Il cammino della vita.
Riflessioni per un uomo della società postindustriale

 

di F. Cardinali - in Appunti, febbraio 1989

PREMESSA / GUIDA ALLA LETTURA

 

Queste pagine contengono una serie di riflessioni apparentemente scollegate tra loro. Non ho voluto dimostrare una tesi: non servirebbe; è necessario che ciascuno percorra la sua strada secondo il ritmo che gli è naturale. Ho pensato di condividere degli interrogativi che sto ponendo a me stesso, come persona, prima ancora che come 'esperto della psiche', perché altri possano cogliere degli stimoli per la loro riflessione, come persone che vivono il nostro tempo e come cittadini che operano in quel pezzetto della vita sociale che li vede direttamente presenti (nel lavoro, nella politica, nel volontariato, ...). 
La complessità è l'elemento che caratterizza la società e la cultura contemporanee rispetto alla maggiore semplicità delle epoche, anche recenti, in cui sono vissute le generazioni che ci hanno preceduto. Non ha senso, ovviamente, voler tornare indietro pensando di ritrovare il paradiso perduto: è necessario, invece che l'uomo contemporaneo sappia costruire oggi le sue risposte ai problemi che questa epoca gli pone. Così come, del resto, hanno fatto le generazioni precedenti! 

 

1.   IL GIOCO DELLE CIFRE 

 

Solo alcuni dati. Un po' per curiosità, un po' per non dimenticare che le cifre, da sole, non dicono quasi niente: esse vanno sempre lette e interpretate. 
La durata media della vita, oggi, in Italia, è calcolata in 73 anni per gli uomini e 79 per le donne; è aumentata nel tempo e sta ancora aumentando. Un secolo fa il 16 % della popolazione arrivava a 60 anni, oggi ci arriva l'86 %; sempre un secolo fa era il 3,8 % ad arrivare a 75 anni, oggi ci arriva più della metà della popolazione, il 55 %. 
Il tasso di crescita è al di sotto dello zero: lo è da dodici anni. Perché il tasso di crescita sia zero (cioè perché la popolazione totale non aumenti né diminuisca: questo avviene quando c'è ricambio alla pari tra numero dei nati e numero dei morti) la media di figli per ogni donna è calcolata in 2,05. Nel 1987 eravamo ad una media di 1,29 figli per ogni donna: al primo posto nel mondo tra i paesi a bassa natalità. Se volessimo ipotizzare un prolungamento nel tempo degli attuali livelli di ricambio, la popolazione italiana scomparirebbe nel giro di 230 anni! 
Nella Vallesina nel 1951 eravamo 107.643 persone, di cui 13.296 avevano più di 60 anni; nel 1981, eravamo 97.626 di cui 20.798 ultra sessantenni. Il rapporto ultra sessantenni/popolazione totale in trenta anni è passato dal 12,4 % al 21,3.

 

2.   IL GIOCO DELLE ETÀ 

 

La parola 'età' ha bisogno di essere definita se si vuol fare un discorso utile e sensato. Vari sono i parametri d’osservazione; limitiamoci a considerarne tre che per il nostro discorso sono fondamentali: età cronologia, età biologica ed età sociale. 
Per 'età cronologica' è facile capire cosa indichiamo: sono gli anni che si contano dalla nascita di una persona. E' uguale per tutti. 
Per 'età biologica' intendiamo indicare l'insieme di quelle modificazioni che un organismo subisce con il passare del tempo. Non è uguale per tutti; è diversa da specie a specie, ed è diversa anche tra singoli individui che appartengono alla stessa specie (i processi di mutamento dell'organismo in alcuni sono più veloci, in altri più lenti; di uno diciamo che ha sessant'anni e non li dimostra, di un altro che ne ha venti e sembra averne cinquanta...). 
Con 'età sociale' intendiamo parlare del significato che una determinata società attribuisce a quella certa età (cronologica e/o biologica). E' evidente che a questo punto il discorso diventa assai complesso data la risonanza che la definizione sociale dell'età ha, sia nell'atteggiamento della società stessa rispetto alle varie età (fanciullezza, giovinezza, vecchiaia, maturità) che nella percezione (e conseguente atteggiamento) personale dei singoli individui che appartengono ad una data 'classe' d’età.

