Ripensare la sofferenza.
Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi per le doglie del parto

 

F. Cardinali - in M. Andolfi e A. D'Elia (a cura di) Le perdite e le risorse della famiglia, R. Cortina ed., Milano 2007

 SOMMARIO

Premessa
- Quando il dolore congela: la perdita negata
- La ricerca di senso: salute o malattia?
- Dolore e sofferenza …e solitudine
- La sofferenza come processo evolutivo
- Scienza e tecnologia: dolore e sofferenza nella società contemporanea
- Tra miti e storia: da Pandora a Gesù di Nazareth
- Il terapeuta e il dolore che cura
Cercando una conclusione
Bibliografia

 

Cerca la ragione della tua esistenza
nella fiamma della lampada del dolore:
forse vi troverai
un tesoro eterno
(Tagore, 1961)

 

Premessa

 

Un giorno, nel piccolo pozzo in cui una rana è vissuta tutta la vita, salta una rana che dice di venire dall’oceano.
“L’oceano? E cos’è?” chiede la rana nel pozzo.
“Un posto grande, grandissimo” dice la nuova arrivata.
“Grande come?”
“Molto, molto grande”.
La rana nel pozzo traccia con la zampa un piccolo cerchio sulla superficie dell’acqua: “Grande così?”
“No. Molto più grande”.
La rana traccia un cerchio più largo: “Grande così?”
“No. Più grande”.
La rana allora fa un cerchio grande quanto tutto il pozzo che è il mondo da lei conosciuto. “Così?”
“No. Molto, molto più grande” dice la rana venuta dall’oceano.
“Bugiarda!” urla Kup Manduk, la rana del pozzo, all’altra. E non ne parla più[3].

 

Immersi nell’esperienza del dolore, facciamo fatica a sollevare il nostro sguardo e poter pensare che il pozzo di Kup Manduk non esaurisce la realtà dell’universo. La domanda che vorrei condividere con i lettori è quella che ci fa chiedere quale posto occupa il dolore nella vita degli uomini, più ancora, nella vita dell’universo per come noi lo conosciamo. Le parole messe a sottotitolo sono prese da un documento del I sec. d.C. scritto da Paolo di Tarso nella lettera ai cristiani di Roma: mi sono sembrate una straordinaria sintesi del pensiero che vorrei proporre. Incontrare la sofferenza come fase di passaggio, come dimensione necessaria di un processo evolutivo, proprio come il travaglio per una donna che sta per partorire. Il sapere che nascerà suo figlio non toglie né attenua il dolore delle contrazioni, ma le è di grande aiuto per viverlo con pensieri ed emozioni diverse da quelle che accompagnano l’esperienza del dolore, quando esso, sconosciuto nel suo significato, invade il corpo e, come tale, giunge carico d’ansia e d’angoscia.

 

 

Quando il dolore congela: la perdita negata

Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro,ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
(L. Tolstoj, 1875)

Giovanna, una signora sulla cinquantina contatta il nostro Istituto[4], inviata dal neurologo che ha in cura Elisa, la figlia quindicenne, perché “batte la testa contro il muro, si strappa i capelli, è sempre nervosa e, quando gli prende, sfascia tutto…” sia a scuola che, soprattutto, in casa. I genitori e il medico collegano queste crisi al grave incidente stradale, che la ragazza ha avuto due anni prima, seguito da un periodo di coma e da un successivo grande nervosismo che, appunto, dura tuttora e non sembra avere vie di attenuazione.

La storia di questa famiglia appare subito costellata da un susseguirsi di eventi dolorosi che di volta in volta hanno scatenato esperienze di sofferenza di forte intensità: dice Giovanna che più volte si sono trovati, lei e il marito, a fare i conti con il pensiero di “farla finita”.

Tutto sembra iniziare, quando, all’età di 7 anni, Valentina, la prima figlia, muore, improvvisamente e inaspettatamente, in ospedale, due giorni dopo essere stata sottoposta ad un normale intervento di tonsillectomia, per un’emorragia improvvisa e incontrollabile. La morte di questa figlia congela Giovanna e Mario nel loro dolore: disperazione, sensi di colpa, solitudine e incomprensioni con le loro famiglie d’origine… Quando poi provano ad uscirne - almeno così essi pensano - si scoprono dentro un nuovo tunnel, quello della sterilità. Hanno pensato di fare un altro figlio, ma questo figlio non viene. Dopo quattro anni di tentativi inutili, Giovanna aderisce alla proposta del marito di adottarne uno e si attivano in questa direzione. Avuta l’idoneità all’adozione, lei rimane incinta e poco dopo arriva la notizia che la loro famiglia è stata scelta per una bambina di 8 anni. Anche se ora aspettano un figlio biologico, decidono di prendere ugualmente questa figlia adottiva. Così Vanessa entra in questa casa e due mesi dopo il suo arrivo nasce Elisa. Vanessa viene da un altro paese: dato che lo stato di gravidanza avanzata impedisce a Giovanna di affrontare il viaggio, vanno a prenderla Mario e sua cognata, la sorella della moglie.

Il pensiero che li ha guidati nel confermare la loro disponibilità ad accogliere in casa una figlia adottiva, nonostante ora stessero aspettando la nascita di una figlia naturale, a livello di consapevolezza, è stata l’intenzione di “non dare una delusione alla bambina che già sapeva di una famiglia che in Italia la stava attendendo”. Solo successivamente, durante il processo terapeutico, entreranno in contatto con un disegno più profondo che li stava guidando nelle loro scelte: colmare il vuoto che la morte di Valentina aveva creato; ma allora sentivano che quella era una buona decisione, non solo per Vanessa, ma anche per tutta la loro famiglia.

Quando vengono in terapia, spinti dalla preoccupazione per il comportamento di Elisa, ora quindicenne, in questa casa sono già successe tante cose che hanno appesantito ulteriormente la loro storia. Mario, il padre, nei suoi 56 anni è in uno stato di salute assai precario: operato per un meningioma, gli è stata asportata la teca cranica; questo stato, aggravato da due infarti sopraggiunti successivamente, gli impedisce di svolgere qualsiasi attività che possa richiedergli un minimo di sforzo fisico (portare in casa dall’auto le bottiglie d’acqua minerale, per es., per lui è impossibile), ha frequenti mal di testa accompagnati da altri disturbi, ma soprattutto vive – e vivono – nell’attesa che possa “capitare da un momento all’altro qualcosa di peggio”. Vanessa, ora 22enne, non vive più in famiglia e non per una scelta evolutiva, ma “perché - dice la mamma - l’ho buttata fuori di casa [dal momento che] ne ha combinate così tante…”.

Il procedere della terapia ci aiuta a cogliere le crisi e gli aggiustamenti che la famiglia mette in atto di fronte alla sofferenza che rischia, ogni volta, di travolgerli. Tante sono le fonti di dolore, ma l’esperienza che più di ogni altra li ha segnati è la morte della loro bambina: è come se fossero fermi lì, e tutto ciò che è successo dopo non solo non ha portato alcun sollievo, ma viene vissuto nel cono d’ombra che la morte di Valentina ancora genera.

Per Giovanna, soprattutto, quel momento è un ‘buco nero’ che tutto attira e tutto travolge. Più libero di muoversi sembra il marito: le esperienze di dolore che lo hanno attraversato, passando per il suo corpo, gli hanno permesso di muovere gli occhi e di far entrare nel suo campo visivo i cambiamenti e le novità che hanno scritto l’altro pezzo di storia della sua famiglia e della sua vita, quella storia che, invece, per questa donna si è fermata a 15 anni fa. Due figlie, Vanessa ed Elisa, non sono state sufficienti per lei, non dico per colmare, ma neanche per costruire un ponte, sopra questo baratro, che potesse collegare il prima e il dopo. Prigioniera nel dolore della sua anima, non è riuscita a far sentire alle due figlie, vive e presenti nella sua casa, che i suoi occhi di madre le vedevano e che i suoi orecchi le ascoltavano, al punto che per essere viste e per sentirsi ascoltate hanno dovuto escogitare e mettere in atto comportamenti sintomatici. La strada della devianza sociale viene presa da Vanessa – che accumula le esperienze più diverse: uso di sostanze, fughe da casa, ragazzi che prende e lascia l’uno dopo l’altro -, la strada della devianza psichiatrica è quella che si prospetta per Elisa che, a 15 anni, può rapportarsi con sé stessa e con i suoi familiari soltanto con atteggiamenti e comportamenti pesantemente aggressivi. E’ come se queste due figlie urlassero la loro presenza, ma non c’è chi le può ascoltare, perché chi dovrebbe farlo è imprigionato in una camera silente nella quale niente può entrare, ma dalla quale, pure, niente può uscire.

