono nati i figli a loro piace uscire tutti insieme. Se insistete nella vostra ricerca, spiegando che uscire qualche volta significa magari soltanto una volta al mese, o una volta ogni tanto, vi accorgerete come essi vi guar­deranno sempre più esterrefatti, con gli occhi sgranati, mentre toccano con mano che dalla nascita dei figli hanno messo "i co­niugi in panchina" e sono diventati "genitori a tempo pieno", senza lasciare più uno spazio privato per loro come coppia. Alcuni giungono perfino a portare il figlio a letto con loro, perché "non vuole dormire da solo". In una famiglia con un fi­glio di 8 anni, questo bambino va a dormire con la mamma e il babbo se ne va in un'altra stanza, sul letto del figlio. Questi genitori stanno distruggendo la loro coppia in nome di una di­sponibilità "totale" verso il figlio. Alcune domande dovremmo porci: perché questi due coniugi non riescono a conservare un'area minima di sopravvivenza come coppia? che vantaggi cre­dono di offrire al figlio se lasciano morire così facilmente la loro coppia? Che cosa stanno chiedendo a questo bambino... di pro­teggerli dalla loro intimità? Che senso ha nell'economia affettiva di questa famiglia restare così aggrappati ad un figlio da non proteggere nessuno spazio di sopravvivenza, né per la coppia, né per il figlio stesso?

Questa è un'area in cui i nonni possono essere di grande aiuto; oppure di ostacolo. Già attraverso la loro esperienza di vita avranno dato ai figli un "modello" per fare i genitori. Ognuno di noi impara i fondamenti di questo "mestiere" alla scuola della propria famiglia (salvo poi ad apportarvi qualche correzione). Se essi hanno saputo conservare uno spazio per sé come coniugi, avranno ora la capacità di sostenere i propri figli nel prendersi cura della salute della loro coppia. Se non hanno saputo farlo, ora rischiano di rinforzare questa eredità niente affatto salutare. Essi per primi non ce la fanno a fare a meno dei propri figli: se è su loro che gli occhi sono stati sempre puntati, adesso che questi figli se ne sono andati di casa come fanno?

Una signora, sulla settantina, in ottima salute lei e suo ma­rito, mi parlava della sua grande rabbia verso i due figli che, sposati, se ne erano andati a vivere con le loro famiglie ed ave­vano "abbandonato", diceva, lei e suo marito, lasciandoli soli... Ogni volta che questi venivano a trovare i genitori, lei li mal­trattava rinnovando l'accusa di averla "abbandonata". Questo sentimento di abbandono era così forte che non riusciva a com­prendere e ad accettare come il primo dovere dei figli fosse proprio quello di prendersi cura delle loro famiglie, proprio come lei e suo marito avevano fatto a loro volta.

Quei genitori che "fanno tutto per i figli", senza curarsi nello stesso tempo di loro stessi e della loro vita di coppia, non si rendono conto di come li stiano in realtà imprigionando in una trappola relazionale da cui dovranno faticare molto per uscire; se pure ce la faranno... È come se ai figli si chiedesse di dare senso alla vita dei genitori, che altrimenti sarebbe vuota e priva di ogni significato.

È un diritto fondamentale di ogni figlio quello di non sentirsi costretto a riempire la vita dei suoi genitori, questo a 5, 15, a 30... per sempre!

 

Una nota

Vorrei fare un'osservazione.

Dalla ricerca che sto facendo da qualche tempo in questa area ho potuto evidenziare come la letteratura affronti molto poco il tema dei nonni. Si parla e si scrive sugli anziani, ma più come problema sociologico da affrontare e per il quale escogitare risposte, o nelle problematiche relative per es. alla psicoterapia degli anziani, piuttosto che come ricerca e approfondimento sulla figura del nonno.

Da osservare, in proposito, alcune cose:

1) Non c'è una coincidenza di ruoli e funzioni tra anziani e nonni: oggi si è nonni a cinquant’anni, quando cioè si è ancora nel pieno delle proprie capacità fisiche, psichiche e produttive.

2) Nella famiglia attuale, se da una parte c'è la tendenza a favorire uno spazio privato per la famiglia nucleare (oggi la fa­miglia 'patriarcale' sta diventando un ricordo del passato), dall'altra, però, con la nuova organizzazione del lavoro, so­prattutto femminile, la funzione dei nonni sta prendendo sempre più spazio.