 

3.   QUANDO SI È VECCHI, QUANDO SI È GIOVANI? 

 

Nei nove mesi che vive all'interno del corpo della madre, il bambino, per arrivare al peso-forma della nascita, cresce 3 miliardi di volte; nei 70 anni successivi crescerà non più diventi/venticinque volte. La sua capacità di accrescimento è notevolmente diminuita: si può dire che il bambino nasce 'invecchiato' rispetto ad essa? Perché no? 
A settanta anni si è vecchi per giocare una partita di calcio; si è nella piena maturità per guidare un governo o una nazione. A venti anni si è stravecchi se si vuole mettere le mani su una tastiera di pianoforte per la prima volta (salvo che per diletto personale!); a ottanta un concertista può ancora suonare divinamente. 
E' evidente, dunque, che essere vecchi o essere giovani è un concetto relativo: si è giovani o vecchi per una determinata cosa, in riferimento cioè a parametri ben precisi. Non si è 'vecchi e basta', n‚ si è 'giovani e basta': si è vecchi o giovani sempre in riferimento a qualcosa di molto preciso. 
Il problema nasce, allora, quando andiamo a vedere il valore che la società di appartenenza di un individuo dà a quel 'qualcosa' rispetto a cui si definisce una data età.

 

4.   UN PROCESSO MENTALE UN PO' STRANO 

 

Abitualmente pensiamo che una cosa ha un valore per sé stessa. Dimenticandoci completamente che chi definisce il valore di una cosa (di un oggetto, di un luogo, di una capacità, ecc.) è l'uomo che la usa: se si è affamati e ci si trova, da soli, in mezzo a un deserto, vale molto di più un pezzo di pane e un po' d'acqua che una Ferrari in garage o un cospicuo conto in banca, se si vuol salvare la vita. 
E' un'osservazione ovvia, si direbbe fin troppo elementare: questo animale-sociale che è l'uomo, però, non dimentica mai di dimenticarsene. Agisce e vive come se il fondamento del suo essere gli venisse dal di fuori di s‚ stesso, dalle cose che possiede, dalle cose che produce, da quelle che compera, da quelle che vende, dalle cose che sa fare e da quanto riesce ad accumulare. 
Vive e si comporta come se non fosse lui a definire il valore alle cose, ma fossero queste a definire il suo. 
Succede che a un certo punto questo meccanismo 'perverso' gli si ritorce contro: come se avessero un'anima in loro stesse, le cose e gli oggetti scartano un uomo che perde o diminuisce la capacità di ri-produrle, non sanno più che farsene e ripartono immediatamente alla ricerca di qualche altro individuo che si mostra 'capace' di rispondere al loro bisogno di sopravvivenza e di moltiplicazione. Queste stesse cose dunque definiranno il vecchio 'inutile' per loro; il giovane, invece, che le sa ri-produrre e moltiplicare è il benvenuto. I vecchi non servono.

 

5.   VERSO LA MATURITÀ, OVVERO LA CRISI DEL LIMITE 

 