Un giorno, in una seduta, Elisa e Vanessa ‘urlano’ alla mamma che i muri della casa sono pieni delle fotografie di Valentina – che loro non hanno neanche conosciuta – mentre non ce n’è nemmeno una che ritragga loro due. L’hanno detto con rabbia, ma era una rabbia carica di dolore e di domanda. Sembrava che nessuno se ne fosse accorto prima di allora…

E’ questo il lavoro che attraverso la terapia abbiamo cercato di attivare con questa famiglia: le esperienze di dolore e la profonda sofferenza che le ha accompagnate sono state rivisitate, una ad una, nel tentativo di offrire loro un aiuto perché potessero ritrovare anche quelle esperienze di vita che pure hanno contribuito a scriverne la storia.

Il lavoro per questa famiglia non è terminato, anche se il tempo scandito dalle sedute per ora è concluso. In uno degli ultimi incontri abbiamo costruito un rito di saluto – un funerale – nei confronti della bambina morta: erano presenti i genitori ed Elisa. Sostenuti e contenuti dalla presenza del terapeuta, insieme hanno provato a dire a Valentina che lei poteva farsi la sua strada e che loro non l’avrebbero più ‘trattenuta’ con la richiesta di essere la loro unica ragione di vita; nello stesso tempo hanno provato ad ascoltare che anche questa bambina, che aveva dovuto lasciare questa dimensione della vita così presto e fuori tempo, stava dicendo loro che in quella casa la morte era passata, sì, ma accanto ad essa anche la vita era presente e che impiegare tutte le energie per trattenere una bambina che aveva terminato questo ciclo della vita non avrebbe consentito loro di percorrere la strada che, come persone e come famiglia, avevano ora davanti.

Ci fermiamo qui, per ora. Rincontreremo questa famiglia man mano che si svilupperanno le nostre riflessioni. (Del tutto aperto rimane il discorso sullo spazio di Vanessa, soprattutto per sua madre alla quale il marito non riesce, ancora, a dare quel sostegno necessario per riaprire la casa e il cuore per questa figlia).

 


La ricerca di senso: salute o malattia?

 

C’è un rischio di sapere mille cose […],
ma di non sapere più nulla
su chi sono io, chi sei tu, chi siamo noi
(Irigaray, 1977, p. 89)

 

Il dolore e la sofferenza hanno da sempre accompagnato la vita degli uomini e dalla presenza costante di questi inevitabili compagni nasce la domanda sul perché di questa condizione. Da questo perché – nel suo duplice significato di ricerca della causa da cui la sofferenza trae origine e di ricerca dello scopo per cui essa è presente nella vita – nasce il pensiero filosofico e il pensiero teologico che le varie culture, nel tempo, hanno costruito.

Lo spazio e il tempo hanno differenziato gli atteggiamenti e i pensieri di fronte a questa esperienza, epoche storiche e geografie diverse hanno costruito risposte e domande, in reciproca concatenazione, che sono apparse a volte integratesi, altre volte in opposizione e in contrasto; sempre comunque vive e forti, rapportate alla drammaticità del problema. “L’umanità in tutta la sua storia è stata attanagliata dall’esperienza del dolore e ad essa ha voluto dare un senso, di essa, in qualche modo, ha tentato una giustificazione” (Natoli, 1986, p. 78).

“Il dolore si conosce per esperienza. Questo fatto è talmente evidente da sembrare perfino ovvio”. Ma se ogni conoscenza è frutto dell’esperienza[5], “l’esperienza del dolore inaugura una tipologia di conoscenza del tutto irriducibile alle altre modalità di percezione del mondo. Sotto il segno del dolore, il mondo appare trasformato nella sua interezza” (id., p. 78).

Se possiamo cogliere un pericolo nel momento storico culturale che oggi stiamo vivendo, credo sia inevitabile vedere come un processo di sovraesposizione, quasi di spettacolarizzazione, del dolore rischia di mascherare un tentativo, inutile e doloroso perché fallimentare, di rimuoverlo dalla dimensione del quotidiano per relegarlo a spazi e momenti ad esso riservati come a potervelo chiudere perché non invada spazi che non sono ‘suoi’.

In questi ultimi tempi, avvenimenti particolari stanno richiamando la nostra attenzione e i massmedia continuano a bombardarci con una continua e ossessiva ripresentazione: la guerra in Iraq con i sequestri e gli attentati che con logorante quotidiana continuità la caratterizzano; le esecuzioni capitali in Iran, in Cina, negli USA; nuove epidemie, dall’influenza dei polli alla SARS; gli attentati e le violenze nella regione del medio oriente; bambini e adulti che muoiono per la fame o per l’AIDS in Africa; omicidi in famiglia con genitori che uccidono i figli e figli che uccidono i genitori… Fatti diversi e di diverso significato politico – nel senso originario di ‘ciò che attiene alla vita della pòlis’ -, ma fatti che continuano ad essere rappresentati quasi appartenessero ad una dimensione virtuale, tanta è la sovraesposizione mediatica che se ne sta facendo.

E’ difficile non vedere il tentativo di esorcizzare la presenza di tanto dolore, quando il ritmo della rappresentazione non permette l’accesso del pensiero alla riflessione e alla domanda da cui dovrebbe scaturire la ricerca di una risposta o, quantomeno, un tempo per il silenzio che non sia ossessivamente invaso e sopraffatto dal rumore.

L’onnipresenza dei massmedia, se da una parte ha ravvicinato gli uomini, riducendo, quasi annullando, le distanze geografiche, dall’altra sembra aver collocato l’individuo ad anni-luce di distanza da sé stesso, dal suo pensiero e dal contatto con la sua esperienza di vita, tanto ne ha amplificato la lontananza. Sembra paradossale che la tecnologia che ha avvicinato i popoli ora colloca il singolo individuo così lontano da sé stesso. “Sappiamo più cose, ma torniamo meno a noi per considerare il senso di tutte queste cose in un divenire umano più compiuto” (Mancini, 1975, p. 89).

Mi chiedo se l’essere caduti in questo tranello non sia legato alla difficoltà, che da sempre abbiamo incontrato, ad entrare in una relazione dialogante con questa dimensione della vita che chiamiamo dolore, sofferenza. In realtà sembra che fin dalle origini della specie, quando questa è arrivata alla consapevolezza e alla capacità di riflettere sulla propria esperienza, la domanda sul perché la sofferenza sia stata un’assidua compagna di vita si è aperta, e ancora aspetta di trovare una risposta univoca e soddisfacente.

Attraverso i miti prima, poi lungo un percorso evolutivo del pensiero che ha portato alla filosofia (da cui, man mano, si sono differenziate altre scienze, quali la teologia, la biologia, la medicina, la psicologia…), l’umanità ha cercato una risposta alla domanda fondamentale sul senso del dolore e, più radicalmente, sul senso della vita, fino a chiedersi se la presenza del dolore abbia un senso e, in ultima istanza, se la vita stessa abbia un senso. Dare un significato alle nostre esperienze ci permette di trovarci e ri-trovarci nella nostra individualità. Privati di questa ricerca, ci ritroviamo, invece, in uno stato di disorientamento e di frustrazione. Questa, del resto, appare essere la condizione dell’uomo contemporaneo. E questo è ciò che la clinica continuamente ci evidenzia. “Sembra infatti sempre più dimostrato che oggi la psicoterapia si misura non tanto con la frustrazione sessuale, come avveniva ai tempi di Freud, ma con la frustrazione esistenziale. […] Appare con sempre maggior evidenza che il problema dell’uomo d’oggi è incentrato sul sentimento di mancanza assoluta di senso nella vita, un sentimento di insignificanza che frequentemente è associato ad un sentimento di vuoto interiore” (Fizzotti, 2004, p. 97).

Scrive Galimberti: “Prima che un campo di gioco di pulsioni impersonali, l’uomo, come storicamente l’abbiamo conosciuto, è apertura al senso, e la sua libertà, prima che nella piena esplicazione delle pulsioni, si esercita nell’ampiezza di questa apertura. Se questo è vero, decisiva non sarà la repressione che si esercita sulle pulsioni […], ma quella che si esercita come restringimento dell’apertura al senso” (1999, p. 694).