3) La figura del nonno, come già ho avuto la possibilità di dire sopra, è una figura assai significativa nella storia evolutiva di un individuo. Per limitarsi anche solo alla clinica, da essa emerge con evidenza come ciascuno ha introiettato momenti molto importanti vissuti in relazione con un nonno o uno zio più an­ziani.

4) Nel processo evolutivo di una persona, potersi permet­tere di vivere 'da nonni' una relazione con i figli dei propri figli che sia più 'libera' da impegni di responsabilità 'totale' - come è quella che da genitori si vive verso i propri figli - è senz'altro un importante momento evolutivo in cui ci si può concedere di sentire il fluire della vita e di godersi il proprio tempo e la propria libertà.

Probabilmente sta arrivando il tempo in cui la psicologia, nelle sue varie specialità, dovrebbe occuparsi seriamente anche di questo argomento.

 

 

PARTE III

L'APPROCCIO ISTITUZIONALE ALLA GRAVIDANZA

 

III.1. La prassi istituzionale

Nella prassi istituzionale, la gravidanza viene considerata ancora troppo spesso come un fenomeno puramente biologico e quindi come un fatto che riguarda solo la donna e il suo corpo che si modifica. Ambulatori ostetrico ginecologici, ecografi, cardiotocografi, ecc. stanno riempiendo gli spazi degli ex consultori familiari e li stanno trasformando in consultori dove di "familiare" - cioè di servizio alla famiglia - rimane sì e no il nome.

Sfugge, nella maggior parte dei casi quanto anche l'apparato psichico sia coinvolto nel determinare il processo evolutivo della gravidanza (come anche quegli altri eventi che ad essa si possono in qualche modo ricondurre: sterilità psicosoma­tica, aborti spontanei, distocie di parto, ecc.). Più ancora ci pare che sfugga come esso avvenga all'interno di una relazione di coppia (ufficiale o non) che è basata sull'incontro di due mondi interni, di due famiglie e di due storie, personali e fami­liari, con le quali continua ad essere tuttora in relazione

Un allargamento di prospettiva, che comprenda anche l'apparato psichico e il contesto relazionale di coppia, ci con­sente di cogliere come l'attesa e la nascita di un figlio:

a) rappresentino una fase assai significativa nel ciclo vitale di una coppia,

b) che, come tale, comporta la necessità di una ristruttura­zione della realtà interna ed esterna di ciascuno dei due partners e della coppia nel suo insieme.

Già Winnicott aveva parlato della necessità di "studiare la madre indipendentemente dall'aspetto puramente biologico" (55) per una comprensione più profonda della relazione di questa con il bambino.

Noi crediamo che il contesto di osservazione e di studio (quindi di intervento) nel momento in cui ci si avvicina al feno­meno gravidanza debba essere ulteriormente esteso e compren­dere, oltre gli aspetti biologici, anche: a) le dinamiche interne a ciascuno dei due partners, b) le dinamiche di coppia, c) le re­lazioni di ciascuno e della coppia con le famiglie di origine di entrambi.

* * *

L'attività di psicoprofilassi ostetrica è entrata ormai come lavoro di routine nei Consultori familiari e/o nei reparti di ostetricia dei vari Ospedali. Accanto agli indubbi vantaggi che essa comporta, ci pare si debba cominciare ad analizzare anche certi limiti insiti, a nostro parere, nel concetto stesso di "preparazione al parto" (È questo il modo in cui l'attività viene di solito indicata: "corsi di pre­parazione al parto". Non è solo un problema di definizione: ci pare non si debba sottovalutare come la denominazione che si dà ad un'attività ne definisca, più o meno consapevolmente, anche gli obiettivi).

Da diversi fronti mi sono trovata spinta a ripensare questa attività che ormai, insieme ad altri colleghi, sto conducendo da oltre dieci anni. Primo fra questi fronti la clinica con le coppie e con le famiglie.

Le riflessioni sulla complessità del processo - alcuni aspetti del quale ho già richiamato in questo lavoro - ci hanno posto nella necessità di formulare una risposta ad una domanda che a nostro parere va ridefinita sia verso gli utenti, che verso l'istituzione. L'attenzione alla pluridimensionalità dell'evento na­scita (biologica, psicoaffettiva e relazionale) va comunque soste­nuta (oseremmo dire: indotta) attraverso l'offerta di un servizio che si ponga come luogo di contenimento dei bisogni.

Accanto a queste riflessioni, per la verità, anche altri set­tori del mio lavoro hanno contribuito a mettermi nella necessità di ripensare e riprogettare l'intervento.