Da bambini ci dicevano: "Cosa farai da grande?"; e noi rispondevamo: "Da grande farò...". Ai bambini chiediamo: "Cosa farai da grande?"; e loro ci dicono: "Da grande farò...". E' successo così che ci hanno insegnato, e noi a nostra volta continuiamo ad insegnare, che da bambini si deve vivere solo in funzione del diventare grandi (nel senso di 'adulti' evidentemente). A scuola ci si va “perché così da grandi...”; i genitori fanno i sacrifici per i figli "perché così da grandi...”. E via di questo passo. 
Poi un bel giorno ci si accorge che 'grandi', cioè adulti, ci si è diventati: o, almeno, così dice quel numero che definisce la nostra età (cronologica). 
I sogni dei bambini, si sa, sono sempre immensi ('onnipotenti' dicono gli psicologi); la realtà, si sa anche questo, ha sempre confini molto precisi e una dimensione molto concreta, 'reale' appunto. La realtà, dunque, e l'onnipotenza parlano due lingue lontane e reciprocamente incomprensibili, di più: inconciliabili. 
L'uomo adulto si trova ora a fare i conti con la dimensione reale della realizzazione dei suoi progetti; questo lo porta alla consapevolezza che i sogni infantili sono realizzabili sì, ma all'interno di una cornice molto limitata rispetto all'infinito orizzonte del bambino. 
Il lavoro che si fa è spesso piuttosto lontano dalle aspettative; il compagno o la compagna della vita non sono né il principe azzurro, né la fatìna dai capelli d'oro: sono invece una persona molto concreta e reale, per ciò stesso con pregi e difetti.

 

6.    INVOLUZIONE O CRESCITA? 

 

Prendere coscienza del 'limite' e farne una misura di vita è parte integrante del processo di maturazione di un individuo: significa saper fare i conti con le proprie energie e comprendere, in profondità, che ognuno è parte di un universo più ampio (l'universo degli uomini e della natura) e quindi comprendere che solo all'interno di questa dimensione universale si potrà cogliere il significato della propria dimensione (realtà) personale. 
Proprio della nostra cultura (industriale e postindustriale), invece, appare un pensiero ed un atteggiamento costante: quello di rintanarsi nel sogno infantile, onnipotente, e quindi voler negare la dimensione reale della vita. Di qui quell'iperattività senza tregua che sembra diventato il ritmo 'naturale' del vivere quotidiano. E' come se si fosse strutturata un'equazione del tipo: vivere = produrre, quindi consumare; l'alternativa significa morire: ma la morte non fa parte del sogno infantile. L'uomo così deve produrre, sempre e dovunque, non importa a quale costo. L'uomo, finché produce ha diritto a vivere; quando non è più in grado di produrre che vive a fare?

 

7.   LA VITA E LA MORTE: LE DUE FACCE DEL VIVERE 

 

Eppure tutto ciò che ha un inizio ha pure una fine: perfino ciò che produciamo attraverso quella tecnologia che ci rende così orgogliosi, perfino noi stessi che di questa tecnologia siamo i costruttori. Questa, del resto, è la nostra esperienza quotidiana: chi la può negare? 
L'esperienza è la strada maestra di ogni nostro sapere e di ogni nostro conoscere, in poche parole è attraverso di essa che si verifica ogni nostro apprendimento. 
L'uomo capace di riflettere sulla sua esperienza e di imparare da essa è l'uomo 'saggio'; in termini più scientifici e meno filosofici, è l'uomo 'maturo', l'uomo cioè che sa cogliere il significato della vita. L'individuo che non sa investire parte delle sue energie in questo processo di riflessione e di conoscenza si vede costretto a fuggire continuamente da sé e a correre a perdifiato per le strade della dis-trazione (trarre altrove) e del consumo: vive solo in quanto consuma: più consuma, più vive; che è come dire, ancora una volta, che sono le cose (prodotte e consumate) a definire il valore della vita. Abbiamo cambiato: non più “penso, quindi esito!”, ma “produco e consumo, quindi esisto!”