Luigi, un uomo di 50 anni, dice di sentirsi immerso in un vortice dal quale non vede via d’uscita: “mi chiedo continuamente che cosa ho combinato in tutta la mia vita; […] quando mi fermo sento il pianto che mi chiude la gola e non trovo più senso in quello che sto facendo”. Si è sposato, ha due figli ormai grandi, separato, ha vissuto tante storie affettive; “nel sesso ho avuto tutto quello che potevo desiderare, tante donne […], mi hanno sempre cercato […]”; ha messo in piedi un’attività che ora sta andando bene, dopo aver superato tanti momenti economicamente difficili; ora, dopo l’ultima delusione affettiva, si chiede che senso ha avuto la sua vita, e questa domanda non lo lascia più, come un buco nero che tutto attrae a sé. Gli toglie il sonno, l’appetito, il piacere di portare avanti la sua attività, di stare con gli amici, con i figli… ‘Depressione’ direbbe il DSM, ‘crisi esistenziale da mancanza di senso’ dovremmo dire se ascoltiamo il dolore di quest’uomo.

Ho detto prima che questa sembra essere la nevrosi dell’uomo contemporaneo, ma, molto probabilmente, essa ha accompagnato da sempre gli individui nel corso della loro esistenza. Schopenhauer vedeva l’uomo oscillare eternamente tra i due estremi della noia e del bisogno. Quando ai bisogni primari la civiltà del benessere fornisce una risposta soddisfacente, a prevalere è la noia, per uscire dalla quale ci creiamo nuovi bisogni da soddisfare. Come se cercare una risposta ai bisogni è più tollerabile che non il doversi confrontare con la “crisi esistenziale da mancanza di senso”. Ma può l’essere umano vivere un’esperienza senza attribuirle un significato? Che poi questo avvenga attraverso un processo di attribuzione o un processo di decodificazione, credo non sia poi così significativo poterlo determinare: ciò che qui voglio sottolineare è la necessità con la quale ci confrontiamo, quasi un imperativo categorico, di trovare un senso alle esperienze della vita.

 

 

Dolore e sofferenza

 

Insegna più la sofferenza che l’allegria,
perché vedere un volto triste fa riflettere.
Quando le cose vanno bene, sta’ allegro,
se qualche cosa ti va male, rifletti.
(Bibbia, Qoelet, 7, 3.14)

 

Dolore e sofferenza sono spesso usati come sinonimi nel linguaggio quotidiano, soprattutto quando parliamo di quel dolore che invade l’anima ed al quale istintivamente e con tutte le forze ci ribelliamo. La parola dolore viene qui usata nel senso più ampio. Un’osservazione, tuttavia, potremmo fare sull’uso corrente di queste parole se proviamo a guardare il dolore nella sua dimensione di fisicità e la sofferenza come esperienza interiore che nasce nel momento in cui ci veniamo in contatto. Il dolore è un ‘dato’ e come tale in certo qual modo misurabile e quantificabile, la sofferenza è un ‘vissuto’, un’esperienza, e come tale rientra tra quelle categorie del pensiero che possono essere colte soltanto attraverso il filtro della soggettività.

Il dolore, di dolore fisico parliamo, è oggetto di misurazione da parte delle scienze mediche: lo stimolo che raggiunge un organo che viene tradotto dal cervello in dolore è senz’altro misurabile e in qualche modo confrontabile. Il concetto di soglia permette di misurare l’intensità di uno stimolo, quindi di attivare strategie per giungere, nelle forme possibili, ad un suo controllo perché il limite della tollerabilità, o addirittura della percezione, non sia oltrepassato. La percezione dello stimolo sensoriale, però, non esaurisce la sua azione in un’alterazione della biochimica cerebrale: essa diventa sentimento, cioè reazione emotiva alla percezione dolorosa.

Questo sentimento, che chiamiamo sofferenza, si presenta in una dimensione totalmente soggettiva che esula da qualunque forma di misurazione e di controllo. E’ un dolore dell’anima e come tale, sfuggendo alla misurazione, non consente il confronto. E’ qui, probabilmente, che nasce quel senso di solitudine che accompagna ogni esperienza di sofferenza personale: ciascuno di noi sente che la sua sofferenza non è come quella di un altro. Se da una parte la sofferenza è una realtà che ci avvicina in quanto esperienza che appartiene ad ogni essere umano, dall’altra la dimensione di ‘soggettività’ rende difficile l’incontro. La morte di Valentina è assolutamente confrontabile su un piano di fattualità, essa è la perdita di una figlia[6], ma la sofferenza che abita Giovanna è altra dalla sofferenza di Mario: essa acquista una dimensione assolutamente soggettiva e come tale chiede di essere colta e accolta.

“Se la lingua ha creato il concetto del dolore interno, psichico, e ha decisamente paragonato le sensazioni di perdita d’oggetto al dolore corporeo, ciò non può essere privo di senso” (Freud, 1925, p. 316). Il poter cogliere questa distinzione, dolore/sofferenza, ci permette di ascoltare l’altro nella sua peculiarità. Possiamo dire, tuttavia, che se si può essere vicini ad una persona nel momento del dolore, questa vicinanza non può che essere accompagnata da un vissuto di lontananza che diventa una sorta di ‘vicinanza/distanza di sicurezza’ tra noi due, quasi che la natura stessa dell’esperienza ci chieda di non con-fonderci, di non perderci, in un legame che non è possibile costruire, forse perché non sarebbe poi possibile sciogliere e uscire dalla [con-]fusione.

 

 

… e solitudine

 

 “Pensi al Getzemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla […]. Ed egli rimase solo. La sofferenza dovette essere grandissima. Capire che nessuno aveva capito nulla […]. Ma non era ancora il peggio! Quando fu inchiodato sulla croce e vi rimase tormentato dalle sofferenze esclamò ‘Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?’ […] Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio. Non è vero, signor pastore?”. E’ il sacrestano del film Luci d’inverno che parla. Lui, malato, in preda a terribili sofferenze fisiche, legge la storia della passione durante le notti insonni e riflette che l’agonia di Gesù, il dolore fisico non sono niente di fronte all’angoscia della solitudine, dell’incomprensione, dell’abbandono. Sentirsi soli fa più male di qualsiasi dolore fisico: è l’esperienza dell’abbandono, che significa, ad un livello più personale, sentirsi rifiutati “proprio nel momento in cui si ha bisogno di qualcuno su cui poter contare”: rifiutati da tutti, perfino da Dio.

E’ il 1962, quando Bergman, quarantenne, costruisce questo film. Un salto indietro nel tempo, tanto indietro da darci le vertigini, e incontriamo Giobbe. Siamo intorno al VI sec. a.C. Duemilacinquecento anni, ma l’incontro dell’uomo con il dolore è lo stesso. “Grido ‘violenza’, ma nessuno mi risponde, chiedo aiuto e non c’è giustizia (Bibbia, Gb 19, 7). Grido a te, ma non mi rispondi; sto davanti a te e non mi presti attenzione” (id. 30, 20). Di nuovo l’uomo di fronte al silenzio di Dio che poi diventa anche silenzio degli uomini, quindi solitudine e angoscia. “I miei fratelli egli ha allontanato da me e i miei conoscenti mi si sono fatti stranieri; i miei vicini sono scomparsi, i miei intimi mi hanno dimenticato. Mi aborriscono tutti i miei intimi e quelli che amavo si sono voltati contro di me” (id. 19, 13-14.19)

Giovanna ritiene che nessuno possa sentire tanto male come lei che si vede respinta in ogni sua dimensione. Nella sua famiglia d’origine, la depressione della madre e la precaria situazione economica che costringeva il padre a gettarsi totalmente sul lavoro giungevano a lei come un segnale che non solo doveva cavarsela da sola perché “nessuno poteva prendersi cura di lei”, ma suo compito era anche quello di supplire all’assenza materna nella cura dei suoi due fratelli. Così ha appreso che di lei non ci si può curare, che il suo dolore non può essere accolto. Ma un dolore non accolto congela i sentimenti, toglie ossigeno alle emozioni e l’unica via di sopravvivenza che le rimane, di fronte all’ingratitudine della figlia adottiva, è quella di urlare “io non sento niente per quella disgraziata: una cosa è certa, in casa mia non ci metterà più piede”. Il dolore che non può trasformarsi in sofferenza[7] produce soltanto paralisi e congelamento di pensiero ed emozione: non può che tradursi in agito. Un dolore non trasformato, ci ricorda Bion, può essere soltanto respinto, vomitato.

 

 

La sofferenza: espressione del processo evolutivo

 

Sappiamo bene, infatti,
che tutta la creazione geme e soffre
fino ad oggi nelle doglie del parto
(Bibbia, Rom. 8, 22)

 

Che il mondo sia inserito in un processo evolutivo è ormai un pensiero acquisito da tutte le scienze e da tutte le filosofie. Ogni ordine in formazione implica in qualche modo un dis-ordine ed ogni livello evolutivo si attua ‘a spese’ del precedente.