Particolarmente stimolante è stato, in questo senso, il la­voro fatto con alcune coppie che nel periodo della loro terapia sono restate incinte e hanno poi avuto il bambino: il materiale che queste portavano in seduta (pensieri, sentimenti, fantasie, sogni, problemi, timori, ansie...) era estremamente ricco e indi­cativo del coinvolgimento ai più vari livelli di profondità di am­bedue i partners.

L'altro settore, altrettanto stimolante, è quello dei "figli- sintomo-dei-propri-genitori" (bambini, adolescenti, o anche in età cronologica più avanzata) croce e delizia nella clinica fami­liare.

La fatica e il costo dell'intervento terapeutico, l'energia che questo richiede al terapeuta e alla famiglia, oltre che l'incognita di una riuscita non così facile verso il recupero della salute... tutto questo ci ha messi davanti ad una domanda: perché non impostare un lavoro di prevenzione almeno con quelle persone che già si rivolgono ai servizi in uno stato di 'salute' e non di 'malattia'? Perché non dare un servizio alle coppie in gravi­danza affinché siano in grado di affrontare questa tappa del loro processo evolutivo con le energie interne di cui dispongono e che difficoltà non adeguatamente affrontate nelle fasi precedenti, riattualizzate ora dalla 'crisi di gravidanza', tengono bloccate?

 

III.2. Un'ipotesi di revisione

Una revisione critica, dunque, si veniva imponendo da più parti: per operare un cambiamento è emerso come assolutamente necessario, a nostro parere, porre in atto uno spostamento del punto focale: dal parto alla nascita.Provo a spiegarmi.

Il fuoco sul parto comporta:

1) che si operi per una 'preparazione al parto1 visto come la conclusione di un processo a sé stante (la gravidanza), e non invece come un momento, sia pure molto significativo, ma pur sempre un momento, di un processo molto più ampio di cui, in realtà, la gravidanza non è che l'inizio: il processo della na­scita (nascita di un bambino, e nascita di due genitori);

2) che, di conseguenza, l'intervento sia diretto alla donna e quindi condotto quasi esclusivamente con essa: è la donna, del resto, che partorisce, ed una attività di 'preparazione al parto' non può che essere rivolta a lei. Non c'è posto per il partner se non per dirgli quel che deve o non deve fare se 'assiste' al parto della moglie; il tutto un po' come se fosse un elemento di contorno, più o meno facoltativo e comunque niente affatto coin­volto come individuo, se non per quegli aspetti organizzativi esterni propri della figura maschile nella famiglia occidentale;

3) che la coppia, dunque il soggetto attivo della gravi­danza/nascita, questa nuova unità, 'altro' dalla somma delle parti che la costituiscono, rimanga del tutto fuori da questo la­voro che, di fatto, la seziona e la nega in un momento così si­gnificativo per la sua storia.

Sono questi gli elementi che accomunano, in genere, i vari "corsi di preparazione al parto" organizzati nella maggior parte dei servizi.

 

Uno spostamento dell'attenzione sulla nascita come processo ci costringe a ipotizzare un intervento di 'preparazione alla na­scita' che si ponga come luogo di contenimento alla complessità dinamica del fenomeno. Il soggetto dell'intervento non è più la donna, isolata dal contesto, ma la coppia.

Se la 'crisi di gravidanza' investe ambedue i membri di una coppia, non possiamo far finta che essa sia un fatto solo della donna. Se è vero che un figlio "si fa in due", è altrettanto vero che un figlio si cresce in due e che lui ha bisogno di due geni­tori come figure di riferimento per una crescita sana. Ci pare che perdere di vista questa prospettiva nell'intervento istituzio­nale significhi riproporre un modello familiare che la psicologia, il pensiero sistemico e il pensiero psicoanalitico vorrebbero su­perato: la famiglia "senza padre" dovrebbe essere ormai più uno stereotipo del passato...

L'altro aspetto che ci ripropone la necessità di porre la coppia come soggetto dell'intervento nasce dalla constatazione di come sia tuttora diffusa quella che, con un'immagine sportiva, chiameremmo la "sindrome dei coniugi in panchina". Troppo spesso la clinica e il contatto quotidiano con le persone 'normali' ci evidenziano come pian piano, con messaggi e spostamenti quasi subliminali, lo spazio dei coniugi venga assorbito, fino alla sua scomparsa, dallo spazio dei genitori proiettati ormai verso un 'funzionamento a tempo pieno'.