 

8.   LA VECCHIAIA: L'ETÀ PER COMPRENDERE 

 

Ogni corsa a un certo punto finisce. Anche la più lunga e anche la più difficile. Non si può correre all'infinito. Si direbbe una 'legge naturale'. 
Con il passare degli anni l'esperienza cresce e con essa la capacità di coglierne i significati più importanti. Certo, se il contatto con essa è già in atto da tempo, questo diventa ora molto più ricco e profondo; il contatto con sé e con la vita che si è coltivato negli anni precedenti si approfondisce; il tempo si fa più umano e più rispettoso del ritmo naturale. 
La morte, prima paventata, esorcizzata, negata, ora diventa una luce che illumina la storia, propria e degli altri: è il punto di osservazione che ti fa cogliere il senso della vita. 
E' una nuova dimensione del vivere che ci viene offerta, come se la natura non volesse rinunciare, a nessun costo, a fare il suo cammino di crescita e di maturazione. L'uomo (l'umanità) viene invitato a ri-costruire quel legame che sta a fondamento del suo vivere, e quindi del suo conoscere. 
Potremmo qui cogliere il significato e il valore del ritmo di vita dell'anziano: significato e valore per il singolo individuo, ma anche per la società di cui è parte integrante.

 

9.   LA VECCHIAIA: L'ETÀ PER CONTESTARE 

 

Mi piace pensare che da questo punto di vista gli anziani sono i maggiori contestatori di questa società: altro che '68 o rivoluzione francese! Sono i valori fondanti della civiltà industriale (o postindustriale che sia) che vengono ridimensionati da una grossa fetta di umanità (che sta diventando sempre più grossa, come ci dicono le statistiche sulla popolazione). 
A questo punto l'atteggiamento comune verso gli anziani può percorrere due strade: 
1. accogliere questa 'contestazione' e accettare di rimettere in discussione l'attuale ritmo di vita (vivere-produrre-consumare, sempre con la lingua di fuori) che tutti stiamo verificando come potenzialmente autodistruttivo; 
2. soffocare e spegnere questa miccia accesa, riproponendo con forza ai 'contestatori' di rientrare a bordo nel rispetto delle regole, e quindi di farsi da parte se non sono più 'capaci di produrre e di consumare' quelle cose che fondano il valore della nostra esistenza. 
E' la seconda strada, mi pare, quella che stiamo percorrendo. Animazione per gli anziani, gite per gli anziani, divertimenti per gli anziani, occupazione del tempo libero degli anziani, colonie per anziani, e via di questo passo... stanno riempiendo la bocca di tutti, cittadini e amministrazioni pubbliche, partiti e sindacati, perfino certe organizzazioni private che vi hanno intravisto una nuova fetta di mercato. 
Intendiamoci, non che ciò sia negativo per sé. Negativo, e quindi pericoloso, è lo spirito che sottostà a tutto questo darsi da fare: “si deve fare qualcosa per gli anziani!” questo è l'ordine di scuderia, allora qualunque cosa va bene, purché 'si faccia'. Ancora una volta la parola d'ordine è "fare". Si fa pur di fare senza accorgersi che questo fare è vuoto, dietro non c'è un pensiero che lo regge e che permetterebbe, invece, di ascoltare i bisogni 'reali' di queste persone, gli anziani appunto, che ora hanno acquisito la capacità di guardare la vita da un punto di osservazione più alto che permette di godere di un orizzonte molto più vasto. Ci poniamo di fronte a loro come se fossimo sempre noi a dover fare delle cose per loro, e, presi dalla furia del fare, sempre in corsa e con il fiato di fuori, neanche ci accorgiamo di quanto loro possono fare per noi: farci sentire che l'orizzonte della vita è molto più ampio di quanto si possa cogliere a 20, 30, o anche solo 40 anni! 
E' questo, credo, quello che avevano capito le generazioni precedenti alla nostra quando guardavano con profondo rispetto alla vecchiaia come all'età della saggezza e della maturità; è questo, credo, che hanno capito quelle popolazioni 'non civilizzate' che considerano i vecchi come un patrimonio di ricchezza per la loro società e la loro cultura. 
Chi sa, forse ancora una volta un processo naturale che ci fa tanto paura, come l'invecchiamento della popolazione, potrà offrirci l'occasione di ri-pensare certi ritmi innaturali che ci siamo costruiti e che si stanno rivelando ogni giorno sempre più distruttivi verso la capacità di vivere e di gustare questo nostro mondo...