Nel processo di crescita di un individuo, nel ciclo vitale di una famiglia, l’acquisizione e il raggiungimento di una nuova fase evolutiva implica il superamento dell’equilibrio che teneva in vita la fase precedente e, in un certo senso, possiamo dire che si realizza a spese di questa. E’ il processo di trasformazione che richiede il superamento dell’omeostasi e se quest’ultima contiene in sé il concetto di equilibrio o di stasi, il suo superamento significa dover affrontare la sofferenza della trasformazione.

Noi sappiamo, però, che se l’equilibrio costruito e raggiunto in una fase volesse permanere nella sua staticità di fronte al mutare delle condizioni, interne e/o esterne al sistema, questo comporterebbe un grave danno al sistema stesso, un irrigidimento che ne bloccherebbe il processo evolutivo, e il blocco del processo evolutivo non può che significare la morte del sistema.

Con parole diverse Edgar Morin riprende questo pensiero parlando di ‘verità’ ed ‘errore’. Dopo aver richiamato una sua precedente considerazione sul fatto che “l’errore più grande sarebbe sottovalutare il problema dell’errore”, egli scrive: “Osserviamo che la vita comporta innumerevoli processi di individuazione, di repressione dell’errore e il fatto straordinario è che la vita comporta anche processi di utilizzazione dell’errore, non soltanto per correggere propri errori, ma anche per favorire la comparsa della diversità e la possibilità dell’evoluzione” (2003, p. 32).

La famiglia di Mario e Giovanna quando arriva in terapia è bloccata nel suo processo evolutivo. Come se la sua storia si fosse fermata a quindici anni prima, con la morte di Valentina. L’omeostasi o la ‘verità’ di questa famiglia si è congelata in una rigidità o ‘vecchia ortodossia’ che non permette la crescita e l’evoluzione. Simile sarebbe se una coppia non accettasse di ‘rompere’ l’equilibrio costruito attraverso la convivenza, al momento in cui entra nella sua vita un figlio: questa coppia – e il suo bambino – sarebbe destinata alla patologia relazionale e ad una sofferenza dell’individuo che prima o poi proverà ad uscire con il linguaggio del sintomo.

La realtà di questo pensiero è così forte che esso si evidenzia ormai in tutti gli aspetti che il pensiero umano ha saputo e sa assumere nel corso della storia: la filosofia, la scienza, la religione nelle loro diverse manifestazioni – sarebbe, probabilmente, più corretto parlarne al plurale: filosofie, scienze e religioni - hanno dovuto e devono fare i conti con questo processo evolutivo. Un pensiero nuovo nasce, quando il pensiero che l’ha preceduto ‘accetta’ di lasciargli il campo; così come un nuovo sapere può emergere, quando lo stato delle conoscenze precedenti ‘accetta’ la sofferenza della trasformazione, riconosce di non essere più adeguato alla realtà e può cedergli il passo. Lasciare il campo, essere superato, cedere il passo non sono modi diversi per dire che ciò che precede non ha più ragione di esistere e che la morte è la sola strada che permette la crescita, quindi l’evoluzione, quindi la vita?

Ogni nuova ortodossia – in campo scientifico o filosofico – si costituisce attraverso il superamento della ‘verità’ precedente. La dinamica ortodossia-eresia-nuova ortodossia esprime il processo evolutivo della ricerca. Anche in natura, del resto, ogni nuova specie nasce attraverso la trasformazione di una specie precedente: questo anche per la specie uomo che è potuta giungere allo stato odierno solo in quanto i gradini evolutivi precedenti hanno accettato la sofferenza della trasformazione.

E’ un processo così naturale che nella sua naturalezza ci disorienta, e lo fa al punto tale che non sappiamo porci davanti ad esso se non con un pensiero scisso in sé stesso: questo processo vale per tutto ciò che esiste in natura, ma non per me. Proprio come per Ivan Ill’ic, immerso nel dolore della malattia e della morte che si stava avvicinando: “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale – gli era per tutta la vita sembrato giusto nei riguardi di Caio, ma nient’affatto nei suoi propri…”(Tolstoj, 1886)[8]. L’aver raggiunto l’io sono c’impedisce di vedere che esso può nascere solo dal fatto che altri, prima di noi, pur avendo raggiunto la medesima consapevolezza che l’io sono sottolinea, hanno accettato di cedere il posto a noi che siamo sopra-ggiunti.

Sotto il segno del dolore, il mondo appare trasformato nella sua interezza. L’esperienza del dolore “qualunque ne sia l’origine ed in qualunque modo sia vissuta, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare una nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai prima s’era visto” (Natoli, 1986, p. 8).

Anche a livello di organismo vivente ritroviamo una medesima esperienza. “E’ sorprendente scoprire che tutte le stabilità apparentemente solide come roccia che stanno dietro alla singola mente e al singolo sé sono esse stesse effimere e vengono di continuo ricostruite al livello cellulare e molecolare. […] Alla fine della nostra esistenza siamo deteriorati e moriamo, ma è anche vero che la maggioranza delle nostre parti si deteriora nel corso della nostra vita ed è sostituita da altre parti deteriorabili. I cicli di morte e nascita si ripetono molte volte durante la vita: alcune cellule del nostro corpo sopravvivono soltanto per una settimana, la maggior parte per non più di un anno. […] Per la maggior parte i componenti che non vengono sostituiti, come i neuroni, vengono modificati dall’apprendimento. […] Non c’è nessun componente che rimanga invariato per molto tempo e le cellule e i tessuti che costituiscono il nostro corpo oggi per la maggior parte non sono gli stessi di quando eravamo ragazzi.” (Damasio, 1999, p. 178).

Eppure, paradossalmente, “è proprio la costante degradazione degli elementi molecolari e cellulari la malattia che consente all’essere vivente di trionfare sulla macchina: essa è fonte del continuo rinnovamento della vita: non solo il vivente si nutre del disordine, ma la stessa organizzazione di ogni essere vivente è essenzialmente prodotto di una perenne riorganizzazione. Quello della complessità biologica è il nodo gordiano tra perenne distruzione interna e autopoiesis, tra aspetto vitale e mortale […]. La soluzione più semplice, quella offerta dalla macchina, consiste nel ritardare l’effetto dell’entropia grazie all’elevata affidabilità dei suoi elementi costitutivi; la soluzione complessa, predisposta dal vivente, consiste invece nell’accentuare il disordine, ampliarlo, per trovare in esso la possibilità di rinnovare il proprio ordine” (Morin, 1970, p. 18).

 

 

Scienza e tecnologia,
dolore e sofferenza nella società contemporanea

 

Abbiamo incontrato, sopra, il processo di spettacolarizzazione del dolore come modello di relazione dell’uomo contemporaneo con la sofferenza. Un altro pensiero che caratterizza la società tecnologica è la persuasione che è possibile esercitare una qualche forma di controllo su ogni aspetto della vita umana, proprio com’è diventato possibile esercitare un controllo sugli strumenti che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Allo stesso modo in cui certi fenomeni naturali hanno perso quegli aspetti di mistero e di fascino che colpivano l’uomo nelle culture pretecnologiche, così pensiamo di essere in grado di non lasciarci sorprendere da fatti ed esperienze che ci toccano nella nostra esistenza. L’impegno nel controllare tecnicamente la natura, nel tentativo di contenerla nel limite del ‘progetto’ umano lo trasferiamo tout court in un attivismo che tende al controllo sull’uomo, fatto oggetto, macchina, con la convinzione di riuscire ad esercitare anche su di esso il medesimo controllo. “Si presenta così il grande progetto che le scienze naturali dell’uomo, farmacologia, biologia, ostetricia ecc., intenderebbero attuare: quello di un trattamento dell’uomo, fin dal livello embrionale, per renderlo programmato, ecologicamente e statisticamente” (Mancini, 1975, p. 27).

E’ questo controllo che l’uomo contemporaneo pensa di poter esercitare anche sul dolore. Il poterne definire la soglia, il livello di percezione, in altre parole il poterlo ‘misurare’ si traduce facilmente nel convincimento di poterlo ‘controllare’, di poterne controllare, ovviamente, la presenza, la percezione e l’esperienza.