* * *

Accenniamo ad una nostra ipotesi riorganizzativa dell'inter­vento, che stiamo tuttora verificando da un po' di tempo e che ha coinvolto finora oltre 50 coppie. Essa viene così attuata:

Con ogni coppia stabiliamo un incontro preliminare che serva ad una raccolta di informazioni di carattere psicosociale relative alla famiglia e alla gravidanza attuale, a presentare il progetto di lavoro e formulare il "contratto" con la coppia nel suo insieme. Inizia qui il lavoro di ridefinizione della domanda; lavoro che continuerà poi nelle fasi successive dell'intervento, che prevede due momenti paralleli:

a) degli incontri di gruppo per le coppie per permettere un'elaborazione nel gruppo dei vissuti che accompagnano la gra­vidanza e per un'attività di rilassamento e canto (35, 36, 37); il lavoro di gruppo inizia intorno al 6° mese di gravidanza per un periodo di due mesi e mezzo circa: 10-12 incontri con frequenza settimanale; conduttrice del gruppo è la donna della coppia te­rapeutica (v. sotto, il punto b)); ogni gruppo e formati da 6-8 coppie;

b) l'offerta a ciascuna coppia della possibilità di un incon­tro mensile con una coppia (eterosessuale) di terapeuti; ciascuna seduta ha la durata di un'ora e si svolge su materiale che la coppia liberamente introduce. Le sedute diventano uno spazio privato per la coppia nel suo insieme e per ciascuno dei due partners, per l'elaborazione di quei cambiamenti che si verifi­cano durante la gravidanza e che si manifestano attraverso le sensazioni, le fantasie, i desideri, i timori, i sogni, i comporta­menti, le aspettative, i sintomi di ciascuno dei due

  • in relazione al bambino che attendono,
  • in riferimento alle relazioni reciproche
  • e nei confronti delle famiglie d'origine, reali e interne.

Una particolare attenzione è posta dai terapeuti nel conser­vare l'autopercezione della coppia come coppia sana e 'normale' 3. Questa parte del lavoro inizia intorno al terzo-quarto mese di gravidanza: in genere dopo che la donna viene per una prima volta al consultorio (di solito per un controllo medico). Succes­sivamente viene offerta la possibilità di continuare le sedute an­che dopo il parto fino ad un anno di vita del bambino.

3 Nel campione considerato, quattro coppie hanno poi continuato un vero e pro­prio trattamento psicoterapeutico. L'attenzione alle dinamiche della coppia in gravidanza permette di cogliere fin dal momento di insorgenza certe linee di­sfunzionanti, favorendo così la precocità dell'intervento.

 

È un tentativo, il nostro, di tradurre in termini operativi istituzionali quanto ormai è acquisito su un piano più propria­mente teorico circa la complessità del momento 'attesa/nascita di un figlio' non solo per la donna o per l'uomo, presi isolata­mente, ma anche per la coppia nel suo insieme.

Porre la coppia come soggetto dell'intervento non può, però, significare l'annullamento della peculiarità che la donna vive e porta durante questo periodo (ciò non solo dal punto di vista biologico: comunque garantito dall'intervento ostetrico gi­necologico). Come rispettare l’una senza perdere di vista l'altra è allo stato attuale il punto di dibattito che vivacizza il nostro gruppo di lavoro. Punti diversi di focalizzazione ci differen­ziano: non senza significato, crediamo, siano anche i ruoli ses­suali che ciascuno di noi, come donna o come uomo, incarna. Ci ricorda Maturana che ogni scelta di campo è una scelta emozio­nale: solo successivamente interverrebbe l'apparato logico per fornire la necessaria coerenza...

 

 

NOTA CONCLUSIVA

 

A conclusione di questo mio lavoro, vorrei riprendere quanto ho già avuto modo di scrivere in un recente articolo ap­parso su Terapia Familiare (21), perché mi pare esso chiarisca abbastanza bene il mio pensiero attuale sulla necessità di strut­turare un buon lavoro da offrire alle famiglie che stanno attra­versando questa particolare fase del ciclo vitale: l'attesa di un figlio.