La possibilità di intervenire nel controllo del dolore, che la medicina ha saputo sviluppare con grande capacità ed efficienza, se da una parte si configura come una grande conquista scientifica – strada sulla quale è assolutamente necessario procedere per liberare l’individuo dal dolore ‘inutile’[9] - , dall’altra rischia, però, di “elevare l’efficienza a principio indipendente” a scapito della capacità dell’uomo di curare la relazione e i sentimenti che l’accompagnano. Ma “elevare l’efficienza a principio indipendente porta a due conseguenze terribilmente pericolose. In primo luogo favorisce il pensare a breve scadenza: non si guarda avanti, fino in fondo, e questo produce un’insensibilità del sentimento, non si guarda intorno, ai valori della vita […]. In secondo luogo i mezzi diventano fini: il fare qualcosa diventa, cioè, la piena giustificazione del fare, indipendentemente da ciò che si fa” (Hillman, 1995, p. 38).

Torna alla mente l’obiezione di “quegli artificiosi facitori di parole [che dicono]: “E’ peculiare all’uomo l’aver ricevuto cognizione delle scienze, poiché egli, valendosi d’esse, può riparar coll’ingegno suo alle menomazioni inflittegli dalla natura. Ma è verosimile che la natura, dopo aver spiegato tanta attenzione pei moscerini, per le piante e pei fiori, solo rispetto all’uomo sonnecchiasse? […] Dunque le scienze si sono intrufolate nella vita degli uomini insieme agli altri malanni…” (Erasmo, 1509, p. 40).

E’ una conclusione ardita e, oggi, poco condivisibile. Un’attenzione particolare dobbiamo, però, porre al basso livello che sembra caratterizzare oggi il dialogo tra scienza e tecnologia. Quest’ultima ha come unico criterio di validazione la sua capacità di fare. In questo senso l’efficienza diventa sua legge prioritaria e la risposta del mercato ne definisce la validità. La scienza, invece, risponde al sapere, alla filosofia della vita, ai valori che definiscono una cultura e da tutto ciò viene illuminata nella sua ricerca e nel suo progredire. La filosofia ha portato alla luce categorie di fondo sulle quali poi è cresciuta la scienza nelle sue molteplici manifestazioni. La scienza ha bisogno della filosofia, di esserne illuminata per non travalicare i confini che le sono propri e per conservare la coerenza nei suoi obiettivi. Per sintetizzare questo pensiero potremmo dire: la scienza sa, mentre la tecnologia fa. E’ chiaro che una tecnologia che non sia guidata dalla scienza cade nell’autoreferenzialità e come tale sfugge a qualsiasi dialogo e ‘controllo’.

Credo sia legittimo chiederci se non sia stato questo iato tra tecnologia e scienza, se non addirittura una sorta di subordinazione di questa a quella, ad attivare quel processo che ha portato a guardare il corpo, luogo e soggetto di identità[10], esclusivamente come un organismo, un insieme, cioè, di organi e apparati che in nulla si distingue dagli altri organismi, se non per un differente livello di complessità. Al punto che lo specialista, oggi, rischia di porsi più di fronte al sintomo (nel nostro caso al sintomo-dolore) che non di fronte ad una persona-che-soffre, entrando così totalmente in quel principio di efficienza a scapito della capacità di relazione di cui parla Hillmann. Utile, a questo punto, richiamare una considerazione che Galimberti fa, riflettendo sul gesto come risposta al mondo che lo circonda. “Qui la scienza è vittima del suo metodo, perché, considerando il corpo nel suo isolamento e nell’esteriorità reciproca delle parti che lo compongono e dei processi che lo mobilitano, ignora l’intenzione che fa di ogni gesto una risposta ad una particolare situazione del mondo, per risolvere la gestualità in quella serie di risposte meccaniche offerte da un sistema nervoso sottoposto a stimolazioni esterne” (Galimberti, 1999, p. 98).

Eppure il pensiero scientifico moderno ci fa cogliere come il corpo non sia solo una realtà biologica: esso è la totalità dell’esperienza di sé dell’umano. E’ con il corpo che attivo il contatto con l’altro ed è attraverso il suo corpo che mi perviene la risposta nella relazione. Il corpo della medicina odierna ha perduto la sua natura di organismo pensante/senziente per trovarsi frazionato e sezionato in un serie infinita di parti sempre più piccole e sempre più impoverite perché private di quell’insieme che chiamiamo ‘vita’ e che fa la differenza tra il dato (il prodotto) della natura – l’essere vivente – e il dato (il prodotto) del laboratorio.

“Io credo – scrive Damasio – che la neurobiologia e la medicina dovrebbero orientarsi in modo deciso ad alleviare la sofferenza [cioè il sentimento che deriva dall’avvertire la reazione emotiva (= sofferenza) alla percezione di una certa classe di segnali sensoriali (= dolore)]” (1999, p. 360) anche quella sofferenza che deriva da situazioni personali e sociali che nulla hanno a che vedere con un dolore fisico-sensoriale. Il rischio per le scienze mediche è quello di adottare un atteggiamento di ‘soppressione’ verso qualunque forma di disagio. “I paladini di questa tendenza possono valersi di un’osservazione seducente: se un aumento del livello di serotonina, per esempio, può non solo curare la depressione, ma anche ridurre l’aggressività, rendere il soggetto meno timido, dargli maggiore fiducia, perché non sfruttare tale opportunità? Chi, se non un guastafeste bigotto, potrebbe negare ad un altro essere umano i benefici di tali farmaci miracolosi?” (id., p. 360).

Ci ritroviamo di nuovo di fronte alla seduzione della tecnologia (che in questo caso si chiama ‘farmacologia’) che sa misurare la sua validità esclusivamente sulla base dell’efficienza, incapace com’è di riflessione e di pensiero. Eppure sappiamo bene che “la mente è uno degli strumenti più sofisticati di cui disponiamo, ma non lo prendiamo in considerazione e, con un atteggiamento tipico dei tempi ‘moderni’, facciamo fare alla chimica quel che potremmo, almeno in parte, far fare alla mente” (Terzani, 2004, p. 101). Se siamo depressi, stanchi, nervosi, irritati, scontenti, delusi, troppo grassi o troppo magri e il nostro corpo non ci piace, corriamo alla ricerca della pillola giusta che ci risolva il problema. Ma “se la soluzione proposta per la sofferenze individuale e sociale aggira le cause del conflitto individuale e sociale, non è verosimile che possa funzionare per molto tempo. Potrà curare un sintomo, ma lascerà intatte le radici del malessere” (Damasio, 1999, p. 360).

E’ questo un tema cruciale nel dibattito che anima l’incontro tra psicoterapia e psicofarmacologia. Sappiamo bene, infatti, che “Ogni terapia mira alla salute. La salute è però una norma storicamente mutevole e socialmente condizionata. Se nell’attuale società per salute si dovesse intendere ‘capacità di lavorare e capacità di consumare’, come poteva dire anche Freud, e se questo concetto risultasse dominante anche per la psicoterapia, [… dovremmo] porre in questione anche l’idolatria che in tale concetto di produzione e di consumo viene ad imporsi ed evolvere un altro tipo di umanità. La sofferenza che si prova di fronte ad una società superficiale ed attivistica, apatica e quindi disumana, può essere un sintomo di salute psichica” (Moltmann, 1972, p. 358).

 

 

Tra miti e storia: da Pandora a Gesù di Nazareth

 

Se vuoi veramente vedere il male,
non essere cieco: guardalo alla luce del bene
(Tagore)

 

Pandora[11] è la prima donna creata dagli dèi per ordine di Zeus, quando questi vuole punire gli uomini ai quali Prometeo, da dio amico, aveva dato il fuoco divino. Ciascuno degli dèi collaborò nel darle vita: Efesto la fece dal fango, Atena vi soffiò la vita e la rivestì, Afrodite le diede la bellezza perché gli uomini se ne innamorassero ed Ermete le insegnò l’astuzia e l’inganno. Per completare la sua vendetta Zeus la inviò ad Epimeteo, fratello di Prometeo, che la prese in sposa. La sua dote era uno scrigno sigillato in cui gli dèi avevano posto tutti i mali che avrebbero afflitto l’umanità, insieme all’unico spirito positivo, la Speranza, che era stata posta sul fondo. Appena sulla terra, Pandora, curiosa di vedere i doni che aveva ricevuto in dote, aprì lo scrigno, e tutti i mali, i dolori, le malattie, le discordie, le sofferenze, si riversarono sugli uomini; velocemente cercò di chiuderlo, ma era tardi, così soltanto la Speranza, che era sul fondo, ne restò imprigionata. Allo spirito della Speranza non restò che gridare per essere liberato e poter, così, alleviare i dolori che avevano attaccato gli uomini che fino ad allora erano vissuti in un’esistenza libera da preoccupazioni e dalla sofferenza.

Così nel mito greco, come tramandato da Esiodo, ci viene detta da una parte l’origine dei mali e del dolore nella vita dell’umanità, dall’altra il permanere della speranza nel cuore degli uomini, che li sostiene tra le difficoltà del vivere.

I miti, le filosofie, le religioni si sono poste da sempre il problema del male nel mondo e del dolore che accompagna la vita degli esseri umani e di ogni altro vivente.

La storia di Siddharta, il Buddha, assume valore emblematico e simbolico nella sua significatività. Il giovane principe cresce in un mondo in cui non deve comparire alcuna forma di dolore in modo che egli sia libero dall’esperienza della sofferenza. Uscito dall’ambiente protetto in cui il padre lo faceva crescere, la prima cosa che lo colpisce è la presenza del dolore nella vita degli uomini. Dalla domanda sul perché esiste il dolore e su quale sia la strada da percorrere per liberarsene nascerà la ricerca che lo condurrà all’Illuminazione. Nel pensiero buddista e induista il dolore trae origine dal karma[12]: esso è la legge che regola azione e reazione, causa ed effetto, semina e raccolto. “La comprensione della legge del karma, intesa quale legge di giustizia, serve a liberare la mente umana dal risentimento verso Dio e gli uomini” (Yogananda, 1996, p. 459).

Come si pone il Cristianesimo di fronte al problema della sofferenza nel mondo? Credo sia opportuno guardare a questa domanda con una certa attenzione, e ciò sostanzialmente per due ragioni. La prima: il fatto che su di esso, ‘nel bene e nel male’ – nel suo nucleo originario, cioè, e nelle sovrastrutture che nel tempo si sono sovrapposte, offuscandolo a volte, quando non addirittura stravolgendolo – trova fondamento la nostra cultura occidentale. La seconda ragione nasce dal fatto che, a mio parere, esso s’inserisce nella storia della ricerca di senso di fronte all’esperienza del dolore, come un pensiero rivoluzionario.

La Bibbia considera la sofferenza un male che non dovrebbe esistere e che invece colpisce l’uomo in ogni tempo e condizione di vita e, nel chiedersi il perché di questa situazione, perviene al convincimento che all’origine di tanta calamità non può che esserci una responsabilità (colpa?). Adamo è il prototipo dell’uomo e come tale rappresenta l’umanità nella sua relazione con Dio: ciò fa sì che le sue scelte diventano scelte dell’umanità intera[13]. La relazione colpa-punizione è una relazione conosciuta in tutte le culture e la cultura ebraica – successivamente quella cristiana – non ne è esente. L’uomo diviene così responsabile del suo male.

E’ in questo contesto che si inserisce la rivoluzione del cristianesimo. Dio – pensato e colto nella sua lontananza/vicinanza con l’uomo – in Gesù di Nazareth entra nella storia come uomo-dio tra gli uomini. Entrando nella storia egli vive la medesima esperienza di ogni altro uomo, compreso l’incontro con il dolore e la sofferenza. Il dio-uomo, Gesù di Nazareth, entrando nell’universo degli uomini e divenendo uno di loro, assume il dolore e la sofferenza sulle sue spalle. Né sarebbe potuto essere diversamente: che condivisione sarebbe stata da parte di Dio se egli non avesse vissuto, come tutti gli umani, questa dimensione della vita tanto dolorosa e altrettanto onnipresente?

Se ripercorriamo attentamente la storia dell’uomo di Nazareth, vediamo che in lui non c’è nessun compiacimento nell’incontro con il dolore, tutt’altro. Egli ha sempre offerto la guarigione a coloro che incontrava sulla sua strada. Messo di fronte alla sofferenza e alla morte, nella sua vita, non può evitare di incontrarla, ma è chiaro che, se potesse, ne farebbe molto volentieri a meno. Gesù non è l’eroe della tragedia greca il cui eroismo si realizza proprio nella lotta titanica, ma disperata, contro il dolore e che deve resistere fino al suo annientamento. Egli piuttosto patisce la morte: non vorrebbe morire, tuttavia si vede costretto a subire un atto d’ingiustizia e non può evitarla.

Il fatto, però, che lo stesso Dio, entrato nella storia dell’uomo, non è esente dall’esperienza del dolore, sta a significare come questa sia una condizione irrinunciabile per l’evoluzione della storia. Il dolore, la sofferenza – in un parola che le riassume, il male – sono indicatori di un livello evolutivo ancora incompleto che comunque tende al compimento di sé, quindi al superamento della condizione di male per giungere alla pienezza del bene, unica dimensione possibile dell’essere. Omne ens in quantum ens est bonum[14] di Tommaso d’Aquino e “L’essere è, il non essere non è”[15] di Parmenide, sono due modi diversi per esprimere un pensiero con il quale non possiamo non misurarci nel momento in cui facciamo esperienza del male, inteso appunto come condizione di lontananza dal bene – che è la pienezza dell’essere.

Ci troviamo, ancora, di fronte all’eterno problema del rapporto tra il bene e il male. Due pensieri, sostanzialmente, ha prodotto la riflessione su questo tema. Nell’uno l’ipotesi di fondo vede due principi, assoluti e indipendenti, che si contendono il mondo e l’uomo: da una parte il principio del bene, dall’altra il principio del male[16]. L’altro pensiero, fatto proprio e sviluppato dalla filosofia-teologia cristiana sostiene che “questo nome - il male - non indica altro che la privazione del bene”[17] pertanto “tutte le cose sono buone e il male non è sostanza, perché se fosse sostanza, sarebbe bene”[18]. Più tardi, l’aristotelico Tommaso d’Aquino scrive “Non può essere, perciò, che male significhi un qualche essere o una qualche forma o natura: rimane che significhi soltanto l’assenza del bene”[19].

La presenza del dolore appare, in questo contesto, come presenza indicatrice di un processo evolutivo, non ancora concluso, che il mondo - quindi anche l’uomo - vive verso la pienezza di sé. La condizione attuale della natura umana - di tutta la natura per la verità - viene definita come movimento verso la pienezza della vita. Con un’immagine nello stesso tempo forte ed esplicativa di come il cristianesimo vede lo stato attuale del mondo, Paolo di Tarso scrive nella lettera ai cristiani di Roma “tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi per le doglie del parto”[20]. Come il dolore del travaglio acquista un senso alla luce del parto, quindi della nascita di un nuova vita, così la presenza del dolore nel mondo e nella vita dei singoli uomini acquista senso alla luce dell’attesa della “redenzione del nostro corpo”: lo stato di pienezza della vita verso la quale tutta la natura tende nel procedere della storia.

Ancora una riflessione. Abbiamo parlato sopra del senso di solitudine che accompagna l’esperienza del dolore. Questa solitudine, per il credente, anzi, soprattutto per il credente - in ogni religione - diventa solitudine estrema, quando, accanto all’abbandono che egli sperimenta da parte dei suoi simili, sopraggiunge la solitudine e l’angoscia dell’abbandono da parte di Dio. E’ in questo abbandono che il sacrestano di Luci d’inverno vedeva il massimo del dolore. “Facendosi uomo in Gesù di Nazareth, Dio non si immerge soltanto nella finitezza dell’uomo, ma anche, con la morte in croce, nella situazione di abbandono da Dio che l’uomo sperimenta” (Moltmann, 1972, p. 324).

Ma la croce, nella storia del dio-uomo, diviene la strada per raggiungere la resurrezione. Croce e resurrezione si illuminano e si completano a vicenda: la realtà del crocifisso e la realtà del risorto sono in una relazione di reciproca interdipendenza. “Una croce senza resurrezione significherebbe fallimento […] e una resurrezione senza croce significherebbe solo miracolo […] Ogni storia umana, per quanto contrassegnata dalla colpa e dalla morte, è superata in questa ‘storia di Dio’” (id, p. 288)

La rivoluzione del pensiero cristiano è proprio nel fatto che il Dio di Gesù di Nazareth è anniluce lontano dal Dio dei filosofi[21]. “Il teismo dice che Dio non può patire, non può morire, e questo lo afferma per dare un valido riparo all’essere che patisce e muore. La fede cristiana, invece, sostiene che Dio soffrì nella passione di Gesù, Dio morì sulla croce di Cristo, e questo affinché noi vivessimo e risorgessimo nel suo futuro” (id., p. 251).