"La riflessione sulla complessità e potenzialità di questo momento del ciclo vitale e sulla sua significatività come 'investimento per la salute' e della famiglia e dei singoli membri, dovrebbe portarci, a nostro parere, a porre ad esso un'attenzione tutta particolare nei vari contesti dell'intervento sanitario: quello consultoriale materno infantile, quello della cli­nica psicoterapeutica e, ad altri livelli, nel contesto della elabo­razione dei progetti di prevenzione del SSN, con la conseguente ricerca di nuovi modelli operativi. La "sindrome del padre assente" - di cui pure si parla nella letteratura - e la "sindrome dei coniugi in panchina" - troppo poco considerata, invece, a nostro parere - sono costanti che sembrano caratterizzare la famiglia nel nostro conteso cultu­rale. Un aiuto adeguato ai bisogni dei due coniugi che stanno diventando genitori crediamo sia una valida forma di prevenzione verso la salute: nella sua accezione più completa di "benessere fisico, psichico e sociale" (OMS):

- salute di loro stessi, perché lo spazio figlio/genitori non invada, in una sorta di annessione forzata, lo spazio della cop­pia; e viceversa;

- salute del bambino, perché non si veda costretto nella rigidità di una relazione triangolare senza vie di progressione verso la sua individuazione.

Una curiosità. Ogni volta che contattiamo una donna incinta per chiederle anche la presenza del marito per il primo incontro, quello del contratto, ci sentiamo rispondere, immancabilmente, con un senso di meraviglia sottolineato dal tono della voce e dallo sguardo, come se avessimo detto chi sa quale stramberia: "Ma mio marito lavora!", come se lei fosse la prima a credere e a sentire che il far nascere un figlio è un fatto solo suo e il marito non deve essere disturbato o distratto dalla sua area specifica di uomo-lavoratore. Poi, dopo il primo incontro con la coppia - che, una volta superata questa iniziale resistenza, si concretizza piuttosto facilmente - i mariti diventano i primi nel farsi parte attiva nel superare quelle difficoltà organizzative che in qualche modo rischiano di intromettersi (orari di lavoro, per­messi, ecc.).

Che ci si stia realmente muovendo verso una società... con il Padre? Forse, allora, chi sa che anche i coniugi non ripren­dano a giocare!" (21).

Una parola in più vorrei aggiungere, invece, a proposito dei nonni.

Quando nasce un bambino, abbiamo detto più volte, nascono anche due genitori; nascono, per la verità, anche i nonni. Ab­biamo già detto della complessità del momento che essi stanno attraversando e di quanto il loro modo di porsi possa rafforzare le energie utili al cambiamento, quindi alla salute, o quanto in­vece esso possa contribuire a intensificare e irrigidire certe difficoltà evolutive che la nuova famiglia sta incontrando.

Veramente poco, mi pare, è stato studiato l'apporto, nel bene o nel male, di questa terza generazione.

Il movimento della Terapia Familiare, che sta attraversando una fase assai ricca di ricerche e di espansione - a Sorrento, proprio questi giorni si sta concretizzando il primo Congresso dell' E.F.T.A. (European Family Therapy Association) - do­vrebbe, a mio parere, allargare la sua attenzione dal coinvolgi­mento della terza generazione nello studio della psicogenesi del disturbo e nel processo psicoterapeutico, allo studio e alla ri­cerca dell'apporto di questa nel corso fisiologico del ciclo vitale che ogni famiglia, e ogni individuo, deve percorrere.

 

 

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[1] La relazione di coppia, in realtà, è solo virtualmente diadica, dato che pe­sano sulla relazione molti altri elementi che di volta in volta possono cam­biare. Esiste sempre un 'terzo1, fantastico o reale, un genitore dell'uno o dell'altro, o anche la stessa dinamica della coppia parentale di origine presentificata nella nuova relazione.

[2] La peculiarità di questo momento, che lo differenzia da ogni altro, sta nel fatto che l'andamento e l'esito della crisi, riflettendosi sulla relazione col bambino, diventa particolarmente significativo per la crescita di un altro indi­viduo. È la considerazione di questa peculiarità, proposta continuamente dalla clinica dei disturbi evolutivi, che ci ha portati a rivedere l'impostazione del nostro lavoro di 'preparazione alla nascita'. Questa attività, sia essa svolta nei servizi pubblici che in strutture private, è di solito indirizzata prevalen­temente, quando non esclusivamente, a 'preparare le donne al parto' (V. parti III e IV)

[3] II concetto di causalità circolare si contrappone, superandolo, al concetto di causalità lineare nella lettura e comprensione dei comportamenti umani. Nella realtà possiamo osservare come il comportamento di una persona sia contemporane­amente risposta al comportamento dell'altro e stimolo per lo stesso, in una re­lazione di causalità reciproca (53).