Se riprendiamo ora la riflessione sulla figura di Adàm come ‘prototipo’ dell’umanità, quindi anche come ‘rappresentante’ dell’intera creazione, in quanto ‘non nato di donna’, possiamo comprendere il senso che dà il cristianesimo alla figura di Gesù di Nazareth: soltanto un altro Adàm, ‘non nato di donna’ perché uomo e Dio contemporaneamente, avrebbe potuto cambiare la scelta originaria, quindi avviare quel processo di ‘liberazione’ dell’umanità e dell’intero creato. La rivoluzione del pensiero cristiano rispetto al problema del dolore è tutta qui. Dio, facendosi uomo, a) prende su di sé il dolore e la sofferenza degli uomini, dicendo, in questo modo che queste sono dimensioni naturali di un processo evolutivo dell’intero creato non ancora giunto alla pienezza di sé; b) prendendo su di sé dolore e sofferenza, li porta al loro superamento attraverso il passaggio dalla croce alla resurrezione.

 

 

Il terapeuta e il dolore che cura

Scrivere è bene, pensare è meglio.
L’intelligenza è bene, la pazienza è meglio
(Hesse, 1922, p. 114)

 

Dove sta il pensiero del terapeuta rispetto alla sofferenza che accompagna l’incontro con l’esperienza del dolore?

Diventa necessità per il terapeuta collocarsi in una posizione dove la domanda sul senso possa restare aperta e non tentare la fuga nella chiusura del non-senso o in una risposta che congeli la ricerca, memore che “Una domanda possiede una forza che la risposta non contiene più” (Wiesel, 1958, p. 12).

Nell’incontro con la famiglia di Giovanna e Mario il terapeuta mette in gioco il suo pensiero sul ciclo della vita e della morte per aiutare la famiglia a ritrovare il proprio, così da poterne ricavare un’indicazione sulla strada da percorrere. In questa ricerca Mario si permette di uscire un po’ più di quanto non riesca a fare sua moglie. Il dolore che ha visitato il suo corpo – il meningioma prima, gli infarti poi – si è potuto trasformare in sofferenza (sub-ferre: stare sotto il peso e portarlo) che, come tale, diviene energia da mettere in campo per aprire al dolore degli altri: delle due figlie e di Giovanna che, invece, rischia di rimanere congelata nel suo. Un giorno racconta un sogno: è a letto e sta dormendo, ad un certo punto si sente chiamare dalla strada; scende dal letto e trova, in mezzo alla strada, la figlia Vanessa, ferita, che gli chiede aiuto. Non ricorda altro.

In Mario la dimensione paterna ritrova respiro: non è soltanto il padre di una bambina morta 15 anni fa, ma anche il padre di altre due figlie, una delle quali, Vanessa, ha profondamente deluso le sue aspettative, ma che, tuttavia, rimane sua figlia. Attraverso Mario si può arrivare a Giovanna nel tentativo di ri-attivare in lei la madre di queste due nuove figlie che sono entrate nella sua vita. Nell’ultima seduta arriviamo con la famiglia a fare il funerale di Valentina. E’ Mario che prende sua moglie vicino a sé, mentre insieme accendono una candela a rappresentare l’anima di quella bambina che i suoi genitori non riescono a lasciar andare per la sua strada. Se è difficile trovare un senso a quanto era successo, diventa assolutamente necessario ritrovare il permesso di procedere per la propria strada se non si vuole restare prigionieri di un dolore cieco e indicibile. Dall’espressione della sofferenza nasce la possibilità di una rinascita. Quando la sofferenza può tradursi in parola, detta con sé e condivisa con un altro, inizia/riprende il cammino verso la vita.

Irene, 30 anni, ha dovuto decidere per un’interruzione di gravidanza. Si era ritrovata incinta in un situazione assai confusa e difficile da dipanare. Qualche mese prima aveva perso Marco, il suo grande amore, trovato morto, una mattina, per un’overdose. Ora era dentro una nuova relazione, ma con Luigi non c’è affetto né vicinanza: solo la cocaina sembra unirli e il bisogno della trasgressione… Da sola affronta tutto l’iter dell’interruzione con una forza che nasce da un dolore estremo, pieno di disperazione e sensi di colpa. L’interruzione di gravidanza le dà la forza per uscire completamente dal giro: chiude con Luigi e non frequenta più quello che era stato fino a pochi giorni prima il suo ambiente e il luogo dove trovare un po’ di amicizia, sia pure vacua e sterile. Un nuovo grande peso, però, la opprime: interrompere una gravidanza per lei è fonte di nuovi sensi di colpa che si sovrappongono a quelli che già la opprimevano. L’incontro con questa giovane donna fa nascere in me un pensiero che mi permetto di mettere in campo nel tempo-spazio terapeutico (= della cura). Le dico, mentre mi rendo conto che lo sto dicendo a me stesso, che pure faccio fatica ad accettare un aborto, che io credo che quel ‘bambino’ è venuto ed è entrato in lei per prenderla per mano e farla uscire dalla strada della droga e della distruzione di sé, dentro la quale si stava perdendo. In una dimensione più religiosa – dimensione questa presente nella sua vita e nella mia – quel ‘bambino’ è come la concretizzazione di un pensiero d’amore che Dio ha fatto verso di lei per richiamare questa ‘figlia’ con la voce forte di una presenza dentro il suo corpo-anima. Ora che questo scopo era stato raggiunto, questo ‘bambino’ se n’era potuto andare e lei poteva continuare sulla strada della vita che aveva ritrovato. Ancora una volta dalla ‘morte’ nasce una vita.

Questo pensiero diventa un’àncora di conforto per Irene che inizia, in questo modo, il cammino di riconciliazione con il suo passato. Cammino difficile e lungo, ma necessario perché possa vivere nel presente la sua libertà di giovane donna nella costruzione del suo progetto di vita. “Il dolore appartiene al genere delle esperienze cruciali, poiché esso sottopone gli uomini ad una tensione che, quando non produce distruzione, accresce certamente la percezione” (Natoli, 1986, p. 8).

Non so dare altre indicazioni. So che le persone che incontro nel mio lavoro e che con coraggio mi portano il loro dolore, mi sono di grande aiuto per tenere aperta, dentro di me, la domanda sul senso della sua presenza. E nei momenti in cui lui bussa alla porta della mia esperienza sento risuonare dentro di me le parole di uno degli amici che erano andati a trovare Giobbe dopo aver sentito delle disgrazie che gli stavano piombando addosso. Elifaz, rivolgendosi all’amico che, nella disgrazia, maledice il giorno della sua nascita, gli dice:

“Ecco, tu hai istruito molti
e mani fiacche hai rafforzato,
le tue parole risollevavano il vacillante
e rinforzavi le ginocchia piegate.
Ora questo capita a te e ti abbatti?
Questo ti colpisce e ne sei terrificato?” (Bibbia, Gb 4, 3-5)

 

 

Cercando una conclusione

Non ho niente da dire che non sia stato detto prima di me
e non sono un abile scrittore.
Non pretendo di essere utile agli altri:
è per formare il mio spirito che compongo quest’opera
(Shantideva)[22]

 

Nello scrivere queste pagine spesso ho preso in prestito le parole e i pensieri che altri, vissuti prima di noi o nostri contemporanei, hanno usato per dirci della sofferenza che ha accompagnato l’incontro con il dolore della vita. Come se fosse difficile dare parola alla propria esperienza.

In realtà dobbiamo dirci che poco sappiamo del dialogo che ciascuno di noi può avviare con questa dimensione della vita se non quando esso comincia ad apparire e a prendere forma. Il mio dialogo è totalmente personale come personale è l’incontro con il dolore. Dicevo sopra che il dolore dell’anima non è misurabile né confrontabile, forse dobbiamo riconoscere che esso non è neanche del tutto comunicabile. Chi ci è vicino può provare ad ascoltare le nostre parole, può coglierne il senso, parte del senso - ma già queste sono la traduzione che siamo stati in grado di fare del nostro stato d’animo, di come e dove, cioè, sta la nostra anima nell’incontro con il dolore - , ma non potrà mai cogliere fino in fondo il colore e l’intensità che questo incontro assume per me.

Il condividere la stessa esperienza, tuttavia, ci permette di sentire che tentare di costruire una vicinanza diventa una sfida sulla quale muoverci in nome della solidarietà e dell’appartenenza al medesimo universo. Questa, del resto, non è anche la sfida su cui poggia la relazione psicoterapeutica?

Vorrei concludere, ora, con tre pensieri che, ancora una volta, non sono miei, me nei quali sento di ritrovarmi.

 Il primo, che permette di ridare una dimensione più sana alla tecnologia, quando pretende di porsi come nuova ‘religione’ per la civiltà contemporanea. “Vorremmo sperare che dolore e malvagità siano, per la Vita, condizioni transitorie che la Scienza e la Civiltà riusciranno un giorno a debellare… Bisogna essere più realisti ed avere il coraggio di guardare l’esistenza in faccia. Più l’Umanità si affina e si complica, più le possibilità di disordine si moltiplicano e più si accentua la loro gravità, infatti non si ergono le montagne senza che si scavino gli abissi ed ogni energia rappresenta una potenza [che può essere usata] sia per il bene che per il male. Tutto ciò che è in divenire soffre” (Theilard de Chardin, 1974, p. 18).

Il secondo, che ci mette in guardia dal rischio di ricorrere alla frammentazione, nel processo del pensare e del conoscere. “Il pensiero complesso sa che esistono due tipi di ignoranza: quella dell’uomo che non sa, ma che vuole apprendere, e l’ignoranza (più pericolosa) di colui che crede che la conoscenza sia un processo lineare, cumulativo, che procede facendo luce laddove prima regnava l’oscurità, ignorando che l’effetto di qualsiasi luce è anche di produrre ombre” (Morin, 2003, p. 66).

Il terzo, infine, come un invito a non stancarci nella ricerca. “Nessuno, mentre è giovane, tardi a filosofare, né, mentre è vecchio, si stanchi di filosofare; infatti, per acquisire la salute dell’animo, nessuno è immaturo o troppo maturo. E chi dice che non è ancora venuta l’età del filosofare, o che è già passata, è come se dicesse che non è ancor giunta l’ora di essere felici, o che è già passata”[23]. “E allora – domandò – quali dici che sono i veri filosofi?”. E io, in risposta: “Quelli che amano contemplare la verità” (Platone, Repubblica, p. 1208).

Ma filosofare è parola impegnativa e difficile, altrettanto quanto lo è la parola verità. Certo, da Platone al nichilismo del XX secolo ne è passato di tempo, ma le grandi domande che accompagnano gli uomini rimangono le stesse e chiedono di restare aperte. Proprio perché “una domanda possiede una forza che la risposta non contiene più”.

Nei momenti in cui il buio rischia di farmi perdere di vista la domanda, sento che questa può ancora essere ripresa e ascoltata: siano momenti in cui altri mi chiedono di condividere la loro sofferenza e di fare un po’ di luce nel buio pesto nel quale sentono di trovarsi; o anche momenti in cui è il mio incontro con il dolore a rattristarmi e a riportarmi nell’oscurità. Quando ritrovo dentro di me l’energia necessaria per sentirmi all’interno del processo evolutivo cui partecipa l’intero universo che “geme e soffre per le doglie del parto”, sento che questo ‘sentirmi parte’ si tramuta in conforto[24].

C’era una volta un’onda piccolina…
“Oh, quanto soffro – diceva ad un’altra onda – le altre onde sono così grandi e io sono così piccina. Alcune sono tanto ricche e io sono così misera”
“Pensi di soffrire perché non hai visto chiaramente il tuo volto originario”
“Non sono un’onda? E cosa sono?”
“L’onda è solo la tua forma temporanea. In realtà sei acqua”
“Acqua?”
“Quando ti renderai conto che la tua natura fondamentale è l’acqua, non penserai erroneamente di essere un’onda e la tua sofferenza sparirà”
“Oh, capisco! Io sono te e tu sei me. Siamo entrambe parte di un sé più vasto…”
Dice il saggio: “Gli uomini pensano erroneamente di appartenere solo a sé stessi. Quindi si paragonano agli altri e pensano di soffrire. In effetti però ogni persona è parte della natura…” (Chung, 1994, p. 27)


 

 

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[1] Dalla Bibbia, Rom. 8, 22.
[2] Un ringraziamento particolare a Gabriella Guidi, direttrice della didattica dell’Istituto di Terapia Familiare di Ancona, per il suo contributo all’approfondimento e al confronto su questi pensieri.
[3] Da una storia indiana. Citato da Terzani 2004.
[4] Il processo terapeutico è seguito in coterapia con la dr.ssa Guidi. I nomi delle persone ed alcuni particolari non significativi per il presente lavoro sono, naturalmente, cambiati.
[5] Cfr. Bion W.R., Learning from Experience, Tr. it. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972
[6] “Il lutto subentra sotto l’influsso dell’esame di realtà, il quale esige categoricamente che ci si debba distaccare dall’oggetto, dato che esso non esiste più” (Freud, 1925, p.317).
[7] Soffrire, etim. dal latino sub-ferre, da cui l’italiano so[tto]-portare.
[8] Scrive Freud: “La proposizione ‘Tutti gli uomini sono mortali’ fa infatti bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuno la considera tale e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l’idea della nostra stessa mortalità” (Freud, 1919, p. 103)
[9] Si veda tutta la problematica relativa alla ricerca sulle cosiddette cure palliative che, pur non curando la malattia, intervengono proprio sulla percezione del dolore che appare, in questo contesto, del tutto ‘inutile’, non svolgendo più quella funzione di allarme così preziosa per la sopravvivenza di un organismo.
[10] Freud parlava di io corporeo (1922, p. 488-490); per Sartre il corpo è “l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico” (1943, p. 429).
[11]Il nome Pandora significa “tutti i doni”: Πάν (pàn) = tutto + δώρον (dòron) = dono.
[12] La parola deriva dal sanscrito kri che significa “fare”. Sta ad indicare il “compito” che ogni essere vivente ha da svolgere in un ciclo di vita, compito che è collegato alle azioni compiute nelle sue incarnazioni precedenti.
[13]L’ebraico אדם (‘adàm) – da cui il nome italianizzato Adamo – significa “terra, suolo” e nello stesso tempo “uomo”. Prototipo (dal greco πρωτος (pròtos) “primo” + τύπος (typos) “impronta, segno”) dell’uomo significa che Adàm non è il primo uomo in senso cronologico, ma il pròtos in senso simbolico come il rappresentante dell’umanità: Adàm, infatti, non nasce da donna (= da altro vivente della sua specie) - come tutti gli uomini, quindi, inserito in una successione cronologica -, ma è l’uomo che esce direttamente dalle mani di Dio, pertanto la sua scelta è la scelta dell’umanità. Volendo andare oltre, nel coglierne il valore simbolico, possiamo vedere come egli non rappresenta solo l’umanità, ma proprio in quanto adàm, cioè terra, in lui troviamo il rappresentante dell’universo: l’umanità in adàm è il punto-culmine raggiunto dall’universo nel suo gradino evolutivo più alto, quello della consapevolezza di sé.
[14] “Tutto ciò che esiste, per il solo fatto che esiste, ha in sé la radice del bene” (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, sec. XIII d.C.)
[15] “Questo discorso è uno dei discorsi che devono essere messi nei tabernacoli della filosofia” E. Severino in un’intervista alla Rai del 15 marzo 1988 su Parmenide e la filosofia greca.
[16] Il manicheismo – sintesi ed evoluzione della religione di Zaratustra, elaborata da Mani nel III sec. d. C. - dà una sintesi chiara ed esauriente: il mondo è il risultato della lotta tra il principio del bene, o della luce, e il principio del male, o delle tenebre.
[17] S. Agostino, De civitate Dei, XI, 22 (IV sec. d.C.)
[18] Id., Le confessioni, VII, 12
[19] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q. 48 a. 1
[20] La lettera ai cristiani di Roma è collocabile, storicamente, intorno all’anno 56-57 d.C. durante il soggiorno dell’autore a Corinto.
[21] La distanza si coglie anche nel confronto con l’immagine di Dio che troviamo in altre religioni: ma questo è un tema che non può essere enunciato senza il dovuto approfondimento. Soprattutto per le implicazioni che potrebbe avere in questo particolare momento storico, dove i conflitti tra culture vengono spesso con-fusi con tematiche religiose.
[22] Shantideva è un autore indiano vissuto nell’VIII-IX sec d.C. La sua opera dal titolo sanscrito Bodhicaryavatara (Il Cammino del Risveglio) è uno dei testi ispiratori della letteratura poetica religiosa buddista indiana. La citazione è presa da Dalai Lama, 1992, p. 34.
[23] Epicuro, Epistola a Meneceo. Citato da G. Reale (2004, p. 122).
[24] A completamento del mio pensiero, devo dire che, la dimensione di cristiano fa sì che il conforto diventi maggiore, quando posso sentire in questo processo la presenza di Dio che, in Gesù di Nazareth, si è messo a fianco degli uomini, vivendo la stessa esperienza di incontro con il dolore. Come in una sorta di ‘relazione terapeutica’ dove il terapeuta si pone a fianco del paziente, perché questi possa sentirlo vicino e sentirsi sostenuto/contenuto nel suo processo evolutivo proprio perché anche egli vi appartiene e lo condivide.